PERCHÉ È SBAGLIATO PROLUNGARE IL RICORSO ALLA “CASSA IN DEROGA”

IL SOSTEGNO DEL REDDITO A CHI PERDE IL LAVORO NON PUÒ ESSERE UNA FORMA DI ASSISTENZA ATTIVATA A DISCREZIONE DELL’AUTORITÀ REGIONALE E NON SOGGETTA ALLA CONDIZIONE DELLA DISPONIBILITÀ DEL LAVORATORE INTERESSATO PER TUTTO QUANTO È NECESSARIO PER TROVARE UNA NUOVA OCCUPAZIONE

Intervista a cura di Alessandro Giorgiutti, pubblicata da Libero il 19 aprile 2013

Per la cassa integrazione in deroga mancano circa un miliardo e mezzo di euro. Secondo lei dovrebbe intervenire questo governo, magari con un decreto?
Se parliamo del sostegno del reddito necessario per le persone che hanno perso il lavoro in quest’ultimo periodo, sarebbe necessario anche di più di un miliardo e mezzo. Ma sarebbe molto sbagliato continuare a intervenire con la cassa in deroga.

Perché?
Per due motivi. Il primo è che la cassa integrazione è una forma di previdenza; e la previdenza non è tale se i trattamenti erogati non sono prevedibili, se non sono una cosa su cui l’assicurato può fare affidamento. Ora, “cassa in deroga” significa che in base alle regole vigenti il trattamento non potrebbe essere attivato: esso viene erogato, appunto, sulla base di una ”deroga”, che di volta in volta può essere disposta oppure no, a discrezione dell’autorità regionale cui viene attribuito questo potere. In questo modo l’integrazione salariale non è più una forma di assicurazione, ma una forma di assistenza occasionale; e si perde l’effetto positivo – sul piano sociale e su quello macro-economico – della garanzia di continuità del reddito.

E il secondo motivo?
La cassa integrazione, per sua natura, serve per tenere il lavoratore legato all’azienda da cui dipende, in situazioni nelle quali vi sia una ragionevole prospettiva di ripresa del lavoro nella stessa azienda. In questi anni, invece, la “cassa in deroga” è stata utilizzata per lo più in situazioni in cui quella prospettiva non c’era proprio. Come si è fatto largamente, del resto, anche con la cassa integrazione ordinaria e con quella straordinaria. Questo è un modo sbagliatissimo di affrontare le crisi occupazionali.

Qual è il modo corretto?
Occorre, innanzitutto, chiamare le cose col loro nome: se il lavoro in quell’azienda non c’è più si deve chiudere il rapporto di lavoro e non tenerlo in vita artificiosamente. Poi, il sostegno del reddito – anche magari più robusto di quello offerto dalla cassa integrazione – deve essere erogato soltanto a condizione che il lavoratore sia disponibile per fare tutto quanto occorre per trovare una nuova occupazione. Altrimenti esso ha l’effetto di allungare i periodi di disoccupazione.

Dunque, operativamente?
Dunque in questa situazione di crisi grave le risorse occorrono, ma non per protrarre la prassi sbagliata della cassa in deroga, bensì per allargare l’area di intervento e potenziare l’ASpI, il nuovo trattamento di disoccupazione universale istituito dalla legge Fornero.

Dove si potrebbero reperire le risorse necessarie?
Basterebbe tagliare tante spese totalmente improduttive: oggi lo Stato spende fiumi di denaro per finanziare programmi che non producono alcun effetto occupazionale positivo, o un effetto di entità irrisoria.

Sarà necessario anche intaccare i fondi interprofessionali destinati alla formazione?
Occorrerebbe verificare attentamente il tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi di ciascun corso finanziato con i soldi pubblici. E sopprimere tutte le iniziative che hanno un tasso inferiore al minimo accettabile.

L’ex ministro Sacconi propone di rivedere, d’intesa con le Regioni, i criteri con cui sono assegnati i fondi. In particolare, niente cassa in deroga per le imprese ormai prive di futuro e criteri più stringenti sull’uso della mobilità in deroga. E’ d’accordo?
Sacconi ha ragione quando dice questo, per tutti i motivi esposti prima. Peccato che sia arrivato a dirlo solo ora, dopo aver fatto il ministro del lavoro per tre anni e mezzo. Bene, comunque, che ora se ne sia convinto.

In questo quadro, i servizi ricollocamento, sui quali lei ha sempre insistito, potrebbero avere un ruolo cruciale?
Ovviamente sì.

Ma che si può fare, ora che la delega sulle politiche attive è scaduta?
Molto, anche a legislazione invariata. Anche attivando una stretta cooperazione tra strutture pubbliche e grandi imprese specializzate del settore.

Intanto imprese e sindacati lavorano a un “patto dei produttori”. La presenza della Cgil è di per sé una buona notizia?
Sì, se per avere il consenso della Cgil non si paga un costo troppo alto in termini di conservazione dell’esistente: che si tratti di strutture produttive decotte, di carrozzoni improduttivi sorretti da laute commesse pubbliche, o di strutture amministrative pesantemente inefficienti.
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