UN LETTORE PROPONE ALCUNE CONSIDERAZIONI MOLTO SERIE SU CIÒ CHE STA MATURANDO NEL PD, IN PARTICOLARE CON LA CANDIDATURA ALLA LEADERSHIP DEL MINISTRO DELLA COESIONE TERRITORIALE, E NELL’AREA LIBERAL – GLI RISPONDO SPIEGANDO LA DIFFERNZA TRA LA MIA POSIZIONE E QUELLA DI MATTEO RENZI
Lettera pervenuta il 15 aprile 2013 – Segue la mia risposta
Caro Professore,
ho letto nell’ultima newsletter il suo commento sul posizionamento di Renzi e volevo chiederle un giudizio più generale sulla situazione del PD e in particolare la sua opinione su due questioni.
1. Dopo l’impegno per le primarie, pur profondamente deluso, ho deciso di non lasciare il PD, nonostante il suo esempio (per convincermi a rimanere negli ultimi anni, mi dicevo “se non molla Ichino, con tutto quello che gli “fanno vedere”, non vedo perché dovrei lasciare io) che ho compreso, ma non condiviso, perché non ho creduto nella scelta di Monti (non penso di aver diritto di dire “come i fatti hanno dimostrato”, perché se i fatti sono andati così è anche perché tanti come me non ci hanno creduto). Alle elezioni non ho però votato PD, ma FARE, con lo stesso spirito di “pura testimonianza” con cui da giovane votavo PLI (quello di Zanone, non quello di De Lorenzo). Così ora sono coinvolto in diversi dibattiti, dove per lo più mi trovo in disaccordo:
– Da un lato i “vecchi fedeli” della “Chiesa PD” che continuano con le loro litanie tipo “Renzi è un liberista di destra, se ne deve andare, la sua casa è il PdL (grande partito liberista!, n.d.r.)”. Qui almeno nulla di nuovo: mi sembra di sentire vecchie beghine che, non conoscendolo/capendolo, demonizzano il sesso.
– Mi preoccupano di più tanti amici di FARE e soprattutto altri conosciuti nell’impegno per Renzi e rimasti attivi nei relativi Comitati, che lo criticano per voler continuare a rimanere nel PD e, un giorno sì e l’altro anche, lo sollecitano ad andarsene, fare lo strappo, fondare un nuovo partito. Io sono molto perplesso, per varie ragioni. Di esperienze di nuovi partiti penso possiamo averne abbastanza: abbiamo visto come sono finiti, sia quelli che ci hanno messo un po’ di tempo (PdL, Lega e IDV), sia quelli che sono finiti male prima di iniziare o poco dopo (FLI, API, FARE, e Rivoluzione Civile) sia l’M5S che – spero non sia wishful thinking – sta già iniziando a mostrare limiti rilevanti. E poi Renzi, come giustamente lei sottolinea, è un “prodotto del PD”: sarà stato un caso, ma qualcosa di buono questo partito è ancora capace di produrlo. Poi però soprattutto penso che il problema non sia un partito, ma il Paese: l’esigenza di cambiamento è profonda e radicale, soprattutto sul fronte culturale e soprattutto nella Pubblica Amministrazione, e mi chiedo come, se non si ha la capacità di cambiare un partito, si possa riuscire a cambiare l’Italia. Infine, ed è quello che dico ai miei interlocutori, penso che Renzi abbia dato molte prove di grande bravura e capacità di fare le scelte giuste, in termini di coerenza, capacità di riaffermare una visione, capacità di raccogliere il consenso, per cui penso che sia lui quello nella posizione migliore per fare le scelte giuste e eventualmente per decidere se e quando lasciare il PD. Mi piacerebbe sapere cosa pensa lei su questo punto.
2. L’altro punto sul quale mi piacerebbe avere il suo parere, anche come conoscitore della storia PCI-PDS-DS-PD, è l’entrata in campo del Ministro Barca. Confesso che quando ho iniziato a leggere il documento di Barca ero prevenuto, nel senso che, anche sulla base del gossip dei giornali, lo aspettavo come il “socialista” contrapposto al “liberista” Renzi”. Invece devo dire che mi sono trovato davanti a un “burocrate” nel senso positivo del termine, che sa analizzare con profondità e realismo il problema dello Stato che soffoca il Paese e che ne individua la causa principale nel legame perverso con i partiti, arrivando quindi a proporre un modello di partito capace di cambiare radicalmente. Mi sembra che le sue proposte non siano banali e, assieme al problema di occupazione dello Stato da parte dei politici (e anche dell’economia da parte dello Stato), siano anche necessarie per correggere un difetto fondamentale dei partiti italiani e del PD in particolare: l’incapacità di valorizzare il merito, di scegliere e promuovere le persone migliori. I più bravi sono visti con sospetto, accusati di egoismo, arrivismo, individualismo, incapacità di fare squadra (vedi Renzi). Così si scelgono i mediocri, i “servi sciocchi” e si perde totalmente capacità di leadership, anche nei confronti dell’elettorato. Altro che Barca come rappresentante “contro Renzi” dei tanti giovani mediocri, turchi o meno, cooptati nella gestione Bersani! Molti di loro dovrebbero essere terrorizzati dall’arrivo di Barca, molto più che non da quello di Renzi: almeno Renzi sarebbe focalizzato sul Governo, Barca no, il suo chiaro obiettivo di cambiamento è il Partito.
Per quanto riguarda poi la sua visione della società, cui Barca dedica solo i 12 punti sintetici nell’addendum, dove spiega i valori (convincimenti li chiama lui) di un partito di sinistra, anche questi non mi sembrano per nulla illiberali: a parte molti punti (1-5 e 10-12) per così dire “neutri”, riguardanti cioè valori costituzionali dove non mi sembra ci sia particolare contrasto fra destra e sinistra, trovo gli altri punti orientati a una società molto aperta: sul tema della libertà di mercato e di opportunità, ad esempio ho trovato riflessioni coerenti con quelle dell’ultimo libro di Zingales. L’unico punto che mi ha lasciato un po’ dubbioso è il punto 6, sul lavoro: mi sembra faccia riferimento a un modello di lavoro (e di rapporto col capitale) un po’ datato, e non recepisca i cambiamenti derivanti sia dalla trasformazione della domanda del mercato (società dei servizi e crescita della richiesta di beni immateriali), sia dell’evoluzione del contenuto e dell’organizzazione delle attività (conseguenza dell’innovazione tecnologica e della crescita del lavoro basato sulla conoscenza e sullo scambio di informazioni). Ma sono poche righe, e posso sbagliarmi.
Molto interessante infine il metodo che propone: quello dello “sperimentalismo democratico”. A questo proposito non vedo perché non dovrebbe essere d’accordo con lei sulla sperimentazione per i nuovi contratti di un nuovo diritto semplificato del lavoro: mi sembra un esempio utile per sfidare su azioni concrete le sue idee.
Enrico Castellano
Sul primo punto, posso soltanto raccontare come e perché sono arrivato alla decisione del dicembre scorso di uscire dal Pd. Senza volerla difendere a tutti i costi, ma soltanto per contribuire, con il dar conto della mia esperienza personale, al dibattito sulla questione che E.C. pone.
Mantenere l’iscrizione a un partito anche in posizione minoritaria ha un senso fin quando vi è la possibilità concreta di influire sulle scelte di quel partito e la speranza di riuscire in un futuro prossimo a diventare maggioranza; può avere un senso anche quando vi sia soltanto la prima, o soltanto la seconda. Nel mio caso, nonostante il mio grande attaccamento affettivo al Pd, nel dicembre scorso erano venute meno sia la prima sia la seconda. Erano venute meno quando avevo visto il modo in cui l’apparato centrale del partito selezionava i candidati per le elezioni politiche di febbraio, facendo terra bruciata intorno a Matteo Renzi e ai suoi sostenitori. La candidatura nelle liste bloccate di quel Pd, secondo la nostra pessima legge elettorale attuale, avrebbe comportato la prospettiva di una legislatura vissuta nell’angolo, sterile dal punto di vista della mia battaglia, in condizioni di isolamento. E tutto questo in funzione di una “riscossa” che avrebbe potuto forse venire nella legislatura successiva; ma io avevo allora 63 anni: un’età nella quale si avvicina (o dovrebbe, di regola, avvicinarsi) il momento del ritiro dall’agone politico. L’orizzonte di altre due legislature non era il mio.
Va anche detto che, dopo cinque anni di battaglie dure in seno al Pd sulla riforma del lavoro, ero diventato una figura divisiva, il simbolo di uno scontro, di qualche cosa che una parte del partito non accettava più neppure di discutere perché intorno ad essa era stato costruito con successo un vero e proprio “cordone sanitario”. Negli ultimi due anni, in qualsiasi città d’Italia io venissi invitato da una struttura del Pd l’iniziativa veniva poi disdetta, oppure accompagnata subito prima o subito dopo da un’iniziativa “ortodossa” volta a impedire il contagio delle mie idee e proposte. Quando nel novembre 2011 Mario Monti aveva ipotizzato che io potessi assumere il ruolo di ministro del Lavoro nel suo nuovo governo, un dirigente nazionale del Pd aveva dichiarato pubblicamente che questa scelta avrebbe determinato automaticamente la morte di quel nuovo esecutivo prima ancora del suo nascere; e non ho sentito in proposito una sola parola di smentita o rettifica da parte di uno dei membri della Segreteria. Questo era il contesto nel quale, nel dicembre scorso, quando Niki Vendola e Stefano Fassina incominciarono a dire che la vittoria di Bersani alle primarie era la pietra tombale sull’Agenda Monti, rinunciai alla ricandidatura nelle liste del Pd. E quando lo stesso Mario Monti mi espresse in modo molto insistente l’invito a unirmi a lui nella sua iniziativa politica volta a rilanciare quell’Agenda come terreno di incontro tra le forze politiche più responsabili, accettai senza molti rimpianti: anche perché alla redazione di quell’Agenda stavo collaborando già da mesi; e tornare in Parlamento con lui apriva la prospettiva di poter trasformare quel programma in un insieme organico di disegni di legge. Come infatti sta avvenendo.
Sul secondo punto condivido pienamente le osservazioni di E.C. (p.i.)
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