OGGI IL DISCRIMINE FONDAMENTALE DELLA POLITICA ITALIANA NON CORRE FRA I DUE VECCHI SCHIERAMENTI, MA TRA CHI VUOLE DAVVERO PERSEGUIRE FINO IN FONDO LA STRATEGIA DELL’INTEGRAZIONE EUROPEA DELL’ITALIA E CHI INVECE INTENDE MANTENERE IL PAESE ANCORATO AL VECCHIO EQUILIBRIO MEDITERRANEO
Intervento all’assemblea nazionale di LibertàEguale, svoltasi a Roma il 25 maggio 2013
La questione cruciale della politica italiana oggi consiste nella scelta se mantenere il Paese nel suo attuale equilibrio sistemico tradizionale di tipo mediterraneo, oppure imboccare la via di un suo spostamento verso un equilibrio che gli consenta di integrarsi con le altre grandi economie centro- e nord-europee. La profonda riforma necessaria per questa seconda opzione è di tale difficoltà tecnica e politica, urta interessi costituiti e rimuove rendite di tale entità, che essa richiederebbe una grande coalizione tra i partiti maggiori di destra e di sinistra. Senonché, sia all’interno del centrodestra, sia all’interno del centrosinistra, ci sono blocchi politici molto forti che non sono e non saranno mai disponibili per questa “riforma europea”: il loro dna e una loro irremovibile vocazione sono nel senso del mantenimento dell’Italia nel suo attuale “equilibrio mediterraneo”.
Questo blocco politico sul versante del centrodestra si manifesta con immediata evidenza, per esempio, quando si sente parlare Alemanno o La Russa della questione delle licenze dei taxi; lo si è visto all’opera, per fare un altro esempio, nel corso dell’iter parlamentare della riforma forense (riserva della consulenza extra-giudiziale a favore degli iscritti all’albo, reintroduzione delle tariffe minime, divieto di pubblicità, divieto di svolgimento dell’attività da parte di società di capitale, ecc.): si è avuta una percezione nettissima del fatto che quella parte della destra era lì essenzialmente per quello, per difendere il vecchio assetto contro tutti e contro tutto. Simmetricamente, un blocco della stessa natura è ben visibile nel centrosinistra, ogni volta che esso si trova davanti alla proposta di qualche cosa di minimamente incisivo sul terreno della spending review nel settore pubblico, oppure della rimozione di una parte almeno delle bardature normative che soffocano il nostro mercato del lavoro. Quando si parla di chiudere un carrozzone totalmente inefficiente e spostarne il personale dove esso può servire, oppure di emanare un codice del lavoro semplificato, nell’ala sinistra del PD si incontra una chiusura di natura quasi metafisica, comunque insormontabile. Si ha la sensazione che essa sia lì essenzialmente per quello, per difendere l’inamovibilità e irriformabilità dell’enorme macchina pubblica e dell’enorme coacervo della normativa esistente in materia di lavoro.
Dunque, per un verso è indispensabile una convergenza di forze oggi collocate sia nel centrosinistra sia nel centrodestra, se vogliamo quella che abbiamo chiamato la riforma europea dell’Italia; ma la loro convergenza non potrà affatto assumere la forma di una grosse Koalition: occorre rassegnarsi all’idea che – se tutto andrà bene, cioè se essa riuscirà a mettere insieme una maggioranza – sarà una coalizione di poco superiore al 50 per cento e avrà contro un’opposizione, di destra e di sinistra, molto forte.
Questa mia constatazione si scontra contro la tesi di politica generale sostenuta da una persona con la quale, pure, sul terreno delle policies mi sono sempre trovato in quasi perfetta consonanza: mi riferisco a Franco Debenedetti e al suo libro Il peccato del professor Monti (Marsilio, 2013), dove egli sostiene che qualsiasi strategia politica, anche quella della riforma europea dell’Italia di cui qui stiamo parlando, può collocarsi soltanto nel contesto della sinistra o nel contesto della destra. O di qua, o di là. Ma se è vero che sia di qua sia di là c’è una metà dello schieramento pervicacemene arroccata in difesa del vecchio equilibrio mediterraneo, la teoria dell’ “o di qua o di là” rischia di condannare la politica italiana all’inerzia, all’inconcludenza.
Con questo non intendo dire, beninteso, che la distinzione fra destra e sinistra abbia perso significato: la distinzione tra chi considera la diseguaglianza sociale come un disvalore e chi no conserva sempre un suo significato rilevantissimo. Ma di fronte al bivio tra la conservazione del nostro Paese nel suo vecchio equilibrio mediterraneo e la sua integrazione piena nell’Unione Europea lo spartiacque rilevante non è quello fra destra e sinistra: è quello tra chi crede nella necessità e possibilità della grande riforma europea dell’Italia e chi no. E quelli che ci credono si trovano in pari misura a destra e a sinistra. Su questo terreno io mi sento molto più in sintonia con un Giuliano Cazzola, con un Benedetto Della Vedova, o con un Mario Mauro, che con un Maurizio Landini o uno Stefano Fassina. Perché, dunque, chi è convinto del carattere cruciale della scelta per la riforma europea del Paese dovrebbe rassegnarsi a indebolire – se non rendere del tutto irrealizzabile – questa scelta, col teorizzare l’improponibilità di una sorta di “maggioranza di scopo”, di “aggregazione a termine” tra le forze politiche di centrodestra e di centrosinistra che in questa scelta credono per davvero e su di essa possono convergere?
Forse quello che ci induce a ritenerlo improponibile è un’idea quasi religiosa dell’opzione politica: l’idea del partito come oggetto di un’opzione destinata, di regola, a perdurare per tutta una vita. Ma il rischio, in questo modo, è di condannare l’Italia a imboccare per pura inerzia la strada peggiore fra le due che le si aprono davanti.
Cercare di impedire questo esito è l’intendimento che mi ha indotto, nel dicembre scorso, ad aderire all’appello di Mario Monti per la costruzione di un polo riformatore europeista costituito da tutti coloro che, provenendo da destra o da sinistra, oggi considerano l’integrazione europea dell’Italia come l’obiettivo prioritario. A cinque mesi di distanza non ho alcuna certezza circa la possibilità che il risultato dell’impresa sia coerente con quell’intendimento. Anche perché scopro che la tesi di Franco Debenedetti ha molti seguaci anche all’interno di Scelta Civica, i quali si dividono tra quelli che considerano, in prospettiva, inevitabile una torsione del progetto verso destra, oppure verso sinistra. Non era questa la filosofia politica dell'”Agenda Monti”: l’idea originaria era che in questo passaggio storico fosse necessaria un’aggregazione di forze intorno a un insieme coerente di policies, capace di prescindere dalla summa divisio tra destra e sinistra. Quel discrimine potrà tornare ad essere quello decisivo in futuro, quando questo passaggio sarà stato superato; ma oggi il discrimine fondamentale è un altro: è quello che corre tra chi è pro e chi è contro la scommessa europea dell’Italia.
Nei giorni scorsi ho accettato la responsabilità di coordinatore del programma di Scelta Civica con l’ìdea che non sia irrealistico questo disegno ambizioso: sfidare PD e PdL, uniti nella grosse Koalition, sul terreno di un insieme di politiche molto incisive, coerenti con la nostra scommessa europea, cioè con quella scommessa nella quale entrambi i partiti maggiori dicono di credere, ma che nessuno dei due da solo è in grado di reggere, per il peso che i fautori del vecchio modello mediterraneo hanno ancora al suo interno.
Disegno irrealistico? Forse. Ma se dovesse rivelarsi davvero tale temo che l’avventura europea dell’Italia sarebbe vicina a un epilogo inglorioso. Vale la pena di provare ad evitarlo.
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