TORNARE AL METODO GALILEIANO PER LE RIFORME

UNA MAGGIORANZA DI  GOVERNO BI-PARTISAN COME LA NOSTRA ATTUALE POTREBBE COSTITUIRE IL CONTESTO IDEALE PER L’APPLICAZIONE DI UN NUOVO METODO SPERIMENTALE PER LA SCELTA DELLE POLICIES MIGLIORI, IN OGNI CAMPO INCOMINCIANDO DA QUELLI DELLA SCUOLA E DEL LAVORO

Articolo di Andrea Ichino pubblicato sul Corriere della Sera il 28 maggio 2013

Se Aristotele fosse qui, guarderebbe nel telescopio! Questo è il senso delle parole che  Galileo, nel “Dialogo sopra i Due Massimi Sistemi”, affida a Filippo Salviati per invitarci a preferire il metodo sperimentale e l’osservazione dei fatti, piuttosto che la cieca fiducia nell’autorità di princîpi ideologici a priori.
Tornano in mente queste parole pensando a quel che il Governo potrebbe utilmente fare. È un Governo che riunisce persone che la pensano in modo opposto su quasi tutto. Nulla di male, anzi ben venga questa coalizione, se il suo obiettivo primario fosse ridisegnare le regole del gioco (cosa che richiede appunto l’accordo tra tutte le squadre in campo). Ma è difficile pensare che persone e forze politiche così diverse, pronte fino a poco fa ad accusarsi delle peggiori malefatte, ora possano davvero decidere insieme strategie coerenti ed efficaci per il lavoro, la scuola, l’università, la giustizia e tutti gli altri ambiti nei quali il Paese ha bisogno di riforme profonde, non approssimative ed incoerenti a causa di veti contrapposti.
Mentre si discutono le regole del gioco, però, il Governo potrebbe usare bene il suo tempo raccogliendo dati e sperimentando riforme su piccola scala che poi forniranno utili informazioni, in un senso o nell’altro, a qualsiasi compagine governativa la quale si trovi a governare in futuro. Si ridurrebbe così la necessità di scontri su quei princípi che ogni fazione deve chiamare in causa se sono in discussione riforme definitive, ma che potrebbero essere accantonati in una fase sperimentale.
È proprio una questione di metodo dal quale la politica e la burocrazia italiane, di ogni colore, sembrano infinitamente lontane. In primo luogo, basterebbe abituarsi a fare ciò che serve (e costerebbe poco) per rendere disponibili i dati necessari a monitorare l’evolversi dei fatti.  Tanto per dirne una, pare che sia oggi impossibile valutare gli effetti della riforma Fornero sulla disciplina dei licenziamenti, perché le banche dati ministeriali non sono state modificate in tempo per registrare le nuove fattispecie procedurali previste dalla riforma.
Più in generale, in nome di una tutela della riservatezza assunta a bene assoluto, si impedisce l’utilizzo congiunto di dati di fonti amministrative diverse che, in altri Paesi, consente a chi fa ricerca per la pubblica amministrazione di dare utili indicazioni alla politica. Un esempio tra i tanti è quello dei test di ingresso a Medicina. Se ne discute ogni anno accesamente sulla base delle proprie convinzioni. Ma senza dati longitudinali adeguati sulle carriere scolastiche, universitarie e lavorative non potremo mai capire se servano o no a selezionare i migliori medici.
Politici e burocrati italiani (non quelli di altri Paesi) sono poi lontani anni luce dall’idea di effettuare in campo sociale, sperimentazioni controllate come quelle che normalmente si effettuano in campo medico per valutare gli effetti delle terapie. Non le sperimentazioni di facciata che, ad esempio nella scuola, sono state ripetute senza una vera valutazione dei risultati (un’eccezione: Valorizza che nel 2011 ha utilizzato indicatori di reputazione per premiare gli insegnanti migliori). Quello che intendo sono vere sperimentazioni che consentano l’identificazione di nessi di causalità, mediante il confronto tra “casi trattati”  e “casi controllo” comparabili tra loro.
Molto in questo senso potrebbe fare il Ministro del Lavoro per sperimentare misure diverse a favore non solo dell’occupazione giovanile, ma anche di quella degli anziani (perché puntare ad una riduttiva staffetta generazionale?). Lo stesso vale per il Ministro della Giustizia, il cui dicastero ha bisogno di capire come ridurre l’esorbitante flusso di casi che arrivano in giudizio, soffocando i tribunali italiani, e quali pratiche siano più efficaci per ridurre il colossale arretrato. Nulla poi vieterebbe ai Ministri degli Interni, della Funzione Pubblica e soprattutto dell’Istruzione di sperimentare ruoli diversi dello Stato nei servizi che gli competono.
Per esempio, limitare lo Stato a regolare e finanziare i suoi servizi lasciando ad altri la loro erogazione, ipotesi che gli italiani (vedi Rodotà sul Corriere del 21 maggio) non riescono nemmeno ad immaginare. Per loro, la scuola e l’università sono pubbliche solo se gestite dallo Stato in ogni dettaglio. In altri Paesi, al contrario, abbondano esempi in cui scuole e università sono autogestite localmente da chi, anche privato, ha le migliori informazioni per farlo, pur rimanendo pubbliche perché finanziate e regolate anche strettamente dallo Stato. È il suggerimento del Forum “Idee per la Crescita” nei corsivi del Corriere pubblicati in questi giorni.
Non ho la certezza che questo modo di pensare il servizio pubblico sia il migliore, ma vorrei poter guardare nel telescopio per capire quali sono i fatti e decidere poi in base a quelli, invece di fare come il filosofo Simplicio del dialogo galileiano che rifiuta a priori questa possibilità.

 

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