LIBERO: L’ACCORDO SULLA PRODUTTIVITÀ CONTA SOPRATTUTTO PER GLI INTENTI CHE IN ESSO SI MANIFESTANO

RIPRENDE, MA SENZA LA CGIL, L’ACCORDO DEL 28 GIUGNO 2011 – DUE LE NOVITÀ: IL CONTRATTO AZIENDALE POTRÀ DEROGARE SU MANSIONI, ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO E RETRIBUZIONI

Intervista a cura di Alessandro Giorgiutti, pubblicata da Libero il 23 novembre 2012 – In argomento v. anche l’intervista pubblicata da Affaritaliani lo stesso giorno

Come valuta la bozza d’accordo sulla produttività tra le parti sociali?
È una ripresa dell’accordo interconfederale del 28 giugno dell’anno scorso, con molte ripetizioni del suo contenuto e due passi avanti ulteriori abbastanza notevoli. Uno è la derogabilità in sede aziendale delle norme in materia di mansioni e organizzazione del lavoro.

Immagino che l’altro a cui lei pensa sia l’adeguamento dei salari all’inflazione, con la fine degli incrementi automatici regolati sull’indice dei prezzi al consumo Ipca. Ma pochi, mi sembra, lo hanno affrontato nel modo diretto e crudo di Tito Boeri, secondo cui il vero obiettivo della trattativa sulla produttività è la moderazione salariale. Scrive Boeri che nell’ultimo decennio in Germania la produttività è aumentata mediamente del 2% l’anno e i salari dello 0,5%, mentre in Italia la prima è aumentata dello 0,4% e i secondi dello 0,9%. Ora il trend italiano va adeguato a quello tedesco e quindi dobbiamo aspettarci “riduzioni in termini reali delle retribuzioni”. E’ una lettura corretta?
Io lo vedo in modo diverso. Questo passaggio del nuovo accordo significa, anche se in forma un po’ nebulosa, che d’ora in poi i contratti nazionali dovranno affidare alla contrattazione aziendale la gestione di una parte almeno dell’adeguamento retributivo all’inflazione, attuandolo attraverso premi legati a redditività o produttività aziendale.

Già, ma come ci si regolerà nelle imprese piccole – la grande maggioranza in talia – dove mancano i sindacati interni e dunque anche la contrattazione aziendale?
Un modo per risolvere questo problema c’è, anche se l’intesa non lo indica chiaramente. Il contratto nazionale, invece di stabilire un aumento secco dei minimi retributivi tabellari come ha sempre fatto nei decenni passati, dispone che l’aumento sia costituito dalla distribuzione ai lavoratori di una determinata percentuale dell’aumento del margine operativo lordo; lasciando, però, che questa regola possa essere sostituita dal contratto aziendale con qualsiasi altra clausola di collegamento della retribuzione a indici di redditività o produttività. Così questo elemento della retribuzione collegato all’aumento della produzione di ricchezza sarebbe comunque garantito in tutte le imprese, perché in tutte il m.o.l. è facilmente individuabile; ma non si tratterebbe di un meccanismo rigido e inderogabile.

Secondo lei il rischio di un effetto di riduzione dei livelli salariali non c’è?
Riduzione della parte fissa delle retribuzioni determinata al livello nazionale non significa affatto riduzione dei livelli salariali complessivi, se questa riduzione è compensata da un aumento dello spazio lasciato alla parte variabile. D’altra parte, questa maggiore flessibilità delle retribuzioni, con un loro più marcato collegamento all’andamento della produttività, ha effetti positivi sui livelli occupazionali e al tempo stesso, incentivando il miglioramento delle performance aziendali, crea le condizioni perché il livello complessivo delle retribuzioni aumenti.

La Cgil alla fine firmerà o si asterrà?
Temo che si asterrà. E sarà davvero un peccato, perché in questo modo si perderanno i frutti positivi della firma da parte di Susanna Camusso dell’accordo dell’anno scorso per il sistema italiano delle relazioni industriali.

Quali saranno le conseguenze del no della Cgil?
Un indebolimento del sistema delle relazioni industriali. Una sua più marcata dipendenza dai poteri dello Stato, esecutivo e legislativo.

Una volta ottenuto un accordo sul fronte della contrattazione, quali altri passi dovrebbero essere fatti, in particolare da governo e Parlamento, per aumentare la competitività del nostro sistema economico?
Occorrerà incentivare la contrattazione nazionale e aziendale di clausole di collegamento della retribuzione a indici di produttività o redditività dell’impresa; e nel contempo incentivare forme di informazione e partecipazione nell’impresa, che consentano ai lavoratori di controllare da vicino gli indici della performance aziendale.

Un’ultima domanda sulla riforma del mercato del lavoro. Se tra qualche mese lei dovesse avere responsabilità di governo quali sono le prime modifiche e/o integrazioni che farebbe alla Legge Fornero?
Innanzitutto sostituirei l’intera legislazione di fonte nazionale in materia di lavoro con un codice semplificato: quello che ho proposto con il disegno di legge n. 1873 presentato nel 2009, affinato in centinaia di incontri sindacali, con gli imprenditori, e in sede universitaria. 60 articoli in tutto, chiari, concisi, comprensibili per ciascuno dei milioni di lavoratori e imprenditori, traducibile in inglese. Sarebbe un formidabile biglietto da visita con cui presentarci agli operatori stranieri. E semplificherei drasticamente tutta la burocrazia che circonda il lavoro in Italia. Questo consentirebbe di togliere sabbia dagli ingranaggi, ridurrebbe i costi di transazione e avrebbe comunque un effetto tonificante sul funzionamento del mercato del lavoro. E non costerebbe nulla.

Dopo l’“innanzitutto” c’è un “in secondo luogo”?
Sì: lancerei la sperimentazione, per le nuove assunzioni, di un modello di flexsecurity ispirato alle migliori esperienze scandinave. Sono convinto che potrebbe funzionare benissimo anche da noi, senza costi per l’erario e con vantaggi notevolissimi per lavoratori e imprese. Comunque, il metodo sperimentale consentirebbe di mettere a punto il modello strada facendo, prima di arrivare a generalizzarlo, dopo qualche anno di verifica.

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