IL PROGRAMMA DI POLITICA DEL LAVORO E DEL WELFARE

SEMPLIFICAZIONE, SUPERAMENTO DEL DUALISMO PROTETTI/NON PROTETTI, PIANO STRAORDINARIO PER L’OCCUPAZIONE GIOVANILE, DETASSAZIONE SELETTIVA DEI REDDITI DI LAVORO FEMMINILE, ACTIVE AGEING E SICUREZZA DEI SESSANTENNI NEL MERCATO DEL LAVORO

Il documento programmatico che segue, presentato da Mario Monti il 2 febbraio 2013 come parte integrante del proprio programma di governo per la XVII legislatura, è il frutto di un lavoro di gruppo cui hanno partecipato Alberto Bombassei, Giuliano Cazzola, Stefano Grassi, Pietro Ichino, Andrea Olivero, Marco Simoni e Irene Tinagli – È on line anche una scheda riassuntiva dei contenuti del documento


L’AZIONE DEL GOVERNO MONTI

Le riforme delle pensioni e del mercato del lavoro hanno fortemente caratterizzato l’azione del Governo Monti e hanno contribuito a far recuperare credibilità al nostro Paese sul piano europeo e su quello internazionale. Il Governo e la maggioranza hanno dimostrato di avere il coraggio di affrontare questioni rimaste per lungo tempo irrisolte o non risolte nella maniera adeguata.

La riforma delle pensioni del dicembre 2011 si è ispirata a criteri di uguaglianza tra le generazioni, ha messo in sicurezza la previdenza dei liberi professionisti, ha promosso il superamento delle pensioni di anzianità, che costituivano un’anomalia tutta italiana nel contesto europeo.
Queste scelte hanno comportato dei problemi nell’immediato, che il Governo ha affrontato garantendo a 130mila “esodati” (quelli che avrebbero maturato la pensione tra il 2012 e il 2014) di andare in pensione sulla base delle regole valide in precedenza, creando altresì un apposito Fondo di salvaguardia per i casi che si presenteranno negli anni successivi.
Il Governo ha anche avviato la soluzione del problema delle “ricongiunzioni onerose”, ereditato dal precedente esecutivo: un problema che aveva costretto decine di migliaia di lavoratori a sostenere costi incredibili per poter ricongiungere i versamenti contributivi presso diversi Enti e in diversi regimi.

La riforma del mercato del lavoro, entrata in vigore nel luglio 2012, pur muovendosi su un terreno delicatissimo anche in conseguenza degli effetti della crisi economica, ha promosso un migliore equilibrio tra le regole dell’assunzione e quelle della risoluzione del rapporto di lavoro. Ha corretto gli abusi nell’utilizzazione dei “rapporti flessibili” e ha reso meno rigida la disciplina del licenziamento individuale, senza però abbassare il livello delle tutele contro i licenziamenti discriminatori e immotivati.
In concreto, la legge Fornero ha compiuto un primo passo importante per realizzare il modello della flexsecurity e per superare il dualismo di protezioni tra dipendenti e collaboratori. Lo ha fatto:
• portando sia la disciplina dei licenziamenti sia il trattamento di disoccupazione (Assicurazione Sociale per l’Impiego al 70% dell’ultima retribuzione per tutti i settori del lavoro dipendente) agli standard del centro-Europa;
• riportando la Cassa integrazione alla sua funzione di garantire il sostegno del reddito quando c’è la prospettiva ragionevole di riprendere il lavoro nella stessa azienda.
Già nel corso del 2012 si sono visti alcuni primi risultati importanti sul terreno del superamento del dualismo delle protezioni, come nel caso dell’accordo per il settore del marketing operativo che prevede la regolarizzazione di 100.000 lavoratori a progetto.
Resta ancora da realizzare in modo efficace e incisivo quanto la legge Fornero prevede per i servizi di assistenza intensiva nella ricerca di una nuova occupazione.  Inoltre, è indispensabile – per evitare ulteriori perdite di occupazione – offrire a imprese e lavoratori la possibilità di sperimentare un modello di rapporto di lavoro dipendente flessibile e meno costoso, col quale sia possibile regolarizzare centinaia di migliaia di vecchie collaborazioni autonome in posizione di sostanziale dipendenza, senza perdite di occupazione dovute ad aumenti di costo o di rigidità (v. infra).

Il Governo Monti ha poi reso strutturali le agevolazioni contributive e fiscali a favore delle forme di retribuzione, contrattate a livello decentrato, per  migliorare  la produttività e la qualità del lavoro. Nello stesso tempo ha sollecitato le parti sociali  a realizzare  un’intesa specifica in materia, effettivamente raggiunta nel novembre 2012. Si tratta di interventi molto importanti perché consentono, attraverso adeguate e pertinenti politiche retributive, di incrementare la competitività del sistema produttivo nell’ambito dell’economia globale.

Le politiche attive del lavoro come ponte tra le riforme delle pensioni e del mercato del lavoro
Nel disegno comune alle due riforme, tra gli altri aspetti economici e sociali c’era il proposito di interrompere la consuetudine di ricorrere alle pensioni di anzianità come sbocco e prosecuzione di un percorso durato anni all’interno della rete degli ammortizzatori sociali e degli incentivi alla risoluzione consensuale del rapporto. Si è abusato di questa prassi per lungo tempo, ma essa oggi è diventata insostenibile perché è del tutto in contrasto con la necessità di:
• aumentare l’età di pensionamento effettiva (come disposto dalla riforma del dicembre 2011);
• garantire nel tempo l’equilibrio dei sistemi pensionistici pubblici nonostante il progressivo invecchiamento del Paese e le ricadute che ciò comporta sul mercato del lavoro.

In materia di lavoro, si affianca all’intervento sull’età pensionabile, attuato nel dicembre 2011, l’istituzione nel luglio 2012 e con effetto dal 1° gennaio 2013 dell’ASpI (Assicurazione Sociale per l’Impiego), cioè di un trattamento di disoccupazione di livello europeo (70% dell’ultima retribuzione) universalmente applicabile a tutti i lavoratori dipendenti, che, una volta a regime, contribuirà a evitare gli eccessi e gli sprechi nell’utilizzazione degli ammortizzatori sociali, collegando il sostegno del reddito alla ricerca effettiva della nuova occupazione.

Questi sono dunque i temi cruciali delle due riforme. Si tratta di una sfida che potrà essere vinta soltanto se verrà attuato un vero e proprio salto di qualità nel campo delle politiche attive del lavoro, in stretta collaborazione tra gli operatori pubblici e privati che fanno dei servizi per l’impiego la propria missione di funzione o d’impresa.

Per coloro che perdono il lavoro in età matura la sola alternativa non dovrà più essere quella di trascorrere alcuni anni, prima in cassa integrazione poi in mobilità, in attesa di accedere alla pensione. Chi resta disoccupato, da anziano, dovrà avere un’altra opportunità per rientrare nel mercato del lavoro, potendo contare nel frattempo su un sistema di ammortizzatori sociali che non si limiti ad assicurare un reddito, ma sia funzionale alla promozione di un adeguato re-impiego (v. infra).

IL PROGRAMMA

Se creare più posti e occasioni di lavoro costituisce l’ambizioso traguardo dei prossimi anni, occorre, però, anche migliorare la qualità del lavoro.
In Italia, la non buona qualità del lavoro è una conseguenza non soltanto del dualismo fra lavoratori protetti e non protetti e di un mercato del lavoro molto vischioso, che non favorisce la migliore allocazione delle risorse umane, ma soprattutto dell’ampia fascia di lavoro sommerso, irregolare e clandestino, che contribuisce a creare condizioni di esclusione sociale e di sottoutilizzo di capitale umano.
Un mercato del lavoro flessibile deve migliorare la qualità, oltre che la quantità dei posti di lavoro, rendere più fluido l’incontro tra obiettivi e desideri delle imprese e dei lavoratori e consentire ai singoli individui di cogliere le opportunità lavorative più proficue, evitando che rimangano intrappolati in situazioni a rischio di forte esclusione sociale.
Ciò induce a sperimentare nuove forme di regolamentazione, che rendano possibili modelli davvero in linea con gli interessi del singolo lavoratore e con le specifiche aspettative riposte in lui dal datore di lavoro. Inoltre, alla contrattazione collettiva va affidata una maggiore autonomia nel definire gli aspetti applicativi delle norme di carattere generale, in modo che essa possa al tempo stesso essere strumento di flessibilità e di adeguato controllo sociale.

LA RIMODULAZIONE SPERIMENTALE DEL CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO INDETERMINATO
Una soluzione ragionevole su cui lavorare è quella di sperimentare una rimodulazione del contratto a tempo indeterminato, tesa a renderlo più flessibile e meno “costoso”. Per questo occorre far leva su di una incisiva riduzione del cuneo fiscale e contributivo collegata ad alcune guidelines per la contrattazione collettiva aziendale, tendenti al superamento dell’attuale dualismo del mercato del lavoro e, al tempo stesso, a dare risposte adeguate alle esigenze di flessibilità delle imprese e dei processi produttivi.
In questa prospettiva, a fronte di un’assunzione a tempo indeterminato, diventerà possibile assicurare maggiori tutele sostanziali, anche sul piano della continuità del lavoro, del reddito e della relativa contribuzione pensionistica, a tanti giovani che oggi ne sono del tutto privi, senza rilevanti aumenti di costo o di rigidità per le imprese.
Attraverso l’introduzione di strumenti propri di un sistema che coniughi flessibilità delle strutture produttive e politiche attive per la sicurezza economica e professionale dei lavoratori (flexsecurity), si realizzeranno esperienze e buone pratiche di promozione del lavoro, ben oltre la salvaguardia del posto. In particolare, il progetto mirerà, attivando gli incentivi giusti per imprese e lavoratori, anche alla riorganizzazione e irrobustimento dei servizi all’impiego pubblici e privati, e soprattutto dell’assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione (outplacement), con l’obiettivo di una drastica riduzione dei periodi di disoccupazione.

In sostanza, non si propone una revisione della nuova disciplina dei licenziamenti individuali introdotta dalla legge n. 92/2012, ma la possibilità di sperimentare soluzioni più flessibili, in particolare per la regolarizzazione delle collaborazioni continuative autonome irregolari. Questa appare oggi una scelta utile e facilmente praticabile con modifiche legislative minime, dal momento che le parti sociali già possono avvalersi di quanto è loro consentito dall’articolo 8 del decreto legge n. 138 del 2011, anche per quanto riguarda gli effetti del recesso dal rapporto di lavoro. Si tratta di una norma-chiave che indica una serie di materie derogabili, attraverso la contrattazione collettiva decentrata, ma la cui utilizzazione va opportunamente orientata e sostenuta mediante guidelines tracciate al livello nazionale. La norma stessa indica gli obiettivi che in questo modo possono e devono essere perseguiti: la maggiore occupazione, la qualità dei contratti di lavoro, l’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, l’emersione del lavoro irregolare, gli incrementi di competitività e di salario, la gestione delle crisi aziendali e occupazionali, gli investimenti e  l’avvio di nuove attività.  Le intese possono prevedere deroghe alle norme di fonte pubblica o contrattuale, fermo restando il rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro. Ricordiamo in proposito che la contrattazione in deroga – che in Italia significa restituire alla contrattazione collettiva il ruolo che nell’ultimo mezzo secolo le è stato tolto da una legislazione statuale troppo intrusiva – è diffusa nei principali Paesi europei e ha consentito in molti casi, per esempio in Germania, di rafforzare le relazioni industriali e di farne un elemento determinante per la ripresa economica.

UN NUOVO SISTEMA DI WELFARE CHE DIA SICUREZZA A TUTTI, INDIPENDENTEMENTE DAL TIPO DI LAVORO
L’obiettivo di valorizzare, come rapporto di lavoro prevalente, il contratto a tempo indeterminato rimodulato su maggiore flessibilità, mobilità e occupabilità, diverge dalla proposta del “contratto unico” , poiché non riduce tutti i possibili tipi di contratto di lavoro a uno solo: il nostro tessuto produttivo non può certo fare a meno dell’apprendistato, dei contratti a termine, o delle vecchie e nuove forme di collaborazione autonoma continuativa. Purché, però, queste non vengano utilizzate per nascondere la sostanziale elusione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
Superando le resistenze ideologiche di un passato recente, lo staff leasing e il rapporto di fornitura di lavoro temporaneo hanno acquisito sempre più le caratteristiche della flessibilità buona, soprattutto quando il personale, adeguatamente e correntemente impegnato in programmi di formazione, viene assunto a tempo indeterminato dalle Agenzie specializzate in questa attività di servizio al mercato del lavoro.

Tuttavia, quanto più sarà reso meno oneroso e più flessibile il lavoro a tempo indeterminato tanto più sarà possibile contrastare le forme non autentiche di lavoro autonomo.

La flessibilità del lavoro e le norme che la regolano, sono nate e vivono per rispondere alla realtà di un mercato e di un tessuto imprenditoriale che ha bisogno di risposte non forzatamente uniformi per affrontare differenti fasi della sua crescita, come pure differenti fasi dell’economia e del processo produttivo.

È la sfida di un nuovo sistema di welfare pensato in modo da agevolare e rendere possibile lo sblocco del mercato del lavoro, e da riunificare il più possibile ciò che l’organizzazione del lavoro tende a distinguere e a separare. In sostanza, a tutte le tipologie contrattuali dovranno essere riconosciuti diritti sociali e previdenziali il più possibile uniformi. I sistemi di welfare potranno così diventare il momento unificatore   di una realtà frantumata (non più riconducibile a un solo modello, pur essendo prevalente quello del lavoro a tempo indeterminato) e favorire nel contempo, la flessibilità del lavoro.

Al lavoro stabile e per un’intera carriera si contrappongono oggi sempre più spesso frequenti cambiamenti di occupazione e professione che richiedono tutele più adeguate. I mutamenti del mondo del lavoro implicano la nascita di esigenze che spiazzano un sistema di tutele ingessato (perché fatto di norme rigide sulla carta e poco adattabili alla mutevole realtà del lavoro), imponendo di introdurre regole più duttili e di definire diritti tendenzialmente universali e tutele di natura promozionale.

Ecco perché diventa necessario riequilibrare la spesa sociale spostandola dalla copertura dei rischi più tradizionali (vecchiaia, superstiti), a favore invece di altri (formazione, disoccupazione, sostegno al reddito, nuove povertà) fino a oggi gravemente sacrificati. È la frontiera del welfare to work: un sistema di welfare in grado di riunificare un mondo del lavoro le cui differenze congenite potrebbero, invece, esaltare e rendere irreversibile il dualismo ora esistente.

La previdenza complementare
La legislatura appena trascorsa non ha adeguatamente considerato l’importanza strategica che potrebbe assumere l’ulteriore sviluppo della previdenza complementare privata a capitalizzazione.

A partire dalla riforma delle pensioni del Governo Monti sono state ipotizzate, sia pure sul terreno programmatico e sottoposto a verifiche di sostenibilità, “eventuali forme di decontribuzione parziale dell’aliquota contributiva obbligatoria verso schemi previdenziali integrativi in particolare a favore delle giovani generazioni”. Si tratta cioè di consentire a un lavoratore, in particolare se giovane e privo di un rapporto di lavoro dipendente (quindi nell’impossibilità di avvalersi del tfr per aderire a un fondo), di finanziare volontariamente una forma di previdenza complementare (che può essere gestita dallo stesso Inps, o da altro gestore scelto dalla persona interessata) con una parte della sua contribuzione obbligatoria. In questo modo potrebbe distribuire il proprio rischio previdenziale su una quota pubblica a ripartizione e una privata a capitalizzazione, senza dover sostenere maggiori costi. L’esperienza pratica dimostra che i giovani non si avvicinano ai fondi pensione proprio perché non dispongono di ulteriori risorse rispetto a quelle che sono tenuti a versare alle gestioni obbligatorie. Con questo tipo di soluzioni, inoltre, si otterrebbe certamente una copertura pubblica inferiore, ma sarebbe possibile ottenere rendimenti più generosi sui mercati.

UN NUOVO CODICE DEL LAVORO PIÙ SEMPLICE E COMPRENSIBILE

Oggi la legislazione sul rapporto di lavoro è talmente voluminosa, caotica e disorganica, da essere difficilmente comprensibile anche per gli esperti.
È possibile e assolutamente necessario, anche per contribuire ad aprire il sistema Italia agli investimenti stranieri, ridurre (abrogando e riorganizzando centinaia di norme stratificatesi nel tempo) la legislazione nazionale a un Codice del lavoro, integrato nel Codice civile, composto da un numero limitato di articoli, leggibile e comprensibile direttamente dai milioni di persone interessate alla sua applicazione e traducibile in inglese, secondo le linee-guida dettate dall’Unione Europea con il Decalogue for Smart Regulation (Stoccolma, 12 novembre 2009).
Esso costituirà un “biglietto da visita” molto importante per l’Italia nel mondo, dando l’immediata percezione del suo allineamento ai migliori standard legislativi dei Paesi più avanzati e di una sua nuova capacità di stare nell’economia globale.

IL MONITORAGGIO DELL’APPLICAZIONE E DEGLI EFFETTI DELLA LEGGE FORNERO
Molta attenzione dovrà essere rivolta al monitoraggio previsto dalla riforma Fornero, anche sollecitando avvisi comuni delle parti sociali nei casi in cui la pratica metta in evidenza esigenze di revisione, integrazione e modifica.

Bisogna, inoltre, completare, secondo criteri di semplificazione,  la riforma del mercato del lavoro con la normativa di carattere applicativo e, dove è previsto, mediante la contrattazione collettiva, come nel caso del lavoro a termine, che ha sollevato rilevanti problemi in settori contraddistinti dalla presenza strutturale di lavoro stagionale. Un altro aspetto da rivedere è quello del previsto incremento graduale al 33% dell’aliquota contributiva – una misura  rivelatasi  insostenibile – per  gli iscritti in via esclusiva alla Gestione separata presso l’Inps (collaboratori, titolari di partita IVA, professionisti privi di un ordine, ecc,). Già il Parlamento ha provveduto a posticipare la prima tranche al 2014, proprio per consentire una riconsiderazione dell’intera materia nella prossima legislatura.

In generale, occorre semplificare, razionalizzare e rendere più efficaci le norme sulla flessibilità nel mercato del lavoro, potenziare le politiche attive per il lavoro, attraverso una formazione più calibrata sulle esigenze del sistema produttivo e rendendo effettiva l’alternanza scuola-lavoro negli istituti professionali, per valorizzare il capitale umano.

LE DONNE NELLA SOCIETÀ E NELL’ECONOMIA

L’Italia non è un Paese per donne ma è prioritario che lo diventi se vogliamo che aumentino la crescita del nostro vivere civile, la partecipazione femminile al lavoro e la possibilità di beneficiare dei diritti che ne derivano.

La popolazione femminile è più numerosa di quella maschile e in media più qualificata, tuttavia, il mercato del lavoro non incoraggia la partecipazione delle donne, che vi entrano con più difficoltà e vi rimangono con oggettivi vincoli rispetto ad altri ruoli: salari più bassi e incertezze che non le mettono in grado di avere figli ed essere finanziariamente indipendenti.

È necessaria una grande “azione positiva” volta a realizzare l’obiettivo degli accordi europei di Lisbona del 2000, sul quale siamo in gravissimo ritardo: portare il tasso di occupazione femminile dal 46% attuale alla media UE del 60%, mediante una detassazione selettiva che incentivi simmetricamente domanda e offerta, sul modello del d.d.l. Germontani n. 324/2008 e del il d.d.l. Morando n. 2102/2010. Occorre inoltre realizzare a) l’ “obiettivo di Barcellona” in tema di assistenza alla prima infanzia, con un piano straordinario per gli asili nido; b) un piano nazionale per l’offerta di un servizio qualificato di assistenza alle persone non autosufficienti, che al tempo stesso attivi una nuova domanda e una nuova offerta di lavoro retribuito femminile.

La società tende a non offrire modelli femminili positivi: l’immaginario collettivo è afflitto da una comunicazione massiccia, volgare e umiliante della donna, con conseguenze devastanti per la cultura italiana e per la formazione di bambini e bambine. Ogni donna – che sia giovane o adulta, lavoratrice o meno, madre o comunque cittadina del nostro Paese – è lasciata sostanzialmente sola di fronte a questa situazione.

Politiche di conciliazione

Bisogna superare l’idea che le politiche di conciliazione riguardino solo le donne, che solo loro cioè abbiano il problema di conciliare il lavoro professionale e il lavoro di cura. Questa convinzione finisce per tutelare gli uomini a spese della finanza pubblica.

La priorità deve essere data all’occupazione, sia in termini di provvedimenti per la partecipazione al lavoro, sia di sostegno alla scelta di avere figli e alla responsabilità della cura degli anziani e dei non autosufficienti per entrambi gli adulti nel nucleo familiare.

Queste misure non devono avere solo l’obiettivo di incoraggiare le donne ad avere una carriera e un reddito proprio, ma anche quello di fare in modo che arrivino a occupare, con autorevolezza e merito, posizioni di responsabilità.

Sono necessari, inoltre, provvedimenti che favoriscano una più equa assunzione di responsabilità, all’interno della coppia, del lavoro di cura. In tal senso si è mossa la legge Fornero, che ha stabilito il principio del congedo obbligatorio anche per il padre.

L’ampliamento di questi principi offrirebbe un trattamento paritario di lavoratori e di lavoratrici, azzerando di fatto la discriminante della maternità in fase di assunzione e di valutazione della carriera da parte delle imprese, permettendo alla coppia di scegliere quale dei due genitori voglia, o possa, tornare prima al lavoro. Certamente la madre non può essere sostituita del tutto dal padre in congedo obbligatorio poiché le è necessario un periodo congruo di vicinanza al proprio figlio e anche per riprendersi dal parto.

L’introduzione di nuovi diritti nel campo della conciliazione famiglia-lavoro per uomini e donne può essere finanziata attraverso un uso più corretto, senza variare il costo del lavoro, dei contributi versati per l’assegno al nucleo familiare, il cui avanzo di gestione, nel bilancio Inps, è in attivo e a tutt’oggi viene dirottato a finanziare gestioni deficitarie. In Italia esiste una legislazione molto avanzata a tutela della maternità e contro le discriminazioni. La legge Fornero ha rafforzato queste tutele.

Lo sviluppo del welfare aziendale

Un contributo importante può venire dallo sviluppo del welfare aziendale. Si tratta di incentivare le imprese, via via che la crescita economica lo permette, a istituire asili aziendali o a stipulare convenzioni con asili del territorio per garantire posti ai figli dei dipendenti. Un’altra soluzione può essere quella di costituire cooperative di “baby nido” interaziendali, pubbliche/private.

Si possono mettere in atto, inoltre, misure di lavoro flessibile, come la possibilità di accorpare gli straordinari ai congedi di maternità e di paternità, facendo rientrare queste misure negli accordi di produttività e riconoscendo le agevolazioni fiscali e contributive stanziate a questo proposito.
Secondo un’indagine condotta nel 2012 su 318 grandi imprese con più di 500 dipendenti, la natura degli interventi di welfare era così ripartita:
• l’87,5% partecipa a un fondo pensione;
• il 60,6% partecipa a un fondo sanitario;
• il 39% si avvale di un sistema di prestiti agevolati;
• il 27,6% ha messo a disposizione dei propri dipendenti congedi extra;
• il 24,4% fornisce agevolazioni al consumo;
• il 23,3 % eroga misure di sostegno al reddito;
• il 23,1% eroga borse di studio;
• il 18,5% fornisce servizi di cura per l’infanzia;
• il 9,4% ha un fondo per cura a lungo termine;
• il 6,7% favorisce l’uso di alloggi.

Le esperienze del welfare aziendale costituiscono dunque un terreno di buone pratiche da seguire e diffondere: pratiche che, per le piccole imprese, possono trovare adeguata e specifica risposta negli enti bilaterali.

Gli asili nido

Gli asili nido non devono essere necessariamente comunali, possono anche essere privati-convenzionati.

Il pagamento della retta va stabilito sulla base del reddito del nucleo familiare, mentre le risorse destinate devono essere sicure e strutturali, individuate nella legge di stabilità e non più con misure una tantum.

È opportuno favorire la costituzione di fondi bilaterali dedicati al sostegno delle famiglie dei lavoratori e delle lavoratrici che devono far fronte al pagamento delle rette degli asili nido.

I servizi alla persona

In materia di servizi alla persona, la legge Fornero ha introdotto la possibilità di utilizzare appositi voucher per avvalersi della professionalità di assistenti badanti qualificati/e per la cura degli anziani non autosufficienti.

Quello della cura è un ruolo che per ora è prevalentemente responsabilità della donna nella famiglia, ma che dovrebbe svilupparsi in un servizio alla persona organizzato e retribuito a livello locale, attraverso la promozione di sinergie e partenariati pubblico-privati e riconoscendo alla famiglia il diritto di essere sia destinataria, sia prestatrice d’opera di alcuni servizi. Dobbiamo incominciare a utilizzare le risorse del Fondo sociale europeo anche per i voucher destinati alla conciliazione tra tempo di cura e tempo di lavoro, o per i voucher destinati ai servizi o formativi.

UN PIANO STRAORDINARIO PER L’OCCUPAZIONE GIOVANILE

Oggi solo un terzo della forza lavoro nella fascia tra i 18 e i 30 anni è al lavoro, mentre un terzo non è né al lavoro né è impegnato in attività di formazione.
È necessario dare corso a un piano straordinario per l’attuazione dei programmi “Opportunità per tutti i giovani” e “Youth Guarantee” previsti dall’Unione Europea. A ogni giovane che esce da un ciclo scolastico e che non trovi immediatamente un’occasione di lavoro, entro il termine massimo di 4 mesi deve essere offerto dal servizio pubblico, in collaborazione stretta con organizzazioni private, imprenditoriali e no:
• un servizio di orientamento scolastico e professionale;
• una opportunità di apprendistato e/o lavoro favorita da sgravi fiscali, o di addestramento, formazione on the job, indirizzata verso le centinaia di migliaia di posti di lavoro che in Italia restano permanentemente scoperti per mancanza di persone con le attitudini richieste;
• dove possibile, una opportunità di assistenza per avviare un’attività lavoro autonomo o un’impresa.
Per attuare questi programmi occorre:
• proseguire nel processo, già avviato dalla legge Fornero, di riduzione del cuneo fiscale e contributivo sui rapporti di lavoro con persone di età fino ai 29 anni;
• attivare il reclutamento straordinario di figure professionali definite “promotori di opportunità” per i giovani, adeguatamente formati (anche a Bruxelles), da inserire nei centri per l’impiego, nelle scuole, nelle università ecc.;
• a Bruxelles l’Italia deve proporsi di diventare il Paese leader per quanto riguarda il sostegno e lo stimolo alla Commissione a promuovere le opportunità dei giovani tramite una legislazione snella e fondi;
• istituire una “cellula giovani” presso la Rappresentanza permanente della Commissione Europea, con esperti di politiche del lavoro e del welfare in grado di inserirsi nel dibattito e nella politica comunitaria europea;
• sostenere il nuovo contratto di apprendistato come normale canale di assunzione dei giovani lavoratori;
• avvalersi, mettendole in rete tra di loro, delle banche dati delle Università e dei loro Consorzi (come AlmaLaurea) contenenti i curricula dei laureati nelle differenti discipline.
Ovviamente, anche la prevista rimodulazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato unitamente alle norme più rigorose della riforma Fornero sui rapporti di lavoro flessibili, consentiranno una maggiore occupabilità dei giovani.
Vanno inoltre impiegate in maniera molto più efficiente le rilevanti risorse di cui dispongono le Regioni per la formazione professionale. Il know how formativo è il bagaglio professionale del futuro, mentre quello alla riqualificazione è il principale diritto sociale ‘moderno’ degli anni a venire. Valorizzare i giovani è una condizione indispensabile per lo sviluppo di un’economia moderna: il grado di istruzione della forza lavoro, e in particolare dei giovani, è un fattore fondamentale di crescita in un’economia basata sulla conoscenza.
È il capitale umano, dunque, ad assumere un ruolo centrale nel contesto di un rapido avanzamento della frontiera tecnologica e l’impetuoso ingresso sui mercati internazionali delle economie emergenti. Ecco perché è venuto il momento di pensare a un progressivo consolidamento dei rapporti di lavoro, riducendo il grado di segmentazione del mercato, intervenendo sulla regolamentazione delle diverse tipologie contrattuali ed estendendo le coperture assicurative. Di converso, occorre rendere flessibile il rapporto di impiego anche nelle parti più avanzate e più terminali della carriera, in modo che il peso della flessibilità venga ripartito più equamente tra giovani e anziani.
Occorre mettere in rete i servizi per il lavoro pubblici e privati, mediante la costituzione di una Agenzia Nazionale per il lavoro nella quale far confluire la gestione delle politiche del lavoro e del sistema dei sussidi. L’Agenzia nazionale attua i suoi programmi concordando azioni e obiettivi con le Regioni, che provvedono attraverso la rete degli accreditati, dei centri pubblici per l’impiego e degli autorizzati, ad attuare i programmi di reimpiego. Le Agenzie Regionali accorpano le reti dei centri pubblici per l’impiego e le competenze amministrative e di gestione degli ammortizzatori sociali. L’efficacia delle azioni è monitorata tramite il sistema delle comunicazioni obbligatorie integrato da indagini specifiche.

ACTIVE AGEING: PER UNA VITA ATTIVA DEGLI ANZIANI
Solo un terzo degli italiani sopra i 50 anni è attivo nel mercato del lavoro, a fronte della metà in Germania e dei due terzi nei Paesi scandinavi.
L’obiettivo dell’invecchiamento attivo è fondamentale non soltanto per l’equilibrio del sistema previdenziale, ma anche per consentire che maggiori risorse siano destinate agli investimenti produttivi.
Non solo è falso che per dare lavoro ai giovani sia necessario prepensionare gli anziani, ma è vero esattamente il contrario: i Paesi con tasso di occupazione degli anziani più alto sono anche quelli con tasso di occupazione giovanile più alto.
Occorrono dunque:
• forti incentivi economici (sgravi fiscali e sgravi contributivi, sulla linea inaugurata con la legge Fornero) e normativi all’assunzione dei cinquanta-sessantenni;
• maggiore flessibilità nella fase (62-67 anni) del passaggio dal lavoro alla pensione, con possibilità di combinare part-time con mezza pensione;
• per coloro che comunque rimangono senza lavoro e in attesa della pensione, non è detto che la sola forma di tutela possibile sia il prepensionamento, ma può essere anche l’estensione del nuovo trattamento di disoccupazione (ASpI).

SERVIZI PUBBLICI, AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE E PUBBLICO IMPIEGO
Migliorare i servizi pubblici è un obiettivo primario e irrinunciabile per il nostro Paese. Le varie riforme che si sono succedute negli ultimi vent’anni hanno spesso deluso le aspettative e ampliato il divario tra esigenze di cittadini e imprese e servizi erogati. Per rilanciare l’operato della pubblica amministrazione bisognerà:
• mettere gli interessi degli utenti al centro del discorso;
• introdurre meccanismi effettivi per misurare, valutare e incentivare il funzionamento delle strutture, le prestazioni individuali e di gruppo, dedicando particolare attenzione alle differenze di genere;
• generare un miglioramento continuo attraverso la trasparenza e il metodo del benchmarking, cioè del confronto tra amministrazioni che svolgono lo stesso tipo di servizio, in modo da sollecitare l’allineamento delle peggiori alle migliori;
• esternalizzare i servizi e le funzioni che possono essere più efficaci ed efficienti se gestiti in regime privatistico, fermo restando il ruolo della PA nella definizione degli standard e nella vigilanza.

La pubblica amministrazione oggi è prevalentemente al servizio di se stessa, degli interessi dei propri addetti. Occorre ri-orientarla, in modo da metterla prioritariamente al servizio del cittadino. Questo si può ottenere comprendendo meglio le esigenze di cittadini e imprese, e coinvolgendoli nello sviluppo ed erogazione dei servizi. Inoltre, dovunque possibile, devono essere attivati sistemi di valutazione da parte di cittadini/utenti e di osservatori qualificati (stampa specializzata, associazioni degli utenti, ricercatori universitari) e realizzare un incontro periodico pubblico per il confronto tra valutazione interna e valutazione esterna. In pratica, questo approccio aperto alla cittadinanza e al mondo produttivo deve tradursi in una riduzione dei passaggi burocratici per ottenere servizi, permessi e autorizzazioni, ma anche in servizi più efficaci.
Ogni dirigente pubblico, una volta che gli siano assicurati anche nella gestione delle risorse e del personale adeguati spazi di autonomia e di operatività, deve essere ingaggiato sulla base dell’impegno a raggiungere obiettivi precisi, specifici, misurabili e controllabili. E devono essergli attribuite le prerogative dirigenziali necessarie per raggiungerli, guidando e motivando adeguatamente i dipendenti. Per raggiungere questo obiettivo generale occorre:
• applicare tutte le tecniche oggi disponibili per misurare e valutare efficienza e produttività di ciascuna struttura;
• promuovere la cultura della misurazione e della valutazione che dovrà consentire il confronto fra strutture omogenee e l’evidenziazione delle differenze di efficienza e produttività fra di esse (benchmarking);
• garantire la trasparenza totale, secondo il modello del Freedom of Information Act britannico e di quello statunitense per:
– rendere immediatamente accessibili in rete tutti i dati inerenti al funzionamento delle amministrazioni e agli obiettivi assegnati a ciascun dirigente;
– far sentire il più possibile ai politici e ai dirigenti delle strutture pubbliche il fiato dell’opinione pubblica sul collo e vigilare contro l’ingerenza indebita dei politici nella gestione, offrendo una sponda solida ai dirigenti più corretti e professionalmente dotati che vi si oppongono.
Il miglioramento sarà imposto come obiettivo realistico e misurabile, che i dirigenti di queste amministrazioni saranno tenuti a realizzare entro un termine appropriato. A quelli che, pur in presenza dell’attribuzione di adeguati poteri anche nella gestione del personale, mancheranno l’obiettivo in misura grave, dovrà essere revocato l’incarico dirigenziale. Nelle strutture che mostreranno di non sapersi riallineare alla media, dovranno essere bloccati gli aumenti retributivi. Viceversa, le strutture che fanno registrare i risultati migliori dovranno essere adeguatamente premiate nella distribuzione delle risorse disponibili.
Tra gli obiettivi dei dirigenti di vertice sarà prioritario quello del riequilibrio nella distribuzione degli organici, tra strutture che presentano situazioni di eccedenza e situazioni di carenza di personale, attraverso una gestione rigorosa della mobilità, anche tra amministrazioni diverse.

RAPPRESENTANZA, RAPPRESENTATIVITÀ SINDACALE E CONTRATTAZIONE COLLETTIVA
In materia di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro occorre dare sostegno e applicazione tendenzialmente generale ai criteri stabiliti dall’accordo interconfederale 28 giugno 2011, in modo che sia possibile in ogni caso individuare il sindacato o la coalizione sindacale che raccoglie la maggioranza dei consensi, al livello aziendale e ai livelli superiori fino a quello nazionale. Secondo gli stessi criteri devono essere stabiliti i rapporti tra maggioranza e minoranza sindacale in azienda. Al sindacato o coalizione maggioritaria deve quindi essere attribuito il potere di stipulare contratti collettivi con efficacia generale nell’ambito di sua competenza, consentendo il decentramento della contrattazione collettiva come forma più rilevante di negoziato secondo le linee dell’accordo interconfederale sulla produttività del novembre 2012. Il contratto collettivo nazionale stipulato dal sindacato o coalizione maggioritaria resta la disciplina applicabile in tutta la categoria, salvo deroga al livello aziendale (cioè come disciplina di default).
Quanto al modello di contrattazione collettiva che deve sempre più essere promosso e rafforzato, come ha ribadito la Bce nella sua lettera del 5 agosto 2011 “c’è anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro sulle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto agli altri livelli di negoziazione”. La stessa sollecitazione è stata ripetutamente rivolta all’Italia dai vertici dell’Unione Europea nell’ultimo anno.
Si tratta quindi di dare piena applicazione e sviluppo all’impostazione dell’accordo del 28 giugno 2011, che ha trovato una definizione concreta nel recente patto per l’incremento della produttività del 15 novembre 2012 e nei provvedimenti del Governo Monti, per rendere strutturali le agevolazioni fiscali e contributive per erogazioni salariali concordate al fine di migliorare la produttività aziendale e del lavoro.

Allo stesso obiettivo deve tendere l’attuazione alla delega contenuta nella legge Fornero in materia di forme di partecipazione dei lavoratori in azienda, secondo i criteri fissati nella stessa delega, che mirano – sempre e soltanto attraverso la libera contrattazione aziendale – a favorire l’allineamento al livello medio europeo (20%) della percentuale oggi molto bassa (5%) di aziende italiane nelle quali si sperimentano pratiche partecipative.

In relazione alle politiche di concertazione tra Governo e parti sociali, va detto innanzitutto che esse possono produrre risultati apprezzabili solo a condizione che tutte le parti condividano almeno una visione comune circa gli obiettivi da raggiungere e i vincoli da rispettare; altrimenti il “vincolo di concertazione” si trasforma in potere di veto, attribuito oltretutto a soggetti che non rappresentano per intero le rispettive categorie. Occorre inoltre tener conto di una più complessa articolazione della rappresentanza delle categorie stesse, che rende difficilmente ripetibile la prassi invalsa nei decenni scorsi. Senza pretendere di trovare un metodo valido in tutte le occasioni, va tenuta in considerazione l’esperienza compiuta nel caso del negoziato sulla produttività, dove il Governo ha indicato alle parti sociali degli obiettivi da raggiungere, determinati anche sulla base del loro avviso comune.

SALUTE E SICUREZZA DEL LAVORO
Il Testo Unico del 2008 e le modifiche, condivise dalle parti sociali, apportate nel 2009 in sede di revisione, costituiscono un impianto normativo avanzato e moderno che affida un ruolo determinante alla prevenzione e alla formazione.
L’istituzione da parte dell’Inail di un “Polo della sicurezza” che nella sua attività deve coordinarsi con l’azione delle Asl, prefigura uno strumento operativo più efficace nel settore, ben al di là delle funzioni di carattere assicurativo/risarcitorio.
Siamo tuttavia lontani dal considerare debellata la piaga degli infortuni e delle morti sul lavoro. Un reale avanzamento nella tutela della salute e della sicurezza nel posto di lavoro (che sempre più si rapporta alle problematiche del territorio, come ha dimostrato il drammatico caso dell’ILVA di Taranto, nel quale la linea di condotta del Governo è stata ineccepibile) richiede un’assunzione di responsabilità da parte del singolo lavoratore e un impegno solidale e sinergico delle parti sociali nella quotidianità dei processi produttivi, non essendo possibili interventi continuativi a opera delle istituzioni preposte. Una significativa importanza assumono le misure di carattere “premiale”, sul piano fiscale e contributivo, a favore delle aziende che investono in nuove tecnologie e riescono a contenere e ridurre il numero degli infortuni.
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