LA VECCHIA SINISTRA ITALIANA È COSTRETTA A SOSTENERE CHE IL LAVORO IN QUELLO STABILIMENTO È UN INFERNO; MA (SALVA LA QUESTIONE DELLA DISCRIMINAZIONE CONTRO GLI ISCRITTI ALLA FIOM, SORTA SOLO NELL’ULTIMO ANNO), TUTTI GLI INDICI DISPONIBILI DICONO IL CONTRARIO – È TEMPO CHE ENTRAMBE LE PARTI DEPONGANO LE ARMI
Recensione dell’ultimo libro di Ritanna Armeni Lo squalo e il dinosauro, che appare nel catalogo dell’Editrice Ediesse con il sottotitolo La Fiat spiegata a Pietro Ichino; sulla copertina questo sottotitolo è stato cambiato in un secondo tempo in La vita operaia nella Fiat di Marchionne (28 novembre 2012) – Seguono, in questo post, la replica dell’Autrice del libro, comparsa sul quotidiano Pubblico il 30 novembre, e una mia controreplica del giorno successivo – Su questo stesso tema sono stato intervistato da Barbara Palombelli nella sua trasmissione 28 minuti su Radio 2 Rai il 5 dicembre 2012
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Scarica la mia intervista a cura di Barbara Palombelli del 5 dicembre 2012
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RECENSIONE DEL LIBRO DI RITANNA ARMENI, LO SQUALO E IL DINOSAURO
Il premio assegnato allo stabilimento Fiat di Pomigliano come la migliore fabbrica di automobili in Europa dal punto di vista tecnologico ed ergonomico pone alla Fiom-Cgil un problema non facile: quello di giustificare il rifiuto opposto a questo insediamento industriale fin dall’inizio del 2010, quando ancora esso era soltanto allo stato di progetto. E quando ancora non si era posto alcun problema di discriminazione nei confronti dei rappresentanti aziendali della stessa Fiom-Cgil e dei suoi iscritti.
Cerca di risolvere questo problema Ritanna Armeni con il suo ultimo libro – Lo squalo e il dinosauro. La Fiat spiegata a Pietro Ichino, Ediesse – nel quale le condizioni di lavoro a Pomigliano sono descritte come peggio non si può. Non avrei motivo di replicare, se non fosse che metà del libro è dedicata a confutare drasticamente la descrizione che di quello stabilimento feci sul Corriere all’inizio di quest’anno (Pomigliano: quando la sinistra sbaglia il bersaglio, 24 gennaio 2012). Il quadro offerto ora in questo pamphlet è quello di una catena di montaggio alla Tempi Moderni di Charlot, con lavoratori in grave difficoltà per i ritmi, addirittura coperti di lividi per i continui urti con le scocche in movimento, costretti a non bere per ore stante l’impossibilità di recarsi alla toilette, vessati dai capi con continue contestazioni e provvedimenti disciplinari, che alla terza volta portano al licenziamento.
Poiché dal gennaio scorso le cose potrebbero essere mutate profondamente, ho voluto verificare come esse vadano davvero con alcuni rappresentanti aziendali della Cisl e della Uil che conosco da tempo. Stante il quadro diversissimo che essi tracciano della situazione, ho cercato alcuni dati oggettivi, che possano costituire almeno un indice della qualità dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro. Apprendo dunque (prego Ritanna Armeni di verificare anche lei e segnalarmi se c’è qualche inesattezza) innanzitutto che nell’intero anno e mezzo di funzionamento del nuovo stabilimento, su 2150 persone che vi hanno lavorato a tempo pieno, all’Inail non risulta neppure un solo caso di infortunio sul lavoro o malattia professionale. Zero: neppure un livido o un graffio. Ora, poiché invece lo stesso Inail indica una frequenza di oltre 30 casi all’anno ogni mille lavoratori nell’intero settore dell’industria e dei trasporti, delle due l’una: o a Pomigliano nascondono gli infortuni e le malattie professionali, o la performance dello stabilimento è, almeno per questo aspetto niente affatto secondario, straordinariamente positiva. Una possibile spiegazione c’è: ora lì tutte le lavorazioni pericolose e nocive, in particolare saldatura e verniciatura, vengono svolte da 600 robot, in ambiente isolato in cui nessuno può mettere piede; e il lavoro al montaggio – come effettivamente avevo potuto verificare direttamente durante la mia visita del gennaio scorso ‑ è organizzato secondo criteri molto sofisticati dal punto di vista ergonomico, cioè del benessere e della minor fatica del lavoratore. Anche per quel che riguarda le possibili necessità di sosta: ogni sei operai (non più ogni dodici, come prima) c’è un caposquadra che sostituisce quello di essi che debba sospendere il lavoro.
Stesso discorso per quel che riguarda i licenziamenti disciplinari: neppure uno in un anno e mezzo. Ma anche i provvedimenti disciplinari minori sono molto al di sotto della frequenza normale in qualsiasi fabbrica di grandi dimensioni: in un anno e mezzo, sui 2150 addetti allo stabilimento di Pomigliano, un solo caso di sospensione e venti sole multe, da una a quattro ore di paga-base. Venti in tutto anche le ammonizioni.
Apprendo poi che – come dicevo all’inizio ‑ pochi giorni fa a Lipsia, nel corso del settimo congresso internazionale organizzato dalla più importante rivista specializzata tedesca del settore, “Automobil Produktion”, lo stabilimento di Pomigliano è stato premiato come il migliore d’Europa sotto il profilo tecnologico, organizzativo ed ergonomico.
Insomma, a me sembra che Ritanna Armeni faccia benissimo a protestare contro le discriminazioni ai danni degli iscritti alla Fiom nelle assunzioni; ma sbagli di grosso – e indebolisca anche la parte giustificata della propria protesta ‑ quando cerca di presentarci questo insediamento industriale come un inferno. E che la sinistra politica e sindacale si sia assunta una responsabilità grave nei confronti dei lavoratori e dell’intero Paese, scatenando contro questo stabilimento, fin da quando era ancora allo stadio di mero progetto, una guerra mediatica senza precedenti. Anche perché tutti sanno che il vero motivo di quella guerra, all’origine, era costituito soltanto da tre deroghe tutto sommato marginali al contratto collettivo nazionale richieste dal progetto; e che nel giugno del 2011 la stessa Cgil ha ritenuto quelle deroghe pienamente ammissibili con la firma dell’accordo interconfederale del 28 giugno. Dunque, non sarebbe venuto il momento di deporre le armi, da entrambe le parti, nell’interesse di tutti?
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LA REPLICA DI RITANNA ARMENI: HAI GUARDATO LO SPLENDORE DELLA CASA, NON LA MISERIA DI CHI CI VIVE
Gentile professore Ichino, leggo sul suo blog e sul Corriere della sera una polemica garbata, ma molto convinta a proposito del mio libro Lo squalo e il dinosauro nel quale cerco di raccontare le condizioni di vita e di lavoro degli operai nella Fiat di Marchionne.
Lei contrappone alle mie descrizioni la sua. Quella di una fabbrica moderna, altamente tecnologizzata, in cui molte mansioni vengono svolte dai robot, nella quale non ci sono nè malati nè infortuni. Una fabbrica in cui ” il lavoro di montaggio è organizzato secondo criteri molto sofisticati, dal punto di vista ergonomico, cioè del benessere e della minor fatica del lavoratore”. Non ho motivo di dubitare della descrizione che lei fa dello stabilimento, delle macchine, dei robot, dei pavimenti tirati a lucido, della pulizia degli impianti e neppure della scientificità ergonomica, ma credo, gentile professore, che per andare a fondo della questione Fiat, che sta evidentemente a cuore ad entrambi, dobbiamo partire dalla constatazione che il nostro approccio è diverso. Lei ha guardato lo stabilimento, le statistiche, i robot, io ho parlato con le donne e gli uomini che lavorano. Emergono evidentemente due narrazioni differenti dello stesso luogo. E come se lei descrivesse una casa raccontando del magnifico parquet, degli elettrodomestici ultimo modello, descrivesse i quadri alle pareti e la magnificenza dei mobili. Io, invece, indagassi sulle persone che la abitano e sui loro rapporti e dalle loro parole – continuo con l’esempio – scoprissi che i rapporti familiari sono pessimi che il marito è violento, che la moglie lo odia, che i figli sono vessati e a loro volta detestano i genitori. Sono due approcci diversi non crede? E l’uno – la meraviglia e il
lusso della casa – non esclude l’altro – i pessimi rapporti e l’infelicità di chi vi abita.
A mio parere la descrizione della vita delle persone, di chi lavora, nel caso della Fiat, è molto più importante della descrizione delle meraviglie dello stabilimento. E, soprattutto penso, ed è per questo che ho scritto il libro che lei critica, finora la condizione delle persone è stata sistematica ignorata dando per certo e incontrovertibile che chi vive quella “bella casa” non possa avere che una vita felice e dei rapporti armoniosi.
Sono in molti a fare questo errore e lei – glielo dico senza polemica – proprio perchè autorevole studioso è fra coloro che lo legittima e, con le sue descrizioni entusiaste di Pomigliano, sostiene la “vulgata” secondo cui Sergio Marchionne è uno straordinario e moderno innovatore e la Fiom e la sinistra sono “dinosauri” incapaci di capire.
Sono d’accordo con lei: è ora di uscire da una sterile polemica. Mi aiuti a farlo rispondendo ad alcune mie curiosità. Le sue risposte possono essere di grande interesse in un momento in cui la sinistra, anche attraverso la straordinaria partecipazione alle primarie, sta cercando se stessa e spera di tornare al governo del paese.
È vero o non è vero che con l’accordo Fiat, prima a Pomigliano e poi negli altri stabilimenti le condizioni di lavoro, sono notevolmente peggiorate? Oppure secondo lei sono diventati migliori? È vero o non è vero che la stessa Fiat, che ha ammesso queste condizioni ma le ha ritenute indispensabili per poter investire ancora in Italia, nel settembre scorso ha ritirato gli investimenti? Come giudica questo comportamento e la strategia aziendale della nostra più grande industria nazionale? Rassicurante? O anche lei pensa come l’attuale presidente del Consiglio che l’azienda può fare quello che crede anche se ci sono in gioco decine di migliaia di posti di lavoro? È vero o non è vero che gli stabilimenti Fiat sono in gran parte in cassa integrazione, hanno scarse prospettive di ripresa e vi regna la paura e il terrore di perdere il posto di lavoro? E che forse è questo che spinge chi ha la fortuna di
continuare a lavorare a non lamentarsi, a non denunciare gli infortuni e tanto meno a protestare sulla organizzazione del lavoro.
Infine. Le pare democraticamente accettabile che un sindacato, il più forte, sia cacciato dall’azienda perchè non ne condivide l’azione? E che quindi si avvalori l’idea che un sindacato per poter agire deve essere d’accordo con la controparte? Perchè lei che è così ascoltato, su questo non ha aperto un fronte di discussione e di polemica. In nome della democrazia
e di un principio liberale, non in nome della sinistra e della difesa di una posizione sindacale e politica quale è quella della Fiom.
Mi creda professore, io sono rimasta sconvolta dai miei colloqui con i lavoratori della Fiat. E sono rimasta colpita dalle sue parole di entusiasmo per quella azienda. Lei che esprime in genere giudizi prudenti, articolati quando parla della Fiat è straordinariamente infervorato. A tratti – mi consenta di dirlo – acritico. Ho scritto Lo squalo e il dinosauro perchè volevo che qualcuno raccontasse, che non si fermasse ad ammirare i robot, ma andasse un po’ oltre. Che illuminasse anche coloro che in questa vicenda Fiat, che ha occupato abbondantemente i mass media, sono rimasti “invisibili” e parlasse della loro vita, delle loro paure. Tutto qui.
Cordialmente, mi creda, Ritanna Armeni
LA MIA CONTROREPLICA: NON È COSÌ, HO PARLATO A TU PER TU CON MOLTI OPERAI
Non mi pare proprio di avere considerato soltanto il magnifico parquet e lo splendore dei mobili della casa, senza considerare la qualità della vita di chi la abita. Proprio per evitare questo errore, il 20 gennaio scorso sono andato di persona a visitare lo stabilimento di Pomigliano e vi ho passato una mattina, parlando con numerosi operai scelti del tutto a caso (non mi risulta che Ritanna Armeni abbia fatto altrettanto, né che i suoi interlocutori siano stati scelti con lo stesso criterio casuale). Perché i colloqui fossero più genuini e credibili, ho chiesto di poter essere io a scegliere le persone con cui parlare e che il colloquio si svolgesse a tu per tu, senza la presenza del responsabile dello stabilimento, col quale pure avevo avuto un colloquio preliminare. Con l’autorizzazione dello stesso responsabile, ho dunque girato liberamente per l’intero grande ambiente che ospita la catena di montaggio; e ho potuto constatare che, quando chiedevo di parlare con un operaio o un’operaia, essi chiedevano a loro volta molto semplicemente al capo-squadra di sostituirli per il tempo del colloquio. E mi hanno spiegato che mentre prima i capi-squadra pronti alla sostituzione erano uno ogni dodici, ora sono uno ogni sei (questo rende davvero poco credibile quanto riportato da una interlocutrice, nel libro Lo squalo e il dinosauro, circa l’impossibilità di recarsi alla toilette per ore e ore durante il lavoro).
A ciascuno degli operai e operaie con cui ho parlato quella mattina ho chiesto se a loro pareva che le condizioni di lavoro fossero complessivamente migliorate o peggiorate rispetto a prima; tutti – ripeto: tutti – mi hanno risposto che le consideravano nettamente migliorate, sia sotto il profilo della fatica, sia sotto quello ambientale. Erano percezioni soggettive, certo; ma univoche. Ora, a distanza di un anno, apprendo che lo stabilimento di Pomigliano – unico tra quelli delle stesse dimensioni in Italia – ha realizzato la performance eccezionale dell’azzeramento degli infortuni: cioè ha realizzato per la prima volta un obiettivo che il movimento sindacale indica da mezzo secolo come traguardo di civiltà; e anche per questo viene premiato come la fabbrica di auto più sicura, meglio organizzata e tecnologicamente avanzata d’Italia. Queste non sono impressioni soggettive, sono fatti oggettivi. Ed è in base a questi fatti che rispondo alla domanda di Ritanna Armeni: sì, le condizioni materiali di lavoro a Pomigliano sono nettamente migliorate rispetto a prima.
A questo punto è d’obbligo chiedersi: se le cose stanno così, perché tanto accanimento da parte della Fiom nel demonizzare questo insediamento produttivo, nel presentare questa fabbrica come un inferno? Non riesco a trovare una risposta diversa da questa: venuto meno, con l’accordo interconfederale del giugno 2011 firmato anche dalla Cgil, l’unico motivo ragionevole di rifiuto dell’accordo aziendale (ovvero la rigida inderogabilità del contratto collettivo nazionale di settore), per poter giustificare di fronte all’opinione pubblica quel rifiuto la Fiom ha bisogno di presentare la nuova fabbrica come un inferno. A costo di dare una rappresentazione falsa della realtà (falsità di cui – beninteso – non accuso Ritanna Armeni, che probabilmente in quella fabbrica non c’è mai stata, ma gli interlocutori e interlocutrici da cui ha tratto le informazioni raccolte nel suo libro). E a costo del paradosso di presentare uno stabilimento-modello come un male peggiore rispetto alla piaga del lavoro nero controllato dalla camorra, che domina in tutto il territorio circostante.
Detto questo, devo rispondere anche alle altre domande che l’Autrice del libro mi pone. Sul fatto che anche a Pomigliano sia tornata la Cassa integrazione: tutti avremmo preferito che questo non accadesse; ma è certo che, senza l’accordo della primavera 2010, anche i 2150 che oggi sono al lavoro, e che allora erano già in Cassa integrazione, ci sarebbero rimasti per tutto questo tempo senza soluzione di continuità. Quanto al fatto che alla Fiom non venga riconosciuto il diritto alla rappresentanza sindacale in azienda, tutti sanno
che esso deriva da un referendum del 1995 promosso anche dall’ala sinistra del movimento sindacale; e Ritanna Armeni sa benissimo che un anno prima degli accordi Fiat ho presentato, con altri 54 senatori del Pd, un progetto di riforma della materia (d.d.l. n. 1872/2009) mirato a garantire alla coalizione sindacale maggioritaria il potere di negoziare con effetti estesi a tutti i dipendenti dell’azienda, e al sindacato minoritario il diritto di non firmare l’accordo senza per questo perdere il diritto alla rappresentanza in azienda. E sa anche che ho sempre condannato la discriminazione nei confronti degli iscritti alla Fiom. Ma all’origine, nel 2010, quando la Fiom dichiarò la guerra contro l’accordo, quest’ultima
questione non era ancora sorta; né essa era ancora sorta quando, nel giugno 2011, la Cgil ha firmato l’accordo interconfederale che ha segnato la fine dell’inderogabilità rigida del contratto collettivo nazionale.
Se “mi infervoro” – come Ritanna Armeni osserva – in questo discorso, non è perché io abbia alcun particolare legame, economico, politico, professionale o comunque personale con la Fiat: con la quale non ho e non ho mai avuto nulla a che fare, se si esclude la Panda che condivido con mia moglie da quindici anni. Mi infervoro perché non mi rassegno a vedere la Fiom, che è stata quarant’anni fa il mio primo sindacato e la mia prima datrice di lavoro, assumersi una responsabilità gravissima nei confronti dei lavoratori: quella di indurli, con argomenti non veri, a rifiutare l’unico nuovo grande insediamento industriale che sia stato fatto nel nostro Mezzogiorno negli ultimi vent’anni. E di contribuire a tener lontani gli altri grandi investitori che potrebbero essere interessati a compierne altri analoghi.