CONTRARIAMENTE AI PAESI GERMANICI E SCANDINAVI, L’ITALIA NON HA UNA TRADIZIONE FORMATIVA DI TIPO “VOCAZIONALE”, VOLTA A FORNIRE GIÀ NELLA FASE SCOLASTICA COMPETENZE PRATICHE CORRISPONDENTI ALLE ASPIRAZIONI DEL GIOVANE: IL PROBLEMA NON È SOLO DI DENARO, MA ANCHE DI KNOW-HOW
Articolo di Maurizio Ferrera pubblicato sul Corriere della Sera dell’11 giugno 2013 – V. anche, in proposito, l’intervista alla ministra tedesca del Lavoro pubblicata sullo stesso giornale il 10 giugno
Venerdì si terrà a Roma il vertice fra Italia, Francia, Germania e Spagna sull’occupazione giovanile. L’obiettivo è quello di preparare proposte per il Consiglio europeo di fine giugno. Cosa si potrà chiedere all’Europa? E quali politiche devono adottare i Paesi membri? Nella sua intervista di ieri al Corriere, Ursula Von Der Leyen, ministra del Lavoro, ha già di fatto chiarito la posizione tedesca. La via maestra deve essere l’apprendistato, fiancheggiato da efficaci servizi per l’impiego. Per finanziare questo tipo di programmi, i Paesi membri non devono tuttavia contare troppo sulla Ue: i fondi vanno reperiti all’interno dei bilanci pubblici nazionali, come ha fatto appunto la Germania. Si tratta di una posizione comprensibile, ma che rischia di rendere le cose difficili per Francia, Spagna e in particolare l’Italia. Contrariamente ai Paesi germanici e scandinavi, l’Italia non ha una tradizione formativa di tipo «vocazionale», volta a fornire già a scuola competenze pratiche. Solo il 23% degli studenti frequenta istituti tecnico-professionali, di contro al 64% della Danimarca, al 76% della Germania e addirittura al 90% della Svizzera. Il nostro sistema educativo è poi debolissimo per quanto riguarda i percorsi misti scuola-azienda. Dagli anni Sessanta in poi, abbiamo puntato sempre di più sull’istruzione generalista (la cosiddetta «licealizzazione»). Ma la rinuncia al canale tecnico-professionale ci priva oggi di un formidabile strumento per l’inserimento dei giovani. E purtroppo gli sforzi della riforma Fornero per far decollare l’apprendistato non sembrano aver condotto sinora a grandi risultati.
La ministra tedesca ha insistito anche sui servizi per l’impiego. Su questo fronte la Germania non disponeva di una tradizione consolidata. Ma negli ultimi dieci anni il governo di Berlino ha investito molte risorse (tagliando altre spese) e ha creato un sistema che è oggi fra i migliori d’Europa.
Per muovere verso il modello germanico-scandinavo, il governo Letta spera di poter ottenere da Bruxelles due concessioni: l’aumento del fondo «Iniziativa giovani» istituito dalla Ue e un trattamento di favore (magari lo scorporo dal deficit) per investimenti a carico del bilancio nazionale. Sul primo punto, Letta potrà dirsi già fortunato se riuscirà a ottenere che il fondo giovani venga messo a disposizione (tutto) fra il 2014 e il 2015. All’Italia arriverebbero circa 400 milioni: meglio che niente, ma davvero poco rispetto a ciò che servirebbe. Sulla seconda concessione, la ministra tedesca è stata chiarissima: niente deroghe né trucchi contabili, «chi ha meno risorse, deve usarle in modo più mirato». Come a dire: dovete scegliere se investire seriamente sui giovani o fare altre cose (per intenderci: abolizione dell’Imu, rinvio dell’Iva e così via).
Può darsi che, insieme a Hollande e Rajoy, il nostro presidente del Consiglio riesca ad ammorbidire la linea tedesca. Von Der Leyen ha dimostrato apertura nei confronti di un maggior coinvolgimento della Banca europea degli investimenti di una concentrazione dei fondi di coesione Ue verso l’emergenza occupazionale e gli stimoli alla crescita. Ma i tempi di simili azioni saranno lunghi. Se Enrico Letta fa sul serio (come sempre ha fatto) quando parla di occupazione giovanile, dovrà effettuare scelte nette e rapide a livello nazionale. Il successo dei governi di grande coalizione si misura sulla loro capacità di definire le priorità di bilancio. Altrimenti degenerano in ammucchiate spartitorie, sempre in bilico fra nuova spesa in deficit oppure crisi di governo. Due opzioni diverse, entrambe irresponsabili.