I CONTRIBUENTI MENO AGIATI ACCEDONO DI MENO ALL’UNIVERSITÀ, MA CONTRIBUISCONO IN PROPORZIONE IN MISURA MOLTO SUPERIORE AL SUO FINANZIAMENTO RISPETTO AI PIÙ AGIATI – CHIUNQUE VINCA LE ELEZIONI DOVRÀ RIPENSARE IL FINANZIAMENTO UNIVERSITARIO PER ELIMINARE QUESTA EVIDENTE INGIUSTIZIA
Articolo di Andrea Ichino e Daniele Terlizzese pubblicato sul Corriere della Sera del 10 dicembre 2012 – Seguono la replica di Alessandro Figà Talamanca, professore di matematica alla “Sapienza” di Roma, e la controreplica di Andrea Ichino
La campagna elettorale è di fatto aperta. La nostra speranza è che l’università sia al centro del dibattito, per le sue implicazioni riguardanti la crescita e l’equità sociale. Il confronto non dovrebbe però essere contaminato da controversie su questioni non controvertibili, perché riguardanti dati di fatto. Una di queste è se sia vero o no che in Italia i poveri pagano l’università ai ricchi. Nei giorni scorsi, Francesco Giavazzi l’ha affermato; Marco Meloni (responsabile Pd per l’università) l’ha messo in dubbio (vedi www.lavoce.it).
Che cosa dicono i dati? Che il finanziamento universitario opera ogni anno un trasferimento ingente, circa 2,5 mld di euro, dalle famiglie con reddito inferiore ai 40.000 euro lordi annui a quelle con reddito superiore. Non si può discutere di diritto allo studio e di finanziamento dell’università se prima non si riconosce questa macroscopica e odiosa ingiustizia.
Le famiglie con un reddito fino a 40.000 euro sono il 93% del totale dei contribuenti e pagano solo il 54% del gettito Irpef, dato che questa è una tassa progressiva (Dipartimento delle finanze). Quindi queste famiglie finanziano attraverso l’Irpef il 54% di quanto lo Stato dà all’università, con un contributo di 4,9 mld di euro. Tuttavia da esse proviene solo un quarto degli studenti universitari italiani, mentre dal 7% di famiglie più ricche vengono i restanti tre quarti (Banca d’Italia). Le famiglie più povere ricevono perciò, sotto forma di istruzione, un quarto di quanto lo Stato spende per gli atenei: circa 2,2 miliardi. La differenza tra quanto pagano e quanto ricevono (2,7 mld) è un regalo alle famiglie più abbienti. È vero quindi che, in proporzione al loro reddito, i più ricchi pagano più Irpef, ma non in misura tale da compensare l’uso maggiore che essi fanno dell’università. Tenendo conto delle altre imposte, che sono sicuramente meno progressive dell’Irpef, l’entità del regalo aumenta.
Cambiano le conclusioni considerando le rette universitarie? No. La loro somma, per legge, non può superare il 20% dei bilanci degli atenei. Inoltre la loro struttura è marcatamente regressiva: da un rapporto di Federconsumatori si desume che, in proporzione al reddito, le rette incidono per il 15,6% sui redditi più bassi, ma solo per il 4,3% su quelli di 40.000 euro, fino a quasi annullarsi a livelli ancora più alti. I ricchi pagano di più, ma non molto; tenendo conto delle rette di iscrizione, il regalo che ricevono dai poveri resta comunque di 2,4 mld. E sarebbe di 2,2 mld anche se le tasse universitarie, rimanendo ai bassi livelli attuali, fossero interamente pagate dai più ricchi.
È un trasferimento inaccettabile, che si perpetua solo perché i più ignorano come stanno realmente le cose. Che possa essere maggiore in Paesi dove l’università è del tutto gratuita non lo rende meno odioso e paradossale,
Una volta che questi fatti siano riconosciuti da tutti, possiamo discutere di come venirne fuori. E qui le prospettive, legittimamente, possono essere diverse. Una, a cui forse aspira Meloni, potrebbe essere che tutti i giovani frequentino l’università, così come già frequentano la scuola dell’obbligo. In questo modo tutti ne fruirebbero in modo uguale ma i ricchi pagherebbero di più per via del prelievo fiscale progressivo, e il paradosso scomparirebbe.
Ma si tratta di una prospettiva realistica, o desiderabile? Certamente vanno rimossi tutti gli ostacoli che scoraggiano i ragazzi poveri e di talento dall’acquisire un’istruzione superiore. La qualificazione «di talento» non è però un inciso retorico, va presa sul serio. Il sistema universitario è la modalità con cui la società trasmette la frontiera più avanzata della conoscenza a chi è meglio in grado di riceverla ed estenderla. È un sistema intrinsecamente elitario, perché si fonda su un’ineliminabile disuguaglianza nelle capacità delle persone. È una disuguaglianza che non deve dipendere dalla ricchezza della famiglia d’origine, e bisogna fare ogni sforzo per rompere questo legame; ma così come non è possibile che tutti vadano alle Olimpiadi, è inevitabile che alcuni siano più di altri in grado di prendere il testimone della conoscenza. Ciò non è in contrasto con la nostra Costituzione (art. 34), dove stabilisce il diritto di «raggiungere i gradi più alti degli studi» per i «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi». Anche questa è una qualificazione importante e spesso trascurata: non per tutti, solo per i capaci e meritevoli.
La scuola è e deve essere per tutti: è lì che si devono davvero creare le pari opportunità. L’università è altra cosa. Chiunque vinca dovrà ripensare al suo finanziamento.
LA REPLICA DI ALESSANDRO FIGÀ TALAMANCA
Due economisti, Andrea Ichino e Daniele Terlizzese (Corriere 10 dicembre) ritengono che un futuro governo, nel disegnare la sua politica nei riguardi dell’università, debba partire da un interrogativo morale: “E’ giusto che i poveri paghino l’università per i ricchi?” Il confine tra poveri e ricchi sarebbe un reddito annuo lordo famigliare di 40.000 euro. Più concretamente, e senza la pretesa di difendere valori morali, mi sembra che la domanda che dovrebbe porsi un futuro governo sia piuttosto se è opportuno, per l’Italia, raggiungere una percentuale di giovani con istruzione universitaria almeno pari alla media dei paesi OCSE. In caso affermativo il problema sarebbe quello di modulare le tasse di iscrizione, e l’accesso alle borse di studio in modo da aumentare il numero degli iscritti in grado di completare gli studi, senza aumentare, ovviamente, la spesa pubblica. Ricordiamo che in Gran Bretagna la risposta all’interrogativo morale che il Governo Blair aveva posto negli stessi termini di Ichino e Terlizzese, ha causato invece una consistente diminuzione degli iscritti e quindi dei laureati. Può permetterselo l’Italia con il 20% di laureati tra i giovani dai 25 ai 34 anni, mentre la percentuale media dei paesi dell’OCSE è 28%?.
Alessandro Figà Talamanca
Ordinario di matematica all’Università “La Sapienza” di Roma
LA CONTROREPLICA DI ANDREA ICHINO
Non abbiamo dilemmi morali, diamo per scontato che non sia giusto. E comunque, i cittadini a cui spetta decidere devono sapere quel che oggi accade. Con una soglia inferiore ai 40.000 euro il paradosso sarebbe ancora più evidente. L’economist del 4 febbraio 2012 e studi dell’Institute for Fiscal Studies non segnalano diminuzioni degli iscritti alle universita’ in UK dopo la riforma; e anzi suggeriscono che essa abbia aumentato la mobilita’ sociale. In un libro che uscira’ tra breve con Rizzoli, facciamo le nostre proposte. Ma in ogni caso, perché intanto non far pagare la laurea a chi può certamente permetterselo?
Andrea Ichino
Ordinario di economia del lavoro nell’Università di Bologna
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