UNA RIFLESSIONE SUI RAPPORTI NON FACILI TRA IL PALAZZO E I MEDIA
Articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 26 giugno 2008
Non c’è da stupirsi se i politici litigano tanto spesso con i giornalisti. I primi hanno fame e sete di “visibilità” sui giornali, ma la vorrebbero su misura per la comunicazione dei loro discorsi complessi, pieni di sottili distinguo che interessano molto agli addetti ai lavori, poco al grande pubblico. I giornalisti, invece, sono interessati a pubblicare dichiarazioni o interviste che “fanno notizia”: quindi senza troppe sfumature, possibilmente sorprendenti nella loro nettezza e novità.
Da quando ‑ due mesi fa – sono passato per così dire dall’altra parte della barricata, sperimento quotidianamente il braccio di ferro con i giornalisti, cerco di difendere come posso il mio diritto al pensiero critico, alla possibilità di svolgere un discorso complicato dai “se” e dai “ma”; non do interviste se non a condizione di poter controllare ogni virgola di quanto mi viene attribuito. Ma, lo so bene, questo non basta. Perché prima del “virgolettato” comparirà un cappello nel quale anche il cronista più corretto riassumerà il contenuto del mio discorso eliminando ogni chiaroscuro; e l’intervista sarà riassunta in un titolo forzatamente brevissimo, fatto per colpire il lettore anche al costo di una drastica semplificazione. “Altrimenti – mi spiega un amico caporedattore – il pezzo appare moscio”. D’altra parte, si sa, anche il titolo è una forma di commento; sarebbe persino deontologicamente scorretto che l’intervistatore prendesse ordini dall’intervistato circa il modo in cui “cucinare” e titolare il proprio pezzo.
Certo, qualche volta anche i giornalisti esagerano. Giovedì scorso sono riuscito a controllare fortunosamente all’ultimo minuto, tra un aereo e l’altro, ogni virgola di una mia intervista a Libero, in cui cercavo di spiegare sia le notevoli novità positive della manovra varata da Tremonti, sia quella che considero una grave “crepa interna” dell’azione del governo; ma non ho potuto evitare che il pezzo uscisse venerdì con un titolo nel quale mi si attribuiva a tutta pagina, tra virgolette, una cosa che non ho mai dichiarato né pensato: “Sto con Tremonti”. Il giorno dopo il direttore Feltri si è scusato pubblicamente di questa forzatura. Ma le sue scuse – delle quali comunque lo ringrazio ‑ non hanno certo evitato che alla maggioranza dei lettori, quelli che leggono solo il titolo, sia giunto un messaggio gravemente inesatto riguardo a quel che penso e faccio in Parlamento.
Tolti i casi che sconfinano nella scorrettezza, la realtà è comunque questa: tra il politico che dichiara e il giornalista che riporta, la coincidenza di interessi è molto parziale. È nella natura delle cose che il meccanismo mediatico privilegi ciò che più attira l’attenzione del pubblico: lo scontro che fa scintille piuttosto che il dissenso felpato, la certezza piuttosto che il dubbio, la denuncia clamorosa piuttosto che l’ipotesi prudente. Dunque, in qualche misura, anche la faziosità rispetto allo sforzo di comprendere le ragioni dell’avversario.
Il politico che rifiuta quel meccanismo si doti di una propria rivista o di un proprio sito Internet, dove potrà pubblicare messaggi dosati con il bilancino, ma destinati a esser letti, se va bene, da mille persone. Se invece vuole quattro o cinque zeri in più nel numero dei destinatari dei propri discorsi, si rassegni al rischioso compromesso quotidiano tra le proprie esigenze di precisione del messaggio e quelle della comunicazione di massa. Le sue parole, un istante dopo che sono uscite dalla sua bocca, non gli appartengono più, vivono di vita propria, possono subire torsioni impreviste.
Occorre stare al gioco, senza lamentarsi troppo. A ben vedere, una stampa più attenta alle fisime dei politici che alle preferenze dei propri lettori non farebbe un servizio migliore alla democrazia.