DIMISSIONI IN BIANCO: SEMPLIFICARE SI’, MA ANCHE IMPEDIRE LE FRODI

LETTERA APERTA DI CESARE DAMIANO E PIETRO ICHINO AL MINISTRO DEL LAVORO

La lettera è stata pubblicata dal Sole 24 Ore il 28 giugno 2008. Segue un intervento sul tema del Vice-presidente della Commissione Lavoro della Camera Giuliano Cazzola, pubblicato dallo stesso quotidiano il giorno successivo, con una breve replica di P.I.

Il Governo ha preannunciato l’abrogazione della legge n. 188/2007, emanata nella passata legislatura – con il voto favorevole di AN al Senato e voto unanime alla Camera ‑  per stroncare la prassi assai diffusa delle “dimissioni in bianco”: quella lettera che al lavoratore (più sovente alla lavoratrice) si chiedeva di firmare all’inizio del rapporto per consentire di fatto il licenziamento in qualsiasi momento senza bisogno di giustificazione. A quella legge si imputa il difetto di imporre a tutti gli imprenditori un rilevante “costo di transazione” aggiuntivo, al fine di impedire il comportamento illegittimo di pochi. Ora, però, il rischio è che l’abrogazione secca porti di fatto con sé un messaggio inaccettabile: quello secondo cui far firmare le dimissioni in bianco è legittimo, si può tornare a farlo liberamente.

Se, come siamo certi, il Governo e le stesse forze politiche che approvarono la legge meno di un anno fa non intendono oggi lanciare questo messaggio sbagliato, occorre che a quella norma se ne sostituisca un’altra, scevra dall’aggravio burocratico imputato alla prima, ma capace di produrre lo stesso risultato positivo di contrasto alla frode. Una soluzione efficace e ragionevole c’è: comminare contro quella prassi illecita (simulazione fraudolenta di un atto inesistente di dimissioni o di risoluzione consensuale) una sanzione contravvenzionale, aggravata per il caso di effettiva utilizzazione del documento falso; e introdurre la regola comunitaria per cui le dimissioni possono essere revocate entro sette giorni dalla prima comunicazione.

A questa soluzione possono muoversi due obiezioni, l’una di segno opposto all’altra. La prima, per così dire “di destra”: non si deve perseguire la semplificazione amministrativa al prezzo di un aggravamento dell’apparato sanzionatorio a carico delle imprese. È agevole rispondere che qui non si tratta di colpire con nuove sanzioni una negligenza, un errore gestionale, o un inadempimento amministrativo che può capitare a tutti: quello che si intende prevenire è un comportamento doloso e particolarmente odioso, consistente nel preordinare una frode in funzione di una futura possibile estorsione. La sanzione comminata contro questo comportamento (che il Governo stesso e la sua maggioranza considerano come “patologia”) non tocca neppure di lontano la stragrande maggioranza degli imprenditori: quelli che non si sognerebbero mai di commettere una grave scorrettezza come questa ai danni dei propri dipendenti.

L’obiezione “di sinistra” è che la sanzione avrebbe un effetto deterrente scarso, perché sarebbe difficile dimostrare la falsità dell’atto di dimissioni o di risoluzione consensuale del rapporto. Ma non è così: nel procedimento penale nel quale l’imprenditore fosse imputato di questa frode il lavoratore ben potrebbe essere sentito come testimone; e la convinzione del giudice ben potrebbe formarsi anche soltanto sulla base di questa testimonianza. Comunque, la previsione del diritto di ripensamento risolve ogni problema, in modo molto drastico ed efficace.

C’è dunque una possibilità concreta di evitare il rischio che la correzione di un inconveniente ne produca un altro peggiore. Chiediamo al Ministro del Lavoro e alla maggioranza la disponibilità a discuterne senza preclusioni ideologiche, per evitare che il giusto obiettivo della semplificazione sia perseguito al costo di un arretramento della cultura della legalità e della trasparenza nel mondo del lavoro.

L’intervento di Giuliano Cazzola, pubblicato dal Sole 24 Ore del 29 giugno 2008

Caro direttore,
nella loro lettera (Il Sole 24Ore del 28 giugno) Cesare Damiano e Pietro Ichino criticano la decisione del Governo di abolire tout court la legge varata nella passata legislatura “per stroncare la prassi delle dimissioni in bianco”.  I due parlamentari del Pd fanno riferimento al pregiudizio per cui i datori di lavoro ricorrerebbero frequentemente all’abuso di far sottoscrivere ai lavoratori e, in particolare, alle lavoratrici, una lettera in bianco al momento dell’assunzione allo scopo di poterla trasformare, arbitrariamente, in un atto di dimissioni volontarie. Per contrastare tale “prassi” la sinistra estrema condusse, nella XV legislatura, una battaglia parlamentare coronata dal successo (tanto da coinvolgere persino alcune forze dell’allora opposizione), incentrata sull’obbligo di “certificare” le dimissioni volontarie su moduli, numerati e a scadenza, rilasciati dal Ministero del Lavoro. Premesso che non è affatto dimostrata l’effettiva consistenza di tali comportamenti datoriali (attualmente poggiano sul “sentito dire”) e ricordato che la sperimentazione di tali procedure si è tradotta in un “costo di transazione” aggiuntivo  non solo per le aziende ma anche per i lavoratori,  Damiano e Ichino non ignorano certo che, nell’ordinamento, esistono fior di regole, civili e penali, idonee a censurare e a reprimere atti illegittimi ed intimidatori come quelli denunciati. La tutela delle lavoratrici madri o il divieto di licenziamento per causa di matrimonio, per esempio, hanno fatto il loro ingresso da oltre mezzo secolo nel nostro diritto del lavoro. Qualunque giudice si trovasse ad esaminare fattispecie simili ed illegittime  non esiterebbe un solo minuto (Damiano e Ichino lo riconoscono) a compiere tutti gli accertamenti necessari per contrastare azioni  che – per la loro odiosità – offendono tanto la dignità del dipendente quanto quella del datore. Il problema, a mio avviso, è un altro: è venuta l’ora di abbandonare una cultura del lavoro impostata sulle patologie e sui casi estremi, in forza della quale il lavoratore è considerato un perenne minus habens in balia degli eventi, mentre il datore rimane un incorreggibile “padrone delle ferriere”, rotto a tutti gli artifizi truffaldini.  E’ assolutamente opportuna e giusta l’intenzione, più volte ribadita dal ministro Sacconi, di abolire una legge sbagliata, dettata da furore ideologico, capace soltanto di complicare inutilmente la vita di tutti coloro che vogliono solo lavorare. Damiano e Ichino sembrano prendere le distanze da quell’infelice provvedimento, ma, abbandonata la logica dell’eccesso di normazione, cadono in quella, purtroppo abusata, della repressione purificatrice e salvifica, quando propongono di “comminare contro quella prassi illecita (simulazione fraudolenta di un atto inesistente di dimissioni o di risoluzione consensuale) una sanzione contravvenzionale, aggravata per il caso di effettiva utilizzazione del documento falso”.

     Nella passata legislatura il marchingegno delle dimissioni su modulo ministeriale venne giustificato in nome della impossibilità o della difficoltà di provare in giudizio la falsità del documento firmato. Adesso, con la loro proposta, i due esponenti del Pd si affidano alla  tutela giurisdizionale, anche in sede penale, ma individuano una nuova fattispecie di reato con l’aggiunta di un’aggravante. Come se, in mancanza di una  norma specifica, fosse permesso carpire illegittimamente la firma.
                                                                                            Giuliano Cazzola

  I casi sono due: o si può ritenere, sulla base della legislazione oggi vigente, che far firmare a un proprio dipendente le “dimissioni in bianco” sia un reato, oppure no. Nel primo caso, definire con precisione l’illecito e la sanzione non costituisce aggravio rispetto alla situazione attuale; nel secondo caso, il farlo è necessario per colmare una lacuna. D’altra parte, che il problema esista – e che colmare la lacuna sia opportuno, se non altro per chiarire i termini giuridici della questione – è confermato dalle iniziative tendenti  a questo scopo, sottoscritte anche da diversi esponenti del centro-destra (come la on. Prestigiacomo) nella passata legislatura.  Non sembra, poi, che alcuna delle obiezioni di Giuliano Cazzola possa opporsi alla proposta di istituire la revocabilità delle dimissioni entro sette giorni, che ha il merito di garantire un rimedio efficace non soltanto contro le “dimissioni in bianco”, ma anche contro le dimissioni rese sotto minacce o pressioni, o comunque in modo avventato.  (p.i.)

 

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