IL MATTINO: PERCHÉ LA CGIL NON FIRMA L’ACCORDO SULLA PRODUTTIVITÀ

IN PARTE PERCHÉ VUOLE RIMARCARE LA DISTANZA DAL GOVERNO MONTI, IN PARTE PERCHÉ VUOLE OPPORSI ALLA RIDUZIONE DEL RUOLO DEL CONTRATTO NAZIONALE, CHE CORRISPONDE PERALTRO A UNA SCELTA COMPIUTA ANCHE DALLA CGIL CON L’ACCORDO DEL GIUGNO 2011

Intervista a cura di Nando Santonastaso, pubblicata sul quotidiano il Mattino il 19 novembre 2012.
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Intercettiamo Pietro Ichino reduce dal bagno di folla della Leopolda, dove il suo intervento di giovedì scorso è stato tra i più applauditi e sabato Renzi ha sottolineato di aver fatto proprio integralmente il suo “Codice del Lavoro semplificato”, come capitolo centrale del programma elettorale per le prossime primarie.
Professor Ichino, che cosa pensa di queste “Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività” negoziate da Confindustria e Cisl, in attesa della firma della Uil, ma rifiutate dalla Cgil?
Il contenuto del documento è sostanzialmente una ripresa dell’accordo interconfederale sulla struttura della contrattazione collettiva e sulla rappresentanza sindacale in azienda, che il 28 giugno 2011 è stato firmato anche dalla Cgil. Stupisce, dunque che la Cgil abbia sostanzialmente scelto di chiamarsene fuori, dopo avere partecipato attivamente al negoziato nella prima fase.

Lei come spiega questa scelta della Cgil?
L’unica spiegazione plausibile è che la Cgil abbia inteso, con questa scelta, rimarcare la propria distanza, per non dire ostilità, nei confronti del governo Monti. Perché proprio il governo ha sollecitato fortemente le parti sociali a compiere questo passo. E la premessa e le considerazioni introduttive, che occupano un terzo del documento, appaiono molto in linea con la filosofia del governo.

Sul piano dei contenuti, però, questo protocollo va oltre l’accordo interconfederale del giugno 2011.
Sì. Ma, a ben vedere, soltanto su due punti. E in entrambi i casi in modo un po’ nebuloso.

Quali?

Uno è la “piena autonomia collettiva” in materia di potere imprenditoriale di variazione delle mansioni assegnate al singolo lavoratore, particolarmente al livello aziendale. In realtà questa autonomia era già riconosciuta dall’articolo 8 del decreto-legge n. 138 del 2011; ma è una novità che essa sia fatta propria esplicitamente in un accordo interconfederale.

E l’altro punto di innovazione?

L’altro, e il più importante, è quello dove si prevede che i contratti collettivi nazionali lascino che una parte dell’adeguamento retributivo di loro competenza sia governato dalla contrattazione aziendale. Cioè che sia il contratto aziendale a gestire l’aumento, collegandolo a determinati indici di produttività o di redditività.

Ma che i premi di produzione fossero negoziati al livello aziendale non era già previsto, fin dal
protocollo Giugni del 1993 e addirittura anche prima?
Sì. Ma finora era fuori discussione che fosse compito del contratto collettivo nazionale adeguare i minimi retributivi tabellari in relazione all’inflazione. E nell’accordo interconfederale del giugno 2011 i minimi tabellari costituivano l’unica materia sulla quale non era attribuito alla contrattazione aziendale alcun potere di deroga. Ora, invece, si prevede che il contratto nazionale disponga l’adeguamento, ma ne lasci al contratto aziendale la gestione. Questo, sostanzialmente, al fine di aumentare la porzione del monte salari complessivo suscettibile di variare in relazione al variare della produttività o redditività delle singole imprese.

Già, se però la contrattazione aziendale copre soltanto metà del nostro tessuto produttivo, in
questo modo non si rischia che l’altra metà, dove si applica solo il contratto nazionale, resti senza l’aumento contrattuale?
Su questo punto il documento firmato da Confindustria e Cisl è effettivamente molto generico. Ma la soluzione tecnica c’è ed è pure abbastanza agevole, anche se non è facilissimo spiegarla al grande pubblico.

Ci provi.
Il contratto nazionale potrebbe, per esempio, stabilire che una determinata quota del minimo tabellare sia costituita da una percentuale del margine operativo lordo dell’impresa, consentendo però che il contratto aziendale sostituisca questo meccanismo con qualsiasi altro possibile meccanismo di aggancio della retribuzione alle variazioni di indici di produttività o di redditività diversi. Così, dove la contrattazione aziendale non arriva si applica  sempre il meccanismo nazionale. Questo è possibile, perché il margine operativo lordo, cioè la differenza tra ricavi e costi, è un indice oggettivo, rilevabile per qualsiasi impresa, anche di minime dimensioni. Misura soltanto la ricchezza prodotta, senza dipendere dalle manovre compiute dagli amministratori in materia di ammortamenti, accantonamenti o gestione finanziaria.

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