IL FILO ROSSO CHE CORRE TRA IL PENSIERO DI MARCO BIAGI E QUELLO DI MASSIMO D’ANTONA (E CHE SEMBRA ESSERSI PERDUTO TRA I “RIFORMISTI” DI OGGI)
Senato: dal resoconto stenografico della seduta antimeridiana del 19 marzo 2009 – Commemorazione nel settimo anniversario dell’assassinio di Marco Biagi, 19 marzo 2009. Larghi stralci di questo intervento sono stati pubblicati anche dal Corriere della Sera il giorno successivo.
ICHINO (PD). Domando di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
ICHINO (PD). Signor Presidente, colleghi, Marco Biagi era un giuslavorista di frontiera, come Massimo D’Antona. Qualcuno ha ritenuto di contrapporre il pensiero dell’uno a quello dell’altro e, certo, tra l’uno e l’altro è facile ravvisare differenze anche marcate su singoli punti. Entrambi erano però animati da una convinzione, che, a ben vedere, è assai più rilevante di quelle differenze; una convinzione che non è di per sè né di destra, né di sinistra, ma è soltanto profondamente ragionevole: la convinzione, cioè, secondo cui il diritto del lavoro può essere difeso efficacemente soltanto se lo si aiuta a evolvere, ad adattarsi al mutare dei tempi, per poter conservare la propria essenziale funzione.
L’uno e l’altro – Massimo D’Antona e Marco Biagi – in modi diversi hanno dedicato interamente la loro vita a questo mutamento e per questo sono stati uccisi da chi quel cambiamento teme, anzi aborrisce. Sì, perché le Brigate rosse – le nuove come le vecchie – sono soprattutto una forza di conservazione. Nonostante i toni rivoluzionari del loro linguaggio, esse sono in realtà abbarbicate al vecchio ordinamento, lo difendono con le unghie e con i denti: i loro proclami, espliciti o impliciti che siano (“Lo statuto non si tocca”, “Chi tocca l’articolo 18 muore”), sono la quintessenza del conservatorismo.
Le Brigate rosse odiano chiunque lavori per la riforma del diritto del lavoro e per il suo adeguamento al nuovo contesto economico e sociale. Per questo i terroristi conservatori hanno puntato le loro armi contro Marco e Massimo e, prima di loro, contro Tarantelli, Giugni, Ruffilli e tanti altri riformatori. La loro logica mafiosa – quella del “colpiscine uno per educarne cento” – era volta essenzialmente a paralizzare l’intelligenza riformatrice dell’intera comunità degli studiosi dei problemi del lavoro.
La lezione di Marco Biagi, com’è stato sottolineato dal Presidente in apertura stamattina, e poi dal ministro Sacconi, è stata soprattutto una lezione comparatistica: le idee-forza che innervano il suo disegno de iure condendo nascono soprattutto dall’impegno a confrontarsi senza chiusure provinciali con tutte le esperienze offerte dal panorama internazionale, in particolare da quello nord-europeo. È da questo confronto che Marco ha tratto la convinzione dell’arretratezza, dell’iniquità, dell’inefficienza del nostro mercato del lavoro. Non me ne voglia il ministro Brunetta, che nei giorni scorsi ha invece ritenuto di qualificare questo nostro mercato del lavoro come “mirabile”, “efficiente”; addirittura si è spinto a dire “equo”. No, Marco era proprio convinto che questo mercato del lavoro fosse arretrato, iniquo e inefficiente; ed era convinto che ciò fosse conseguenza delle caratteristiche del nostro vecchio sistema di protezione e che per tale ragione questo sistema dovesse essere profondamente riformato.
La legge che oggi porta il suo nome non esaurisce affatto il disegno complessivo che Marco aveva in mente negli ultimi tempi della sua esistenza. Quella legge, presentata da destra come la “grande liberalizzazione”, quella che avrebbe dovuto “fare del nostro diritto del lavoro il più libero e liberale d’Europa”, presentata da sinistra come “lo smantellamento del diritto del lavoro”, non era in realtà né l’una cosa né l’altra: era soltanto un primo atto di razionalizzazione del mondo dei cosiddetti lavori atipici. Quando però Marco qualificava il nostro come “il peggiore mercato del lavoro d’Europa”, e ne attribuiva la causa all’arretratezza del nostro sistema di protezione del lavoro, quella a cui pensava non era soltanto la razionalizzazione dell’esistente, bensì una vera e propria – uso le sue parole – transizione del nostro Paese dal vecchio equilibrio mediterraneo a un nuovo equilibrio di tipo nord-europeo. Una transizione di cui egli stesso aveva individuato i primi segni nella legislazione della seconda metà degli anni Novanta, in particolare nelle leggi del 1997, promosse dall’allora ministro del lavoro Tìziano Treu, e nella nota sentenza della Corte di giustizia che ci impose il superamento del monopolio statale nei servizi al mercato del lavoro.
A proposito di questa transizione, vorrei che ascoltaste queste parole:
Con l’evoluzione verso il modello nord-europeo “il diritto al lavoro perde qualcosa rispetto ai densi riferimenti storici che lo connotano;” e questo qualcosa “è il forte orientamento all’avere, alla stabilità, all’uniformità. Avere il lavoro, ossia il posto, con le garanzie della inamovibilità, cosa che si può esprimere anche in termini di property in job… rimanda a un modello di impresa e di organizzazione del lavoro rigida, uniforme, durevole; un modello che tende al declino”. Bene, queste non sono parole di Marco Biagi: sono parole di Massimo D’Antona; parole pronunciate nel suo ultimo intervento pubblico, 12 giorni prima che egli venisse ucciso. Ma vedete, colleghi, come queste parole esprimono anche, con una straordinaria profondità e precisione, proprio la direzione nella quale si muoveva la riforma pensata da Marco Biagi e che andava al di là della sua stessa legge.
Proseguo in quella citazione: “Il diritto al lavoro sembra spostare il suo baricentro sull’essere, ossia sulla persona. Quando si parla di impiegabilità della persona del lavoratore – il valore dell’employability sottolineato in tanti documenti comunitari – quando si sottolinea l’irrinunciabilità di una tutela che assicuri a chi cerca, o cerca di conservare, il lavoro, uguali punti di partenza ma non uguali punti di arrivo, quando si indica nelle strategie di sostegno del lavoratore nel mercato il meglio che l’approccio microeconomico possa fare … altro non si fa che prendere sul serio il diritto al lavoro come garanzia costituzionale della persona sociale, aggiornandola, però, come garanzia dell’essere e non dell’avere”.
Ancora una volta parole di Massimo D’Antona, che si combinano perfettamente per questo aspetto con l’idea di fondo di Marco Biagi. Questo dunque era, pur con le differenze innegabili sugli itinerari da percorrere ai quali ciascuno dei due pensava, il loro disegno di transizione.
Oggi tocca a noi proseguire su quella strada. Per farlo dobbiamo innanzitutto spogliarci, gli uni e gli altri, di quel tanto di faziosità che sovente avvelena i nostri discorsi quando si parla di problemi del lavoro. Ma dobbiamo anche avere ben chiaro il senso profondo del declino irrimediabile del vecchio modello di protezione cui entrambi, Massimo e Marco, hanno cercato di dare uno sbocco positivo, al prezzo della loro vita.
«Prendere sul serio il diritto al lavoro, come garanzia dell’essere del lavoratore» – di tutti i lavoratori, come lei stesso Presidente ha sottolineato all’inizio – «e non come diritto di proprietà su di un determinato pezzetto del tessuto produttivo» è l’essenza dell’esortazione che entrambi ci rivolgono. Forse abbiamo ancora qualche blocco mentale da superare, prima di riuscire a entrare davvero in questo ordine di idee, se ancora oggi, non soltanto dalle file della vecchia Sinistra, ma anche da autorevolissimi membri del Governo in carica – e proprio oggi nell’articolo di fondo di un autorevole editorialista del quotidiano della Confindustria, «Il Sole 24 ORE» – vengono reiterate dichiarazioni di intangibilità dei vecchi assetti del sistema di protezione, del regime di apartheid che oggi in Italia segrega tra loro protetti e non protetti.
A sette anni dalla morte di Marco Biagi e a dieci anni dalla morte di Massimo D’Antona, è tempo che, rispetto ai blocchi mentali del passato recente, voltiamo tutti pagina. (Applausi. Molte congratulazioni).