PER UNA NUOVA POLITICA DEL LAVORO

La serie di articoli in materia di politica del lavoro pubblicati dal Corriere della Sera nell’estate 2007

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1. Tre domande al ministro Damiano
LE LEGGENDE SULLA LEGGE BIAGI

2. La polemica sui sindacalisti che difendono i nullafacenti
UN CODICE ETICO PER IL SINDACATO

3. Partito Democratico e politiche del lavoro prive di respiro
I VICOLI CIECHI DELLA SINISTRA

4. Lavoro: quanto costa la mancanza dei dati
MENO BANDIERE, PIÙ PRAGMATISMO

5. Un imprenditore per l’Alitalia
SE IL SINDACATO NON SA SCEGLIERE

6. La polemica contro la “casta sindacale”
LE REGOLE MANCANTI

7. Lavoro, sviluppo tecnologico e globalizzazione
COME SI COMBATTONO LE DISEGUAGLIANZE

8. L’importanza di un vero pluralismo sindacale
IL SINDACATO E IL SALARIO

9. La trattativa di autunno sulle relazioni sindacali
MA SU CHE COSA STANNO LITIGANDO?

1. Tre domande al ministro Damiano
LE LEGGENDE SULLA LEGGE BIAGI
(pubblicato il 18 giugno 2007)
Le modifiche alla legge Biagi annunciate dal ministro del Lavoro sono quelle indicate fin dall’anno scorso nel programma elettorale dell’Unione come necessarie per la lotta contro il lavoro precario: abolizione del lavoro a chiamata, o job on call, e dello staff leasing. Il ministro però farebbe bene a rispondere in modo preciso e pertinente alle obiezioni che da più parti, e anche dall’interno dello schieramento di centro-sinistra, sono state mosse contro questo punto del programma.
Quanto al job on call, si tratta in sostanza dei contratti a termine di brevissima durata, che sono sempre esistiti: sono quelli del cameriere ingaggiato a giornata per un banchetto, o della hostess per un congresso; la legge Biagi non aveva fatto altro che dettare alcune norme più rigorose per questi casi, rispetto al vuoto normativo precedente. Ora, il governo intende abrogare queste norme per tornare alla libertà totale che vigeva prima? Oppure intende vietare l’ingaggio del cameriere per un banchetto o della hostess per un congresso?
Quanto allo staff leasing, tutti ormai sanno che si tratta di una forma di organizzazione del lavoro che prevede l’assunzione a tempo indeterminato, con una stabilità persino superiore rispetto a quella del rapporto di lavoro ordinario: il lavoratore in staff leasing è protetto contro il licenziamento non soltanto dall’articolo 18 dello Statuto, ma anche dal divieto di licenziamento collettivo. Con questo nuovo tipo di contratto la legge Biagi intendeva offrire, nel settore dei servizi all’impresa ad alta intensità di lavoro (pulizia, facchinaggio, marketing, servizi informatici, ecc.), un rapporto assai più stabile e protetto ai lavoratori che oggi svolgono questi servizi come dipendenti di aziendine appaltatrici, cui sovente l’articolo 18 non si applica e che, quando cessa l’appalto, sono ad alto rischio di perdere il posto. Libero, ovviamente, il governo di preferire i mini-appalti; ma che cosa c’entra l’abolizione dello staff leasing con la lotta al precariato?
Vengono preannunciate anche modifiche restrittive alla disciplina del contratto a termine, che non è contenuta nella legge Biagi, bensì in un decreto legislativo di due anni precedente (n. 368/2001). Ma non esiste alcuna evidenza di una responsabilità di quel decreto nel fenomeno dell’aumento del lavoro precario. La realtà è che l’aumento del lavoro precario ha incominciato a manifestarsi fin dagli anni ’70 ed è continuato ininterrottamente fino alla fine degli anni ’90, per poi arrestarsi proprio negli anni della penultima legislatura.
Questo è riconosciuto anche in un libro scritto prevalentemente da sociologi ed economisti di sinistra, di cui il ministro Damiano e il presidente della Commissione lavoro del Senato Tiziano Treu hanno scritto una laudativa prefazione (La “legge Biagi”. Anatomia di una riforma, Editori Riuniti, 2006). Qui, in un saggio dell’economista Gianni Principe si legge: “se stiamo ai dati Istat sulla diffusione del lavoro a termine, il 2001 non ha segnato nessuna svolta, ma piuttosto un momento di declino”; “inoltre il divario dalla media europea… appare di una certa consistenza (circa cinque punti in meno), da cui si potrebbe dedurre che abbiano ragione quanti oppongono alle teorie sulla precarizzazione la constatazione rassicurante di una buona capacità di tenuta del nostro sistema di norme a protezione dei lavoratori”. Stessa musica nel contributo del sociologo Aris Accornero, molto vicino alla Cgil: “un esame più analitico … non sembra indicare la riforma (legge Biagi – n.d.r.) come causa diretta del calo di rapporti stabili emerso nelle previsioni 2005 … In sintesi: a) è scesa di 1,9 punti la quota di imprese che hanno utilizzato dipendenti a tempo determinato; b) è scesa di 4 punti la quota di imprese che hanno utilizzato lavoratori interinali; c) è crollata di ben 6,8 punti la quota di imprese che hanno utilizzato collaboratori coordinati e continuativi o collaboratori ‘a progetto’, ma nei soli settori privati (ovvero: nei soli settori dove la legge Biagi ha avuto applicazione! – n.d.r.) … In sostanza, sembra che l’avvio della riforma abbia essenzialmente scoraggiato l’estensione ad altre imprese dell’utilizzo di lavoro interinale, e soprattutto di collaborazioni coordinate e continuative”.
Il ministro Damiano ha letto questo libro quando ne ha scritto la prefazione? E se ne condivide il contenuto, perché insiste a cercare le cause del lavoro precario nella legislazione del lavoro del periodo 2001-2006, quando tutto sembra confermare che le sue radici affondino semmai nella legislazione del trentennio precedente?

2. La polemica sui sindacalisti che difendono i nullafacenti
UN CODICE ETICO PER IL SINDACATO
(pubblicato il 24 giugno 2007)
I vertici delle confederazioni sindacali maggiori si sono molto indignati per la battuta del presidente degli industriali Luca Cordero di Montezemolo sul rischio che il sindacato si riduca a “difensore dei fannulloni”. Qualche ragione ce l’hanno: al di là della polemica sui fannulloni, non si può imputare a colpa del sindacato il fatto che esso difenda i lavoratori più deboli, i meno produttivi, poiché questo rientra nella sua funzione essenziale e ineliminabile. I dirigenti sindacali farebbero bene, però, a cogliere in quella battuta la denuncia di un rischio grave, prima ancora che per l’intera collettività, per il sindacato stesso: il rischio, cioè, che esso si riduca a difendere solo i lavoratori meno produttivi, lasciando gli altri di fatto privi di rappresentanza.
È questo un rischio che il sindacato in Italia sta correndo in modo sempre più grave ed evidente. Nel settore pubblico, innanzitutto, dove la disponibilità a una politica di differenziazione dei trattamenti in funzione dell’efficienza delle strutture amministrative e del merito individuale, manifestata genericamente da Cgil, Cisl e Uil nel Memorandum firmato col governo nel gennaio scorso, è vistosamente contraddetta dal loro comportamento effettivo non appena si tratta di passare alle misure concrete. È sotto gli occhi di tutti il violentissimo fuoco di sbarramento che le tre confederazioni hanno aperto contro la proposta del ministro Nicolais di affidare a una commissione centrale indipendente il compito di attivare e garantire gli strumenti di valutazione, controllo e trasparenza in ciascun comparto dell’impiego pubblico.
Ma quello di privilegiare troppo i meno produttivi è un rischio che – sia pure in misura minore – il sindacato corre anche nel settore privato. Quando dal lavoro manuale si passa al lavoro impiegatizio, è tipico e in qualche misura inevitabile che siano più propensi a impegnarsi nella militanza sindacale i lavoratori meno assorbiti dal proprio lavoro, quelli che da esso traggono minori soddisfazioni; e quindi anche il fatto che le iscrizioni si addensino nella parte professionalmente più debole degli appartenenti a ciascuna categoria. Questo fenomeno, però, sconfina nella patologia quando accade addirittura – e questo si verifica con una frequenza davvero eccessiva, al punto da essere considerato normale da chi si occupa professionalmente di gestione delle risorse umane ‑ che il sindacato entri per la prima volta in un’azienda per iniziativa di un lavoratore che ha commesso una grave mancanza e che si fa nominare rappresentante sindacale per ottenere una protezione impropria contro il probabile licenziamento; o comunque che il sindacato offra con grande facilità i galloni di r.s.a. al lavoratore cui è stata appena notificata (o sta per esserlo) la contestazione disciplinare; oppure a un lavoratore che usa permessi e aspettative sindacali per i propri comodi personali. Quando la rappresentanza in azienda si costituisce su queste basi, è il DNA del sindacato a subire una degenerazione; e la sua missione effettiva viene percepita dalla generalità dei lavoratori non come quella di proteggere i più deboli, ma come quella di abbassare il livello minimo dovuto di correttezza e di impegno produttivo. Qui c’è un evidente conflitto di interessi; e il sindacato dovrebbe – per il proprio buon nome, prima di tutto ‑ darsi un codice etico che individui esplicitamente quel possibile conflitto e impedisca il diffondersi del fenomeno.
Più in generale, il sindacato deve curare ‑ con attenzione molto maggiore di quanto non faccia oggi ‑ che il proprio naturale e doveroso impegno nella difesa della parte più debole dei lavoratori si coniughi con il riconoscimento e la difesa anche dell’interesse della parte più forte professionalmente e più produttiva. Altrimenti, prima o poi quest’ultima si ribella. È già accaduto nel 1980 con la “marcia dei 40.000”. Gli errori del sindacato che hanno generato allora quella rivolta non sono molto diversi da quelli cui assistiamo oggi; soprattutto nel settore pubblico, dove il sindacato è più forte e quindi più capace di imporre la propria legge.

3. Partito Democratico e politiche del lavoro prive di respiro
I VICOLI CIECHI DELLA SINISTRA
(pubblicato l’11 luglio 2007)
Uno dei motivi per cui nasce il Partito Democratico – non il principale, ma neppure uno dei meno importanti – è la necessità per i liberal-democratici di uscire dai vicoli ciechi in cui la sinistra italiana si è cacciata nell’ultimo decennio in materia di politica del lavoro, pregiudicando la propria capacità progettuale, impedendosi di partecipare da protagonista al dibattito europeo su questi temi. La sinistra ci si è cacciata ogni volta che, per paura della discussione su qualcuno dei suoi vecchi punti fermi, ha scelto di difenderlo con uno slogan tassativo, quasi un precetto catechistico, che mirava a troncare la discussione sul nascere, ma anche a bruciarsi i ponti alle spalle, a precludersi qualsiasi futuro ripensamento.
Per esempio: quando, intorno al 2000, si è incominciato – anche in seno al centro-sinistra, con un progetto di legge di Tiziano Treu ‑ a discutere della possibilità e opportunità di riformare la protezione contro i licenziamenti individuali, i d.s. e la Cgil, seguiti ovviamente dalla sinistra radicale, hanno proclamato l’articolo 18 dello Statuto sacro e intangibile, in quanto “baluardo a difesa della libertà e della dignità della persona nel luogo di lavoro”; e su questo slogan hanno organizzato manifestazioni oceaniche. Quello slogan è falso, poiché nessuno può seriamente sostenere che centinaia di milioni di europei lavorino in condizioni poco dignitose e di sostanziale servaggio, perché privi dell’articolo 18; ma evocare la dignità e la libertà della persona umana era una mossa comoda ed efficace per chiudere la discussione prima ancora che si aprisse.
Il nodo è poi venuto puntualmente al pettine nel 2002, quando la sinistra radicale, prendendo in parola d.s. e Cgil, ha promosso il referendum per estendere il campo di applicazione dell’articolo 18 alle imprese con meno di 16 dipendenti. Logico: se è in gioco la libertà e la dignità delle persone, tutti devono goderne. Ma le cose non stanno così e l’estensione dell’inamovibilità di fatto del lavoratore anche alle imprese minori sarebbe una follia; per questo, l’anno dopo d.s. e Cgil, sono stati costretti a fare poco dignitosamente il pesce in barile, adoperandosi sostanzialmente perché il referendum fallisse. Intanto, però, sul piano della possibile riforma, il discorso era bloccato: col chiudere la questione in un cassetto gettando la chiave, d.s. e Cgil si erano preclusi di affrontarla seriamente per un lungo tempo a venire. Ora il Libro verde sulla politica del lavoro dell’Unione Europea ci invita esplicitamente a ripensare la disciplina dei licenziamenti per motivi economici; ma il centro-sinistra italiano si è posto in condizione di non poter partecipare utilmente a questa discussione: l’argomento è off limits. Saprà il P.D., con misura e intelligenza, liberarsi da questo blocco mentale?
Qualche cosa di analogo accade sulla delicata questione della possibilità di differenziare gli standard minimi di trattamento per i lavoratori nelle regioni più povere e con disoccupazione più alta: qui la chiusura preventiva della discussione senza appello è affidata allo slogan “no alle gabbie salariali”. In realtà, lasciare uno spazio alla contrattazione collettiva decentrata per differenziare il livello e la struttura delle retribuzioni, tenendo conto delle condizioni peculiari di ciascuna regione, è proprio il contrario dell’imporre una “gabbia”: la vera “gabbia”, semmai, è lo sbarramento che impedisce di farlo. Ma l’artificio dialettico è efficacissimo: chi mai potrebbe essere favorevole a qualche cosa che si chiama “gabbia salariale”? Così quello slogan consente, anche qui, di calare una pietra tombale sulla questione del possibile decentramento della contrattazione degli standard minimi, nonostante che proprio questa sia la tendenza ormai nettamente prevalente nell’Occidente industrializzato. Al P.D. non si chiede di essere pregiudizialmente favorevole o contrario a quella differenziazione di standard, ma solo di saper aprire su di essa una discussione pragmatica.
È ancora lo stesso errore quello che la sinistra ha commesso quando, senza alcun intelligente discernimento, ha precipitosamente demonizzato la legge Biagi, oppure lo “scalone pensionistico” (altro slogan efficacissimo) destinato a entrare in vigore nel 2008, solo perché varati dall’odiato governo di centro-destra; e ha ripetuto l’errore quando, ancora per questo solo motivo, di quelle norme ha avventatamente sancito la necessità dell’abrogazione ponendola addirittura tra i punti essenziali del proprio programma elettorale. Salvo poi scoprire che la legge Biagi è uno strumento utile contro l’abuso dei contratti di lavoro precari e quindi servirsene per questo scopo, come ha fatto il ministro del Lavoro Damiano nei call centre; oppure dover riconoscere – come hanno fatto onestamente ma ahimè intempestivamente Massimo D’Alema e Piero Fassino nei giorni scorsi ‑ che la regola della pensione a 60 anni, sia pure introdotta con lo “scalone” di Maroni, non è affatto iniqua e rende disponibili risorse utili per affrontare questioni sociali ben altrimenti urgenti (del resto, non era uno “scalone” ben più erto quello introdotto dalla riforma Dini del 1995, col voto del centro-sinistra?).
Il Partito Democratico nasce anche per lasciarsi alle spalle questo modo fazioso e poco intelligente di affrontare le questioni, per consentire al centro-sinistra di tirarsi fuori dai vicoli ciechi in cui si è cacciato in questi anni e di elaborare una politica del lavoro più pragmatica, più aperta al dubbio e alla sperimentazione. Ma su questo punto il nuovo partito deve avere il coraggio di dare fin d’ora un segnale inequivoco e forte.

4. Lavoro: quanto costa la mancanza dei dati
MENO BANDIERE PIÙ PRAGMATISMO
(pubblicato il 24 luglio 2007)
I Paesi del Nord-Europa e del Nord-America dispongono di una quantità impressionante di dati sulle vicende dei lavoratori nel mercato e nel tessuto produttivo: li raccolgono in modo sistematico e li usano per affinare la comprensione di ciò che realmente accade. In Italia, su questo terreno siamo enormemente indietro rispetto a quei Paesi. Per esempio: mancano i dati individuali sulle retribuzioni, sulla loro struttura ed evoluzione, sulle loro differenze di potere di acquisto da zona a zona; mancano i dati analitici su campioni rappresentativi di persone, che nei Paesi più evoluti consentono di studiare con precisione le loro storie di formazione e di lavoro o non lavoro.
L’arretratezza del nostro sistema di rilevazione dei dati sul funzionamento del mercato del lavoro – troppo sovente difesa con l’argomento della tutela della privacy, che qui non c’entra proprio per nulla ‑ si sposa benissimo con il carattere fortemente ideologico dei nostri dibattiti politici in questo campo. Discutiamo sventolando bandiere (per esempio: l’articolo 18, ora la legge Biagi) o cercando di abbatterle, ma ci curiamo pochissimo di sapere quali sono gli effetti reali di questo o quel provvedimento di cui discutiamo. Il nostro Paese ha, invece, estremo bisogno di una politica fortemente ispirata al pragmatismo; di una politica, dunque, che sappia avvalersi di tutto quanto possono offrirle la statistica, l’economia, la sociologia del lavoro e delle relazioni industriali. Queste scienze non forniscono quasi mai prescrizioni univoche circa la scelta migliore da compiere ‑ che resta compito proprio della politica –, ma, quando dispongono dei dati, sanno indicare, in riferimento a una determinata scelta, chi ci guadagna e chi ci perde, come e quanto. Esse inoltre presentano l’incalcolabile ricchezza di mettere in comunicazione studiosi di tutto il mondo, di valutare comparativamente esperienze compiute in Paesi diversi; e sono, proprio per questo, il solo mezzo che possa consentire alla nostra politica del lavoro di uscire dal provincialismo che ha caratterizzato fin qui i suoi dibattiti.
Il primo passo da compiere è potenziare decisamente e affinare le attività di raccolta dei dati, per metterci al passo con la parte più evoluta del mondo; e ascoltare di più chi li sa leggere ed elaborare. Ma la svolta – se ne trova un interessante preannuncio nel discorso torinese di Walter Veltroni ‑ dovrebbe consistere anche in questo: smettere di concepire gli interventi legislativi come momenti di palingenesi, di riforma epocale, e incominciare a concepirli come momenti di sperimentazione, ispirata a quanto di meglio offre il panorama internazionale, magari inizialmente limitata a determinate zone o aziende per consentire il confronto con quanto accade in quelle “non trattate”. Per esempio: la legge nazionale o un accordo interconfederale delinea e incentiva la sperimentazione di una riforma in materia di ripartizione tra retribuzione fissa e variabile, oppure di autocertificazione per le malattie di brevissima durata con riduzione della retribuzione per i giorni di assenza e redistribuzione del risparmio conseguito su tutti gli stipendi; e si lascia che siano le leggi o i contratti regionali, oppure anche i contratti aziendali, a decidere se adottare o no l’innovazione possibile.
È il metodo del try and go: se i risultati sono buoni, si estende la riforma; altrimenti si muove in altre direzioni. In campo medico questo metodo è rigorosamente obbligatorio: nessuna terapia può essere praticata su scala nazionale prima di essere stata testata sperimentalmente. Dobbiamo incominciare a ragionare e operare così anche per curare le disfunzioni del mercato del lavoro, per cercare senza pregiudizi – né di destra né di sinistra ‑ le soluzioni migliori.

5. Un imprenditore per l’Alitalia
SE IL SINDACATO NON SA SCEGLIERE
(pubblicato il 31 luglio 2007)
C’è un modo poco consueto ma molto istruttivo in cui può essere considerata la vicenda dell’asta pubblica per la privatizzazione di Alitalia, fallita nei giorni scorsi: possiamo considerarla come una procedura di selezione dell’imprenditore da “ingaggiare”, gestita dai dipendenti dell’azienda stessa per il tramite delle organizzazioni sindacali e del governo (quest’ultimo persegue, ovviamente, anche altri interessi; ma quelli dei dipendenti sono sempre in primo piano). In un mercato del lavoro maturo, infatti, non sono solo gli imprenditori a scegliersi i dipendenti, ma sono anche i lavoratori a scegliersi l’imprenditore; e talvolta – come nel caso di Alitalia ‑ essi hanno l’opportunità di farlo non solo come singoli, scegliendo di andare a lavorare in questa o quell’azienda, ma anche collettivamente, attraverso i propri rappresentanti politici e/o sindacali. Quando di ciò si tratta, i lavoratori devono saper esercitare un’intelligenza collettiva, che stavolta finora è mancata loro pressoché totalmente.
L’aspetto positivo della globalizzazione per i lavoratori, in un caso come questo, consiste nella possibilità di allargare enormemente il novero dei possibili candidati alla gestione dell’azienda, in modo da poter scegliere l’imprenditore che offre di più sotto il profilo della qualità del piano industriale, dell’affidabilità, della solidità finanziaria. Già sotto questo punto di vista appare evidente un primo gravissimo errore commesso dai rappresentanti dei lavoratori nella vicenda Alitalia: quello di privilegiare l’“italianità” del nuovo imprenditore (“L’Italia non è in vendita”, titolava in prima pagina il settimanale della Cgil Rassegna sindacale del 5 aprile scorso, in riferimento non soltanto alla vicenda Alitalia, ma anche a quella in qualche modo analoga della Telecom; e il ministro dei Trasporti gli faceva eco il 6 maggio successivo: “Abbiamo lavorato per l’italianità di Alitalia”). Privilegiare l’“italianità” significa rinunciare preventivamente ‑ oltre che ai miliardi degli investitori stranieri – anche a scegliere l’imprenditore migliore disponibile su scala mondiale, restringendo drasticamente la scelta entro gli angusti confini di un Paese che è solo l’uno per cento del mondo.
Per trarre vantaggio dalla globalizzazione occorre pure che i lavoratori abbiano la capacità di negoziare il nuovo assetto dell’impresa anche secondo modelli radicalmente nuovi, praticati con successo in altre parti del mondo. Per questo bisogna saper prendere in considerazione e valutare, senza chiusure preventive, tutta l’innovazione possibile in materia di organizzazione del lavoro, struttura della retribuzione, relazioni industriali. Nella vicenda Alitalia, al contrario, i soli segnali che finora i sindacati hanno saputo lanciare con il loro comportamento effettivo a qualsiasi nuovo possibile imprenditore, sono stati nel senso della loro indisponibilità a cambiare anche solo una virgola del vecchio assetto dei rapporti di lavoro e sindacali: non può spiegarsi altrimenti il fatto che nei mesi scorsi, proprio nella fase più delicata dell’asta, in Alitalia – un’azienda che sta perdendo due milioni di euro al giorno ‑ il ritmo delle agitazioni, già normalmente elevatissimo, sia stato addirittura intensificato per rivendicazioni salariali; e che a maggio si sia giunti alla proclamazione di un’“agitazione permanente” con cancellazione quotidiana di decine di voli, incredibilmente motivata con dissensi di interpretazione su un accordo aziendale relativo alla composizione degli equipaggi (agitazione proprio ieri censurata dalla Commissione di Garanzia). Non sorprende che, questi essendo i “paletti” preventivamente posti dal sindacato, in aggiunta alle condizioni poste dal governo, la selezione del nuovo imprenditore per Alitalia si sia conclusa con un nulla di fatto.
La questione non riguarda soltanto Alitalia. Nel nostro Paese ci sono tanti altri lavoratori che avrebbero interesse a “ingaggiare” un nuovo imprenditore scegliendo il meglio su scala mondiale, ma non dispongono ancora dell’intelligenza collettiva indispensabile per poterlo fare con successo.
Il discorso è di interesse vitale per le regioni del Mezzogiorno: anche qui, dove pure ci sarebbe tanto bisogno di “importare buona imprenditoria” quale che ne sia la provenienza straniera, il sindacato sa solo porre dei paletti preventivi (entità e struttura della retribuzione, organizzazione del lavoro: tutto rigidamente prestabilito al livello nazionale); non sa – come non sanno i governi pubblici locali – cercare per il mondo il buon imprenditore disponibile, valutarne la capacità e il piano industriale senza chiusure preventive, se del caso scommettere su quel piano anche a costo di sperimentare strutture nuove della retribuzione e dell’organizzazione del lavoro, aprirsi a modelli diversi di relazioni industriali. Come nel caso Alitalia, anche qui il sindacato, invece di essere l’intelligenza collettiva dei lavoratori – come pure ha saputo e sa essere in altre situazioni ‑ finisce col costituire una delle tante loro palle al piede.

6. La polemica contro la “casta sindacale”
LE REGOLE MANCANTI
(pubblicato il 9 agosto 2007)
L’ultimo numero dell’Espresso sferra un duro attacco contro i sindacati: “L’altra casta” è il titolo di copertina, sotto le immagini dei tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil. Imputazione principale: una ricchezza eccessiva, che verrebbe scorrettamente alimentata con il denaro pubblico. Ma la requisitoria su questo punto non è molto convincente.
L’Espresso imputa alle confederazioni maggiori di avere beneficiato, negli anni ’70, della distribuzione del cospicuo patrimonio immobiliare del disciolto sindacato nazionale fascista; ma non dice a chi mai avrebbe dovuto essere assegnato quel patrimonio, se non agli eredi delle libere associazioni sindacali che nei primi anni ’20 avevano visto le proprie sedi messe a ferro e a fuoco dagli squadristi in camicia nera ed erano state poi espropriate e soppresse dal regime. Quanto ai contributi pubblici per i servizi resi dai sindacati ai lavoratori, mediante i patronati per le pratiche previdenziali e i Caaf per le dichiarazioni dei redditi, una critica attendibile dovrebbe basarsi su di una valutazione rigorosa del costo e del valore di quei servizi, di cui beneficiano quotidianamente – con un buon grado medio di soddisfazione ‑ milioni di lavoratori (tutt’altro è il discorso sui contributi pubblici per i servizi di formazione professionale, dove gli sprechi sono enormi, ma la responsabilità prioritaria è delle Regioni e il ruolo gestionale dei sindacati è per lo più marginale).
Una “questione sindacale” in Italia oggi esiste eccome; ma essa ha ben poco a che vedere con quella del “costo della politica”, sollevata da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo con la loro denuncia contro “la casta”. La vera questione sindacale è quella di un sistema di relazioni industriali opaco e vischioso, consolidatosi nell’arco di sessant’anni in contrasto con una norma della Costituzione, l’articolo 39, senza che questo sia mai stato né abrogato né riscritto. Un sistema che favorisce il frazionamento della rappresentanza sindacale, garantendo gli stessi diritti di proclamazione dello sciopero, di assemblea e di permessi retribuiti anche a sindacati cui aderisce meno dell’un per cento dei lavoratori; ma non garantisce affatto un vero pluralismo sindacale: l’assenza di regole sulla rappresentanza e il depotenziamento del patto di tregua ‑ per cui qualsiasi lavoratore può aderire a uno sciopero proclamato anche il giorno dopo la stipulazione del contratto ‑ penalizzano chiunque si proponga di contrapporre un modello di relazioni cooperative a quello tradizionale di relazioni conflittuali, privilegiando di fatto chi è capace di strillare più forte.
Gli apparati sindacali centrali vogliono – e questo non sorprende – un sistema fortemente centralizzato, nel quale dunque quasi tutto si decide a un tavolo romano; ma non è chiaro chi abbia titolo per sedere a quel tavolo e in rappresentanza di chi. Ciò comporta alcune anomalie evidenti in sede di concertazione tra governo e sindacati, denunciate lucidamente da Bernardo Mattarella in un altro articolo sull’Espresso, questo sì centrato su di una questione cruciale. Ciò comporta pure che rappresentanze espresse quasi esclusivamente dai lavoratori regolari e dagli imprenditori del centro-nord possano negoziare contratti destinati ad applicarsi inderogabilmente su tutto il territorio nazionale, anche se incompatibili con lo sviluppo delle regioni del sud. Ma sulle sabbie mobili di un diritto sindacale così incompiuto è ben difficile costruire soluzioni alternative.
Sarebbe auspicabile che il sistema di relazioni sindacali fosse capace di darsi da sé le regole che oggi mancano. Ma se esso non ne è capace, deve essere il legislatore a farlo. Questo accade in tutti i Paesi civili; non si vede perché non debba accadere anche nel nostro.

7. Lavoro, sviluppo tecnologico e globalizzazione
COME SI COMBATTONO LE DISEGUAGLIANZE
(pubblicato il 20 agosto 2007)
È ben comprensibile che il dibattito in seno alla maggioranza si concentri sulla questione del lavoro precario o maltrattato: qui più che altrove è in gioco il valore dell’uguaglianza, valore fondante di una sinistra degna di questo nome. Questa però deve curare attentamente la bontà della diagnosi, se vuole che la terapia per cui si batte sia credibile e, soprattutto, efficace.
L’aumento del lavoro precario non è causato né dalla legge Biagi, né dalla legge Treu del 1997. Lo dimostra, innanzitutto, il fatto che esso è in atto in Italia da almeno un quarto di secolo (e negli ultimi sei anni esso ha subito semmai un netto rallentamento). Lo conferma, poi, il fatto che lo stesso aumento si sta verificando da tempo in tutti i Paesi occidentali, Australia compresa, indipendentemente dalle tendenze delle rispettive legislazioni in materia di lavoro. E il tasso italiano di lavoro precario (contratti a termine, co.co.co e lavori a progetto) rispetto al totale – circa un lavoratore ogni sette ‑ è rimasto al di sotto, sia pur di poco, della media europea.
Tutto questo non significa affatto che non ci sia qui un grave problema da affrontare. Ma occorre individuarlo bene, per non rischiare di sbagliare clamorosamente il bersaglio. Il problema consiste in un sensibile e costante aumento delle disuguaglianze di produttività tra i lavoratori, che si traduce in crescenti disuguaglianze di trattamento fra di essi. Per avere un’idea di quanto si sta verificando, si consideri ciò che accadeva negli anni ’50 o ’60, quando due terzi della forza-lavoro era costituita da operai, per lo più impegnati in mansioni ripetitive e parcellizzate di diretta modificazione della materia: nel contesto di quell’organizzazione del lavoro, fatto 100 il rendimento normale, l’operaio più produttivo poteva arrivare a un rendimento 130 o 140, mentre quello del più debole non scendeva quasi mai sotto quota 80. Era molto raro che fra il rendimento del primo e quello del secondo ci fosse un rapporto superiore a 2. Oggi la diretta modificazione della materia è affidata quasi dappertutto alle macchine; la grande maggioranza dei lavoratori opera su flussi di informazioni o sulle macchine stesse; e l’applicazione delle nuove tecnologie fa sì che la possibile differenza di produttività fra due lavoratori, anche di basso livello, possa essere di 10 o persino 100 a 1!
Ad aggravare il problema si aggiunge, per un verso, il ritmo sempre più incalzante di sostituzione delle tecnologie applicate: per ogni cambiamento ci sono i lavoratori che sanno adattarsi, sanno “saltare sull’autobus” dell’innovazione, e quelli che non ci riescono, restano indietro. Vi contribuisce, per altro verso, la globalizzazione dei mercati, che espone soprattutto i lavoratori professionalmente più deboli dei Paesi occidentali alla concorrenza di quelli dell’Asia o dell’Europa orientale. Il ritmo dell’evoluzione tecnologica e la globalizzazione penalizzano la parte più debole dei nostri lavoratori, aggravandone il distacco dagli altri nella capacità di trovare lavoro e, quando riescono a trovarlo, nel trattamento che ottengono, compreso il grado di stabilità.
Qualsiasi forza politica che abbia a cuore il valore fondamentale dell’uguaglianza tra i cittadini, e in particolare tra i lavoratori, deve porre questo problema al centro della propria iniziativa. Ma l’uguaglianza di cui stiamo parlando non è di quelle che si possono “garantire” con un tratto di penna del legislatore: essa va costruita nel vivo della società civile, compensando vigorosamente il deficit di cui soffrono i lavoratori più deboli con l’offerta di un sovrappiù di servizi efficaci di formazione, informazione e assistenza alla mobilità.
D’altra parte, ritornare alla legislazione del lavoro degli anni ’70, quando la sola alternativa era tra il lavoro stabile a tempo pieno e la disoccupazione, non gioverebbe per nulla ai lavoratori più deboli. Anche perché la produttività individuale dipende molto dal contesto in cui il singolo si inserisce; e una certa mobilità nella fase iniziale della carriera lavorativa può giovare moltissimo nella ricerca del posto in cui il proprio lavoro sia meglio valorizzato. Tanto questo è vero, che nella seconda metà degli anni ’70 furono proprio la Cgil dei Lama e dei Trentin, la Cisl dei Carniti e dei Crea, appoggiate da tutta la sinistra politica, a chiedere e ottenere l’introduzione dei contratti di formazione e lavoro ‑ cioè una forma di lavoro precario, un lungo periodo di prova ‑ come strumento utile per favorire l’accesso al lavoro dei giovani.
Sta di fatto, comunque, che proporsi di affrontare il problema dell’aumento della disuguaglianza tra i lavoratori con l’abrogazione delle leggi Treu e Biagi significherebbe sbagliare clamorosamente il bersaglio: la questione dell’aumento della disuguaglianza tra i lavoratori resterebbe totalmente irrisolta. E, sulla distanza, proprio i militanti più accesi di questa battaglia si rivolterebbero contro chi li ha guidati nel vicolo cieco.

8. L’importanza di un vero pluralismo sindacale
IL SINDACATO E IL SALARIO
(pubblicato il 28 agosto 2007)
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n un’intervista al Corriere del 14 agosto scorso Raffaele Bonanni ha posto con vigore la questione salariale; le retribuzioni italiane – dice il segretario generale della Cisl – sono inferiori a quelle dei maggiori Paesi europei: vanno dunque aumentate. Già, ma come? In un’economia aperta e concorrenziale, quale vuol essere la nostra, lo spazio per la contesa marxiana tra salari e profitti c’è pur sempre, ma è assai limitato.
Una prima indicazione Bonanni la dà: aumentare la produttività del lavoro. Una leva utilizzabile sono gli incentivi: si può aumentare la parte della retribuzione che varia in relazione ai risultati individuali, di gruppo, aziendali. Questa scelta può effettivamente consentire un aumento medio rilevante dei redditi dei lavoratori, non solo perché stimola l’impegno individuale e collettivo, ma anche perché riduce il contenuto assicurativo del contratto, quindi anche il “premio assicurativo” pagato dal lavoratore, in Italia più alto che altrove. Un contratto di lavoro dipendente funziona sempre, in qualche misura, come una polizza assicurativa, ponendo a carico dell’azienda il rischio che le cose vadano male; più è alta la “copertura”, più è bassa la retribuzione, perché i lavoratori pagano all’impresa un “premio” implicito proporzionale alla copertura. L’entità non trascurabile del “premio assicurativo” pagato dai lavoratori italiani è stimata in uno studio recente della Banca d’Italia, curato da Piero Cipollone e Anita Guelfi.
Il problema è che mutare la struttura della retribuzione implica un modello di sindacato diverso da quello predominante da decenni in Italia. Il nostro modello tradizionale è quello di un sindacato che privilegia la sicurezza e l’uniformità del trattamento dei lavoratori sul piano nazionale, riducendo al minimo la parte della retribuzione suscettibile di variare in relazione al risultato: un sindacato interessato essenzialmente a garantire ai lavoratori dei “diritti”, cioè dei trattamenti sui quali la performance individuale e collettiva non ha alcuna influenza. Il modello opposto è quello del sindacato che attribuisce maggiore spazio alla remunerazione dell’impegno individuale e alla “scommessa comune” tra lavoratori e imprenditore sull’innovazione: disposto quindi ad ampliare notevolmente la parte della retribuzione che varia in relazione ai risultati, sulla base di una valutazione positiva circa la qualità del management e del piano industriale, per dare ai propri rappresentati maggiori prospettive di guadagno.
In altre parole, il primo è il sindacato che preferisce un contratto-polizza assicurativa ad alta copertura, dove la maggior sicurezza è pagata dai lavoratori con un minor livello di reddito; il secondo è il sindacato che si propone di guidare i lavoratori in una scommessa redditizia sulle capacità proprie e del management, anche al costo di una minor sicurezza e uniformità di trattamenti.
Quale dei due modelli dia risultati complessivamente migliori per i lavoratori non si può dire in astratto. Ma i lavoratori avrebbero un forte interesse a poter confrontare i risultati conseguiti, in aziende diverse, con sistemi di relazioni sindacali, quindi di retribuzione, ispirati all’uno o all’altro modello; e a poter scegliere liberamente come proprio agente contrattuale, secondo le circostanze, il sindacato dell’un tipo o dell’altro. Invece proprio questa scelta oggi è impedita, in Italia, da un sistema incapace di selezionare l’agente contrattuale: un sistema nel quale, dunque, se i sindacati maggiori non sono tutti d’accordo, e non stipulano unitariamente il contratto, scelte incisive come quella di sperimentare una nuova struttura della retribuzione non si possono compiere.

9. La trattativa di autunno sulle relazioni sindacali
MA SU CHE COSA STANNO LITIGANDO?
(pubblicato il 3 settembre 2007)
Settembre, andiamo, è tempo di trattare. A più di tre anni dal clamoroso rifiuto opposto da Guglielmo Epifani alla Confindustria nel luglio 2004, ora dovrebbe finalmente aprirsi il negoziato sulla riforma della struttura della contrattazione collettiva. Il ritardo e la riluttanza con cui le parti tornano a discuterne potrebbero far pensare a divergenze difficilmente superabili; ma, sorprendentemente, nelle proposte dei protagonisti queste divergenze non compaiono affatto.
La Cgil, come è noto, si batte per difendere la funzione e il peso del contratto collettivo nazionale, destinato a rimanere assolutamente inderogabile. Per questo aspetto non si discosta sostanzialmente dalla posizione della Cgil la proposta presentata nel settembre 2005 dalla Confindustria: anch’essa ribadisce con vigore la centralità e assoluta inderogabilità del contratto collettivo nazionale, riservando alla contrattazione aziendale la determinazione dei premi di produttività o redditività, purché sempre in aggiunta a quanto stabilito dal contratto nazionale. Neppure Cisl, Uil e Ugl, del resto, sembrano proporre qualche cosa di incisivamente diverso, salvo auspicare genericamente un “rilancio” della contrattazione aziendale.
Ma allora perché tanto pathos intorno a questo scontro apparentemente privo di oggetto?
La realtà è che il nostro sistema delle relazioni industriali da anni funziona molto male in diversi tra i settori più importanti; e chi ci è dentro lo sa benissimo. Molti dei contratti nazionali vengono rinnovati sistematicamente in grave o gravissimo ritardo. L’assetto disegnato dal protocollo del luglio 1993 – che pure ha avuto grandi meriti nell’aiutare il Paese a superare la crisi dei primi anni ’90 – è ormai di fatto largamente disapplicato. La sola proposta che negli ultimi mesi è parsa farsi strada tra le parti contrapposte è quella di un aumento da due a tre anni della durata dei contratti nazionali: come prima del 1993; ma sarebbe, appunto, soltanto un ritorno al passato; comunque un pannicello caldo, forse addirittura controproducente.
Nell’epoca dell’euro e della globalizzazione, la difficoltà con cui i contratti vengono rinnovati dipende essenzialmente dal fatto che essi pretendono di regolare, su scala nazionale, troppe cose in modo troppo rigido. Certo, di un contratto nazionale ci sarà ancora bisogno per tutte le imprese che non vogliono o non possono attivare la contrattazione decentrata; ma la riforma necessaria consiste nel permettere la negoziazione decentrata anche di regole diverse, dovunque a stipulare sia una coalizione sindacale che rappresenti la maggioranza dei lavoratori interessati. È indispensabile per consentire la sperimentazione di forme nuove di organizzazione del lavoro e della retribuzione; ed è proprio di questo che abbiamo bisogno.
L’hanno capito i sindacati e gli imprenditori del settore chimico, come si è visto a maggio nell’ultimo rinnovo del loro contratto nazionale (ecco un punto di riferimento interessante per la trattativa interconfederale del prossimo autunno!). Ed è questo uno dei dieci punti programmatici indicati da Walter Veltroni per il Partito Democratico: una riforma indispensabile perché possa prendere piede ‑ e confrontarsi con il nostro modello di sindacalismo tradizionale ‑ un sindacalismo nuovo, interessato ad aumentare le retribuzioni collegandone una porzione maggiore ai risultati individuali e collettivi, a scommettere sull’innovazione tecnica e organizzativa, a sperimentare liberamente quanto di meglio si offre nel panorama mondiale sul piano delle relazioni industriali. Ma a questo libero confronto tra modelli la nostra Confindustria è interessata?

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