LO STALLO POLITICO-ISTITUZIONALE, GLI ERRORI DI BERSANI, LA DIVERSITÀ ANTROPOLOGICA DEL CETO POLITICO PRODOTTO DALLE ULTIME ELEZIONI, LA SFASATURA TRA L’ASSETTO DISEGNATO DALLA COSTITUZIONE E LA VISIONE DELL’ELEZIONE DEL PRESIDENTE DIFFUSA NELL’OPINIONE PUBBLICA
Riporto qui alcuni appunti che ho scritto nel corso di questa settimana, trascorsa interamente a Roma per l’elezione del Capo dello Stato – 22 aprile 2013 – In argomento v. anche il mio editoriale telegrafico per la Nwsl n. 245: Quelli che vorrebbero la partita Roma-Lazio arbitrata da un romanista
Lunedì 15 aprile
La prima conversione a U di Bersani – Dopo un mese e mezzo passato a rincorrere Grillo e i grillini nel tentativo di fare un “Governo di cambiamento” con loro, teorizzando che con il PdL non poteva esserci alcun dialogo, pare che Bersani si sia convinto che l’unica via per dare un governo al Paese sia quella dell’arbitrato del nuovo Presidente della Repubblica. Arbitrato che, a questo punto, è pensabile soltanto tra PD e PdL, stante la dichiarata e ribadita non disponibilità del M5S per un voto di fiducia a un qualsiasi esecutivo che non sia grillino, né tanto meno ad alcun impegno impegno preventivo in proposito. Il Segretario del PD si sforza di negare che si tratti di un cambiamento di linea, sottolineando che occorre distinguere l’elezione del Capo dello Stato dalla formazione del nuovo esecutivo; ma tutti capiscono che a questo punto, invece, le due cose sono strettissimamente collegate.
Martedì 16 aprile
I tre requisiti del nuovo Presidente – Si dice che il nuovo Presidente della Repubblica deve avere tre requisiti: 1. prestigio sul piano internazionale per dare affidamento ai nostri interlocutori e creditori stranieri; 2. conoscenza profonda dei meccanismi interni della politica italiana per poter trovare una soluzione per il nuovo Governo; 3. capacità di ottenere il sostegno sia del PD, sia del PdL, senza il quale non gli sarebbe possibile svolgere con successo il ruolo arbitrale tra i due partiti maggiori, indispensabile per la nascita di un Governo in questa fase estremamente difficile e di grande turbolenza politica. Le personalità che rispondono a tutti e tre questi requisiti sembrano essere oggi solo quattro. In ordine alfabetico: Giuliano Amato, Emma Bonino (che però soffre di veti trasversali ben noti, difficili da scardinare almeno nella prima fase di questa difficile elezione), Massimo D’Alema, Giorgio Napolitano (che però si è detto non disponibile, adducendo ben sette assai solidi argomenti). Mario Monti possiede i primi due, ma dopo un anno e mezzo di difficile governo appare troppo impopolare perché PD e PdL lo scelgano. Anche Romano Prodi possiede sicuramente i primi due requisiti, ma non il terzo: il PdL non lo voterebbe mai.
Mercoledì 17 aprile, h. 18.30
La rosa con sei petali proposta dal PD al PdL – È una rosa di sei nomi. Quattro “politici”: Giuliano Amato, Massimo D’Alema, Anna Finocchiaro, Franco Marini; e due giudici costituzionali: Sergio Mattarella e Sabino Cassese. L’intesa è che i due partiti voteranno insieme per il “petalo” di questa rosa scelto dal PdL. Il metodo è sostanzialmente quello che la Costituzione richiede e che Scelta Civica ha propugnato fin dall’inizio di questa partita: l’arbitro lo si deve scegliere insieme. Tanto più che oggi questa è la condizione sine qua non perché il nuovo Presidente riesca a dare al Paese un governo sostenuto, sia pure “dall’esterno”, da entrambi i partiti, dal momento che né PD né PdL sono in grado di sostenerne uno da soli. Prevale nettamente la previsione che la scelta del PdL cada su Giuliano Amato.
Mercoledì, h. 18.30
I veti su Giuliano Amato – Nel corso dell’assemblea del Gruppo di SC apprendiamo che sul nome di Giuliano Amato c’è un veto convergente posto a sinistra da SEL, a destra dalla Lega. Con l’effetto che il Dottor Sottile non potrebbe raggiungere il quorum dei due terzi necessario per l’elezione in uno dei primi tre scrutini (ma dal quarto basta la metà più uno).
Mercoledì, h. 19.30
La scelta del PdL per Franco Marini, che sconvolge il PD – Viene resa nota la scelta del PdL nella rosa proposta dal PD: Franco Marini. Effettivamente non è la candidatura ideale: dei tre requisiti di cui sopra, possiede solo il secondo e il terzo; e ha superato gli 80 anni. È difficile pensare a lui come a un successore di pari livello rispetto a Napolitano nei rapporti con Obama e Merkel. Però, è pur sempre un dirigente del PD, e nelle primarie si è schierato con molta decisione con Bersani contro Renzi: questo non dovrebbe far storcere il naso al centrosinistra, ma semmai al centrodestra; invece, curiosamente, si ha subito la sensazione che il disappunto per questa scelta alligni quasi esclusivamente nelle file del PD. Soprattutto nel gruppo della Camera – che all’insegna del nuovismo è stato affidato a un trentenne, Roberto Speranza, alle prime armi – affiorano molti mali di pancia. Perché? Soprattutto perché è stato scelto insieme al PdL: è la conversione a U di Bersani che non è stata digerita. La radice del disorientamento del PD va cercata nell’incerta tattica del Segretario, ispirata a una strategia quanto meno fumosa. Quanto al PdL, qualcuno sostiene che esso punterebbe proprio su questi mali di pancia dei democratici per fare di Marini un Presidente sostenuto soprattutto dal centrodestra. La realtà, per il partito di Berlusconi, è che l’elezione di Marini allontanerebbe la prospettiva che più angoscia proprio quest’ultimo: l’elezione di Prodi, quello che lo ha battuto due volte, per di più ora con i voti decisivi dei grillini. Sta di fatto che il PdL si preannuncia compatto, mentre fra i democratici si annunciano moltissime schede bianche, variamente motivate.
Mercoledì, h. 21
Il dissenso nel PD e i dubbi in SC – Nell’assemblea dei grandi elettori del Pd, che si svolge in serata al cinema Capranica, il dissenso nei confronti della candidatura di Franco Marini si rivela di dimensioni molto maggiori del previsto: 90 voti contrari e 30 astenuti sui 250 presenti. Un dissenso, dunque, che va molto al di là del sottogruppo dei parlamentari renziani. Constatata l’entità della scollatura nel PD, anche qualcuno dei parlamentari di Scelta Civica si chiede se non faremmo meglio a prendere le distanze da questa candidatura, che rischia di essere perdente; ma prevale nel gruppo la preoccupazione per quello che potrebbe accadere se l’accordo PD-PdL saltasse: l’elezione di un candidato scelto da PD e M5S segnerebbe la condanna a morte della legislatura – stante la perdurante non disponibilità del M5S per votare la fiducia a un Governo a guida PD -, con conseguenti rischi terribili, per il Paese, di una nuova crisi economico-finanziaria che sarebbe più grave di quella dell’autunno 2011.
Mercoledì, h. 21.30
Matteo Renzi con la testa già nella Terza Repubblica ‑ Le agenzie riportano il commento di Matteo Renzi: “eleggere Franco Marini sarebbe un dispetto per l’Italia”; e il suo invito aperto ai parlamentari democratici perché votino scheda bianca. Ma tra i renziani circola anche l’indicazione di votare per Sergio Chiamparino. Il sindaco di Firenze ragiona come molta gente comune, che pensa alle elezioni presidenziali italiane come se fossero simili a quelle americane o a quelle francesi: come se fossimo già in una Terza Repubblica, nella quale il Capo dello Stato è il leader di una delle coalizioni in campo ed è anche il capo dell’esecutivo. Se le cose stessero così, certo non avrebbe senso che PD e PdL cercassero un candidato su cui far convergere i voti. Ma non avrebbe senso neppure che la scelta del Presidente fosse affidata al Parlamento, con una elezione di secondo grado: tanto varrebbe, allora, farlo scegliere direttamente agli elettori sulla base del suo programma. Matteo Renzi ha già la testa nella Terza Repubblica; ma la realtà è che non siamo ancora riusciti neppure ad archiviare la prima. E, piaccia o non piaccia, il rito a cui ci accingiamo appartiene in tutto e per tutto alla prima.
Mercoledì, mezzanotte
Ha ancora senso questo rito? – Vado a dormire angosciato da presagi foschi. Mentre cerco di addormentarmi mi chiedo se davvero l’Italia abbia ancora bisogno di questa figura di Capo dello Stato quasi-re, eletto con questo rito un po’ barocco, che la gente non capisce più. È ben vero che mai come oggi la politica italiana ha avuto bisogno vitale di un arbitro super partes, per l’immaturità delle sue forze politiche principali; ma è anche vero che, di fatto, negli ultimi tempi la nostra “Costituzione materiale” ha finito coll’attribuire di fatto al Presidente della Repubblica il ruolo di Capo del Governo ; e, in questo modo, il Presidente che dovrebbe fare l’arbitro finisce coll’operare come Presidente del Consiglio dei Ministri effettivo, ma senza i contrappesi che sarebbero necessari. In quest’ultimo anno abbiamo potuto stare tranquilli, perché in quel ruolo c’era una persona equilibratissima e scrupolosa come Giorgio Napolitano; ma domani quel difetto strutturale (dovuto proprio all’incongruenza che è venuta a determinarsi tra “Costituzione formale” e “costituzione materiale”), soprattutto in una situazione di debolezza dei partiti e frazionamento delle rappresentanze parlamentari, potrebbe diventare molto pericoloso.
Giovedì 18 mattina
La festa del web e il tramonto dei vecchi apparati di partito – Il gran giorno è arrivato: mille grandi elettori affollano il transatlantico, la buvette e l’aula di Montecitorio. Tempo splendido, molti si godono il clima di primavera avanzata nel grande cortile, fra i gazebo delle tv. La percentuale di facce nuove è altissima; non solo per quel terzo di grillini, che non hanno nelle loro file neppure uno solo che sia stato parlamentare in precedenza: anche nel PD i neofiti sono una larghissima maggioranza. Grande abbondanza di tablets e di smart phones: la percezione dominante è che tutti siano permanentemente connessi alla rete. Dai discorsi emerge il peso enorme che sulle loro scelte è esercitato dalla pressione degli elettori attraverso Facebook, Twitter e il bombardamento di messaggi email. C’è una differenza antropologica profonda tra questi parlamentari e quelli di trent’anni fa, quando feci la mia prima esperienza di deputato. Ma c’è un salto anche rispetto a quelli dell’ultima legislatura: fino all’anno scorso qui dentro dominavano ancora le figure selezionate attraverso la gavetta della politica comunale e regionale, o quella della politica sindacale; dominavano le strutture organizzate dei partiti, soprattutto dei due maggiori; ora non più: i parlamentari – e non soltanto quelli del M5S – sono stati selezionati al di fuori della “casta”, mediante “primarie dei candidati” giocate soprattutto attraverso il web, e al popolo del web direttamente rispondono (che poi questa si possa qualificare come democrazia diretta, secondo quanto sostiene Beppe Grillo, è tutt’un altro discorso).
Giovedì, h. 13.30
Primo scrutinio: a Marini ne mancano all’appello più di 200 – Ancor prima che venga proclamato dalla Presidente Laura Boldrini il risultato del voto di questa mattina, le agenzie battono la notizia che Franco Marini non ce l’ha fatta. Si è fermato a 514 voti, essendone mancati all’appello 236 dei 750 di PD, PdL e SC sui quali avrebbe dovuto poter contare. Non sono mancati soltanto quelli dei renziani, che si sono dichiaratamente ripartiti tra schede bianche e 41 voti a Sergio Chiamparino, ma anche quelli di SEL: la ferrea regola per cui la minoranza della coalizione avrebbe rispettato le decisioni della maggioranza si è dissolta come neve al sole fin dalla prima votazione seria di questa legislatura. Ed è mancata almeno un’altra cinquantina di voti di parlamentari del PD, che si distribuiscono fra D’Alema (12), Prodi (14), Napolitano (10), Finocchiaro (4) e Bonino (13). Impressiona il fatto che questo gran numero di parlamentari PD disobbedienti non possono tecnicamente considerarsi tutti “franchi tiratori”: la maggior parte di loro dichiara apertamente la propria disobbedienza. Impressiona ancor di più il fatto che tra questi dissenzienti dichiarati vi sia Alessandra Moretti, braccio destro di Bersani da pochi mesi! Significativamente, però, al primo scrutinio nessuno di questi dichiara di aver votato Stefano Rodotà, il quale pure si attesta a quota 240: qualche decina di voti in più rispetto ai 162 di cui dispone il M5S e ai 46 di cui dispone SEL.
Giovedì, h. 14.30
Si apre la crisi del Pd ‑ Appare evidente la grave difficoltà del vertice del PD nel governare la propria rappresentanza parlamentare. In un primo tempo si apprende che il PdL intende continuare a sostenere la candidatura di Franco Marini. Noi di SC decidiamo di votare al secondo turno scheda bianca, per dar tempo al PD di riaversi dallo shock e riprendere a tessere l’unica tela che per l’elezione del Capo dello Stato ha senso tessere, se si vuole evitare la morte in culla di questa legislatura e il rischio di un gravissimo collasso di sistema: quella con il PdL. Alla fine la stessa scelta di restare in surplace verrà compiuta questo pomeriggio anche dai due partiti maggiori.
Giovedì, h. 19
Secondo scrutinio: l’unico che cresce è Chiamparino – Il risultato del secondo scrutinio vede Rodotà scendere a 230 voti, mentre Sergio Chiamparino, secondo, raddoppia salendo a 90. Le schede bianche – di PD, PdL e SC – sono 418. L’ex-sindaco di Torino è una delle poche persone che potrebbero candidarsi con successo a guidare una nuova coalizione di centrosinistra.
Venerdì 19 aprile mattina
La nuova svolta a U di Bersani – Il terzo scrutinio dà un risultato molto simile al secondo (Rodotà a quota 250, schede bianche 465). Bersani, per cavarsi dall’impaccio, propone ai suoi di votare per Prodi nel quarto scrutinio, nel quale basterà il 50% più uno dei grandi elettori. La scelta viene motivata con la necessità del PD di ricompattarsi; ma sotto sotto la speranza di Bersani e di molti nel suo entourage è che, al dunque, il M5S decida di dare il suo appoggio al professore bolognese, che rientrava nella rosa iniziale selezionata dalle “quirinarie” indette da Grillo via web; o che almeno una trentina dei grillini lo votino, ripetendosi in questo modo un’operazione analoga all’elezione di Grasso alla presidenza del Senato. Dunque, una nuova svolta a U, che riporta il PD sulla linea infruttuosamente seguita nelle settimane passate.
Venerdì, h. 14.30
Le pressioni su Scelta Civica per indurla a votare Prodi – Dario Franceschini, evidentemente preoccupato di evitare che la scelta del PD assuma all’esterno il significato di un ritorno alla politica fallimentare del corteggiamento al M5S, invia a Monti un sms accorato, chiedendo che Scelta Civica faccia convergere i suoi voti su Prodi. Pressioni dello stesso segno arrivano su molti dei parlamentari di SC, me compreso, da diverse aree del PD. Ma questo, semmai, avrebbe dovuto esserci proposto dal segretario del PD prima che la scelta venisse compiuta e comunicata pubblicamente; invece, la scelta di Prodi è stata compiuta e dichiarata con una motivazione sostanzialmente opposta: ricompattare il PD. Ai margini della nostra assemblea c’è chi insiste in modo molto deciso perché votiamo Prodi, per evitare il rischio di una gravissima crisi di sistema. Prevale però la scelta di concentrare i nostri voti sul ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, come candidatura “istituzionale”, esterna a tutti i partiti, sulla quale – se anche la seconda svolta a U di Bersani fallirà – il PD potrebbe convergere insieme al PdL.
Venerdì, h. 19.30
Non solo i grillini non votano Prodi, ma 100 dei voti del centrosinistra mancano ancora all’appello – Risultato del quarto scrutinio: presenti e votanti 732 (il PdL e la Lega non hanno partecipato al voto); maggioranza assoluta necessaria per l’elezione: 504 ; Prodi ottiene solo 395 voti (rispetto ai 496 di cui dispone complessivamente il centrosinistra); Rodotà 213; Cancellieri 78 (nove in più rispetto ai parlamentari di SC); D’Alema 15; schede bianche 15. Il fondatore dell’Ulivo non sarebbe stato eletto neppure se SC lo avesse votato! Chi, nel PD, lo ha silurato? Probabilmente qualche sostenitore di Marini deluso; probabilmente qualche dalemiano; ma 100 voti sono davvero moltissimi. Intanto Berlusconi gongola per la sconfitta dell’odiato antagonista di sempre, Prodi, e per la ridicolizzazione dell’avversario di oggi, Bersani: effettivamente, in questa partita quest’ultimo ha sbagliato proprio tutto, mostrando oltretutto una gran confusione di idee. Ma la colpa non è solo sua.
Venerdì, h. 22
La fine del centrosinistra nato sull’asse Bersani-Vendola – PdL e Lega annunciano la disponibilità a far convergere i loro voti su Anna Maria Cancellieri. Niki Vendola fa altrettanto in riferimento alla candidatura di Stefano Rodotà. Si delinea un ballottaggio Cancellieri-Rodotà, che rischierebbe di sancire la spaccatura definitiva del PD: la clamorosa certificazione dell’irrilevanza a cui si è ridotto il partito di maggioranza relativa, per la sua incapacità di darsi una linea chiara. Bersani è chiuso da due ore nella sua stanza con Franceschini, Letta e Migliavacca; fuori di quella stanza i dirigenti democratici si chiedono come rimettere insieme i cocci: non del centrosinistra, ma dello stesso PD. A tarda sera Bersani annuncia le proprie dimissioni. Enrico Letta telefona a Napolitano chiedendogli di accettare la rielezione per evitare il caos; ma il Presidente uscente, sperando ancora nella possibilità di una soluzione positiva, insiste nel rifiuto.
Sabato 20 aprile, h. 8
La luce in fondo al tunnel – L’assemblea di SC si apre con la comunicazione dei capigruppo Dellai e Mauro, che ci informano dell’orientamento del PdL a convergere nel voto su Anna Maria Cancellieri, probabilmente nello scrutinio del pomeriggio. Ma mentre siamo ancora in assemblea mi chiama Enrico Morando dicendomi che forse si è aperto uno spiraglio di disponibilità da parte di Napolitano. In attesa degli eventi, tutti, tranne i grillini, al quinto appello votano scheda bianca o si astengono dal voto. Le agenzie riportano la dichiarazione di Fabrizio Barca, neo-iscritto al PD e virtualmente candidato ad assumerne la leadersnip: “Non capisco perché il centrosinistra non faccia propria la candidatura di Rodotà”; sembra un’autocandidatura a guidare una nuova aggregazione capace di unire SEL, i grillini e l’ala sinistra del PD.
Sabato, h. 12
L’epilogo – È ancora in corso l’appello dei deputati, quando arriva la conferma: Bersani, Berlusconi e Monti sono saliti al Quirinale, separatamente l’uno dall’altro, ma per chiedere concordemente a Napolitano una sola cosa, cioè di accettare la rielezione. Solo per il tempo necessario per superare l’impasse istituzionale e – possibilmente – mettere al sicuro l’economia del Paese. In cambio, ciascuno di loro si è impegnato a rispettare con senso di responsabilità il “lodo” che da lui verrà per la formazione del nuovo Governo. E Giorgio Napolitano – che fino all’ultimo aveva sperato di obbligarli, con il suo rifiuto, ad affidare a un altro questo arbitrato politico – ha accettato. In un gruppetto, ora riunito in transatlantico, di “grandi elettori” del PD, del PdL e di SC che in questi giorni hanno cercato di tessere la tela, ciascuno dalla propria parte, si respira un’atmosfera di sollievo, ma al tempo stesso di rammarico e senso di colpa: non siamo stati capaci nemmeno di accordarci su di un nuovo “arbitro”. Certo, Giorgio Napolitano possiede al massimo grado tutti e tre i requisiti che all’inizio di questa vicenda avevamo individuato come essenziali; ma avrebbe avuto tutto il diritto di ritirarsi a vita privata; e il Paese avrebbe avuto bisogno di un esito diverso diverso e anagraficamente più normale, per il quale lo stesso Napolitano si è batttuto fino all’ultimo.
Sabato, h. 15
La democrazia diretta di Beppe Grillo – Le agenzie daranno notizia dell’indizione per domani da parte di Beppe Grillo di una “marcia su Roma” per protesta contro l’accordo tra i partiti maggiori per l’elezione di un candidato diverso da quello sostenuto dal M5S. Per entrare a Montecitorio devo passare davanti al gruppo vociante di un centinaio di militanti grillini, che inveiscono sistematicamente contro ciascuno dei parlamentari di passaggio che abbia una qualche notorietà, rivendicando l’elezione di Stefano Rodotà. Manco fossero allo stadio per un derby. Della funzione del Presidente della Repubblica e dei modi della sua elezione, evidentemente, questi scalmanati non hanno capito nulla. Ma quanti, in queste ore, in giro per l’Italia oggi ne capiscono molto di più? Una grande democrazia non può funzionare bene se non sulla base di una conoscenza e comprensione diffusa dei suoi meccanismi costituzionali.
Sabato, h. 18
Ancora a Napolitano il compito di guidare l’Italia fuori dalla crisi – Sesto scrutinio: Napolitano 738 voti (PD, PdL, SC, Lega); Rodotà 217 (M5S, SEL, più qualche voto democratico in libera uscita). Abbiamo dunque – sia pure per il rotto della cuffia – quello di cui avevamo assoluto bisogno: un arbitro dotato di tutta l’autorevolezza necessaria e una larga maggioranza, quasi tre quarti del Parlamento, impegnata ad attenersi al suo “lodo” per il superamento della crisi di governo. Ma quella da cui dobbiamo uscire è molto di più che una crisi di governo: è la crisi morale di un Paese che – tolto un grande Presidente della Repubblica quasi novantenne – non ha ancora trovato persone e assetti istituzionali capaci ridargli fiducia in se stesso.