LE BRIGATE ROSSE VECCHIE E NUOVE SONO PROFONDAMENTE CONSERVATRICI. PER QUESTO ODIANO CHI LAVORA PER LA RIFORMA DEL MERCATO DEL LAVORO
Intervista a cura di Leonard Berberi, pubblicata su www.lasestina.unimi.it il 19 marzo 2009
MILANO – «Le Brigate Rosse, vecchie e nuove, sono profondamente conservatrici: per questo odiano chi lavora per la riforma del mercato del lavoro». Pietro Ichino, senatore del Partito democratico e professore di Diritto del Lavoro all’Università Statale di Milano, sintetizza così uno spaccato della società italiana. E lo fa proprio nel momento in cui si ricorda la morte di Marco Biagi, il giuslavorista bolognese ucciso, a 52 anni, il 19 marzo 2002 dalle nuove Br. Sotto il portone di casa sua. E l’immagine della sua bici appoggiata al muro giallo è diventata un simbolo. Il professore Ichino ha lavorato per anni con Biagi. Ed è nel mirino anche lui. Per questo lo si vede girare sempre con la scorta.
Cosa rimane di Marco Biagi?
«Rimangono molte cose. Soprattutto la lezione comparatistica, che implica l’impegno a confrontarsi con tutte le esperienze offerte dal panorama internazionale senza chiusure provincialistiche. Lezione che ha mostrato l’arretratezza, l’iniquità e l’inefficienza del nostro mercato del lavoro, in larga parte determinate dalle caratteristiche del nostro diritto del lavoro, vecchio ormai di quarant’anni».
Lei era non solo un collega, ma anche un amico. Che ricordo conserva?
«Negli ultimi anni abbiamo lavorato molto insieme. Per il Master europeo in scienze del lavoro – di cui io ero Direttore, mentre Marco aveva l’insegnamento di diritto comunitario del lavoro – e per la Rivista Italiana di Diritto del Lavoro. Eravamo uniti da una visione comune dei problemi del mercato e del diritto del lavoro, anche se le nostre scelte politiche ci collocavano, dopo il 2001, in schieramenti politici diversi. Eravamo, del resto, entrambi convinti della necessità di una riforma della materia sostenuta da un impegno bi-partisan: il passaggio dal vecchio modello mediterraneo a quello nordeuropeo costituisce un grande gioco a somma positiva, da cui tutti avranno da guadagnare».
Marco Biagi è stato ucciso dopo le polemiche sul suo progetto di riforma del sistema di protezione del lavoro. Quelle critiche – a tratti ferocissime – erano giustificate?
«I fatti hanno mostrato quanto esse fossero faziose e infondate: la legge Biagi non istituisce neppure un solo tipo di rapporto di lavoro precario che non esistesse anche prima. Essa regola con maggiore rigore – rispetto all’ordinamento precedente – i rapporti marginali. Per esempio, quando il Governo Prodi ha voluto dare un giro di vite contro l’abuso delle collaborazioni coordinate e continuative, il ministro del lavoro Damiano ha emanato due circolari volte ad applicare con rigore norme della “legge Biagi”. Lo stesso è accaduto nel passaggio dal vecchio contratto di formazione e lavoro al nuovo apprendistato. In ogni caso, nei cinque anni successivi all’entrata in vigore della “legge Biagi” non sono aumentati né i contratti a termine né le collaborazioni continuative e coordinate».
Perché dunque tanta mobilitazione contro la «legge Biagi»?
«La verità è che conteneva molti più elementi di flessibilizzazione la legge Treu del 1997 che la legge Biagi; ma la legge Treu venne varata da un Governo di centro-sinistra di cui faceva parte anche Rifondazione comunista. Sulla legge Biagi ha prevalso la faziosità, che ha portato la destra a presentarla come “la grande liberalizzazione” del diritto del lavoro, la sinistra a presentarla come “lo smantellamento” del diritto del lavoro. E la gente ci ha creduto. Ma erano entrambe affermazioni false».
Tarantelli, D’Antona, Biagi. Lei che vive sotto scorta. Perché i giuslavoristi in Italia sono sempre a rischio?
«Perché – sul piano delle politiche del lavoro – le Brigate Rosse, vecchie e nuove, sono soprattutto una forza di conservazione: nonostante i proclami rivoluzionari, esse sono abbarbicate al vecchio ordinamento, lo difendono con le unghie e coi denti: “lo Statuto dei lavoratori non si tocca”, “chi tocca l’articolo 18 muore”, e slogan simili sono la quintessenza del conservatorismo. E odiano chiunque lavori per la sua riforma, il suo adeguamento al nuovo contesto economico e sociale. Ma non dobbiamo lasciarci intimidire. E la sinistra politica e sindacale non deve lasciarsi contagiare da questo blocco mentale».
Leonard Berberi
www.lasestina.unimi.it