Diario minimo del lavoro
La serie di articoli pubblicati dal Corriere della Sera nell’estate 2006, dai quali è nato il libro I Nullafacenti. Perché e come reagire alla più grave ingiustizia della amministrazione pubblica.
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IL LAVORATORE “SPREMUTO” E LA SFIDA DEL MANAGEMENT, TRA PSICOLOGIA E PROFITTI
Anche in Italia, dove pure il pericolo di infortuni sul lavoro è più alto rispetto al resto di Europa, si registra da molti anni una tendenziale riduzione del numero degli operai morti e feriti, lenta ma evidente: merito dello sviluppo dell’automazione nell’industria. È in aumento invece ‑ secondo quanto si è appreso dal congresso mondiale di medicina del lavoro, svoltosi a Milano nel centenario della Clinica del Lavoro Luigi Devoto ‑ un rischio professionale tipico del sistema produttivo post-industriale, cui è esposto soprattutto il personale impiegatizio: la depressione da stress.
Gli psichiatri ci avvertono che oggi nei Paesi sviluppati il 48% della popolazione incappa almeno una volta nella vita in un disturbo psichico clinicamente rilevante; e che la maggior parte di queste crisi è innescata da uno stress acuto, o da uno stress di bassa intensità ma protratto nel tempo. Tutti siamo esposti a stress di questo genere, ma solo metà di noi è esposta – in maggiore o minore misura ‑ al rischio del cedimento psichico. Il problema, in azienda, nasce dal fatto che, per un verso, la sollecitazione a lavorare di più e meglio si trasforma facilmente, per molte persone, in uno stress vero e proprio; per altro verso, di questa sollecitazione nei confronti dei dipendenti, in qualche misura, in varie forme, qualsiasi impresa ben gestita ha bisogno.
Qui si apre una serie di questioni giuridiche di difficile soluzione: innanzitutto, fino a che punto è lecito all’imprenditore sollecitare il proprio dipendente a un maggiore impegno nel lavoro? Detto in modo brutale: fino a che punto è lecito spremere il lavoratore? In termini asetticamente medico-legali: qual è la soglia oltre la quale la sollecitazione genera stress e come si individua, in via preventiva, il caso in cui lo stress è pericoloso, essendo il dipendente persona predisposta al rischio di cadere in depressione? Quando poi la crisi depressiva si verifica, come si stabilisce se essa è stata causata davvero da uno stress lavorativo evitabile, o se invece, data la predisposizione personale del lavoratore, egli si sarebbe ammalato comunque?
In questo campo le norme di comportamento vigenti per l’imprenditore presentano un’apparente contraddizione: da un lato, per prevenire le discriminazioni, esse gli proibiscono di informarsi sulla storia medica personale del lavoratore, al di là di quanto strettamente necessario in riferimento alle esigenze tecniche dell’attività da svolgere; dall’altro lato, per prevenire il rischio della depressione da stress, esse sembrerebbero richiedere all’imprenditore di informarsi sugli eventuali disturbi psichici patiti dal dipendente in passato, per poter dosare opportunamente ritmi di lavoro, sollecitazioni e incentivi. Una soluzione sperimentata nei Paesi dove è più diffusa la consapevolezza del problema (tra questi la Gran Bretagna e gli Stati Uniti) è quella di combinare l’astensione dell’imprenditore dall’indagare di propria iniziativa sulla storia medica dei propri dipendenti con l’impegno a informarli, anche attraverso il medico aziendale, sul rischio della depressione; e incoraggiarli a comunicare, se lo ritengono, i dati sanitari che evidenzino una predisposizione personale specifica a questo rischio. L’imprenditore che si sia attenuto a questa linea di condotta non sarà considerato responsabile di un episodio depressivo dovuto a stress da lavoro in un soggetto predisposto a soffrirne, quando su questa propria condizione il dipendente abbia preferito mantenere il riserbo.
C’è anche chi sostiene che la soluzione debba essere un’altra: quella cioè di imporre alle imprese di limitare il ritmo di lavoro e l’incentivazione di tutti i dipendenti a un livello compatibile con la prevenzione del rischio di cedimento psichico delle persone più a rischio. Ma questa non è una soluzione realistica: i primi a rifiutarla sarebbero i lavoratori più capaci di sopportare carichi e ritmi di lavoro elevati, per lo più interessati a mettere a frutto questa loro capacità. Nel mercato globale, comunque, un sistema produttivo che rinunciasse a valorizzare il contributo dei dipendenti più produttivi, attraverso le varie forme possibili di incentivazione e motivazione, sarebbe destinato a soccombere.
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IL LAVORATORE PERSEGUITATO E L’IMPRESA MALATA DI MOBBING
Il mobbing oggi in Italia è di gran moda: chiunque si senta maltrattato dal proprio capo-ufficio o dai propri colleghi denuncia di essere “mobbizzato”; alcune Regioni hanno emanato leggi per la protezione contro gli effetti del mobbing (tutte contestate dal governo centrale davanti alla Consulta nel corso della passata legislatura, una sola dichiarata incostituzionale); la depressione da mobbing è ormai considerata ufficialmente un rischio professionale coperto dall’assicurazione obbligatoria; sul tema non si contano i convegni, i seminari, i saggi, i romanzi, i programmi televisivi e anche i film.
Una cosa curiosa è che siamo solo noi a chiamarlo con questo termine inglese: dove si parla inglese per davvero, sulle due sponde dell’Atlantico, lo chiamano in altri modi (per lo più harassment). Lì, comunque, il tema è molto meno gettonato che da noi. Non che in quei Paesi i lavoratori non vengano mai maltrattati dai capi-ufficio o dai colleghi; ma solo in Italia il fenomeno del maltrattamento e dell’isolamento del lavoratore debole in azienda sembra diventato oggetto di un interesse di massa, capace di mobilitare sociologi, avvocati, giudici, legislatori, medici, scrittori e registi.
L’idea corrente del mobbing è quella di una serie di atti ostili dell’imprenditore, dei dirigenti o dei colleghi, nei confronti di un lavoratore sgradito, volti a rendergli la vita impossibile e a indurlo a lasciare l’azienda. In questa visione del fenomeno la colpa, la prepotenza e addirittura la malvagità stanno tutte da una parte, mentre dall’altra c’è sempre soltanto una vittima innocente e indifesa. Nella realtà accade anche questo; ma gli episodi che vengono denunciati come mobbing nascono, per la stragrande maggior parte, da situazioni assai più complesse.
Il mobbing è sovente la reazione scorretta dell’imprenditore, del capo-ufficio, talora anche dei pari-grado, a un difetto incolpevole di rendimento o di integrazione di un lavoratore nel gruppo. Ma accade pure che il fenomeno denunciato come mobbing sia innescato da una reazione in sé giustificata di superiori o colleghi a un atteggiamento di voluta non collaborazione del lavoratore, talvolta addirittura di ostruzionismo da questi abilmente praticato in forme subdole, in un sistema di diritto del lavoro che garantisce a lui un grado elevato di stabilità, all’impresa solo un livello di rendimento del lavoro molto basso. Si dà infine il caso – ed è probabilmente il più frequente – in cui il fenomeno non è ascrivibile a una “colpa” originaria ben identificabile a carico di una parte più che dell’altra: esso può essere compreso soltanto come un mal funzionamento del sistema di rapporti in azienda, nascente da un circolo vizioso di azioni e reazioni nel quale non ha senso chiedersi “chi ha fatto il cattivo per primo”.
Per esempio, può accadere che un’impiegata un po’ meno efficiente della media, o anche soltanto un po’ ombrosa, o di carattere spigoloso, incominci a percepire che la parte più importante del lavoro venga affidata ai colleghi, che la propria presenza in azienda sia scarsamente apprezzata; poco importa che la sua sensazione sia fondata: ciò che conta è che essa la induce a stare a casa più degli altri, anche per indisposizioni lievi; la maggiore frequenza delle assenze causa una sua emarginazione effettiva nella distribuzione del lavoro, quindi anche un suo trattamento peggiore nella distribuzione degli strumenti e degli spazi di lavoro, con conseguenti sue recriminazioni e ulteriore deterioramento del suo rendimento; altri vengono promossi o beneficiano di premi, lei no; il malumore latente si trasforma in lite aperta, con pesanti accuse reciproche; lei viene trasferita a un altro ufficio e rifiuta il trasferimento; viene quindi sottoposta a procedimento disciplinare, cui reagisce denunciando di essere stata demansionata e “mobbizzata”.
In casi come questo, ragioni e torti parrebbero doversi distribuire salomonicamente in parti eguali tra il datore e la prestatrice di lavoro (con qualche responsabilità anche a carico della malasorte di entrambi). In realtà, però, il primo ha una responsabilità in più rispetto alla dipendente: oggi si ritiene, infatti, che dal lato dell’impresa debba sempre esserci un gestore delle risorse umane esperto di questo problema e capace di cogliere fin dall’inizio i segni del gioco sistemico pericoloso. Oggi al management aziendale si richiede di saper individuare e disinnescare tempestivamente quel circolo vizioso, anche quando non può essergli imputata la colpa di averlo innescato.
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IL LAVORO SEMPRE PIÙ DISEGUALE NEL TESSUTO PRODUTTIVO POST-INDUSTRIALE
Si discute molto su quanto debba rendere il lavoro a chi lo svolge, cioè quanto il lavoro debba essere retribuito. Si discute meno su quanto esso debba rendere all’azienda che lo riceve. Eppure le due questioni sono strettamente connesse tra loro: è difficile ottenere una retribuzione alta per un lavoro che rende poco all’azienda. Parrebbe dunque, a prima vista, che i sindacati debbano essere, entro certi limiti, interessati a favorire tutto quanto stimola il rendimento dei lavoratori, in modo da creare le condizioni per l’aumento delle loro retribuzioni. Ma le cose finora non sono andate così.
Il problema nasce dal fatto che è sovente impossibile distinguere quanto incida sul rendimento del lavoro di una persona il suo impegno e spirito di iniziativa, quanto la sua capacità professionale, quanto l’organizzazione aziendale in cui essa è inserita, quanto le circostanze esterne: quelle che non dipendono né da chi presta il lavoro né da chi lo organizza. Si capisce dunque che il sindacato – da sempre mobilitato in difesa della sicurezza e dell’uguaglianza dei lavoratori non solo contro le discriminazioni aziendali, ma anche contro le avversità del caso, che li dividono in fortunati e sfortunati ‑ tenda a rendere il loro trattamento e la stabilità del loro posto insensibili alle differenze di rendimento, così garantendo all’impresa solo livelli di rendimento relativamente bassi. Ma si capisce anche che l’impresa tenda, a sua volta, a stimolare il più possibile l’impegno del lavoratore per ottenerne un rendimento superiore rispetto a quei bassi livelli: nei primi due articoli di questa serie abbiamo discusso dei possibili eccessi di stimolazione dell’impegno del lavoratore nelle aziende private. Nel quarto e ultimo discuteremo del problema inverso che si pone nel settore pubblico, dove la strategia tradizionale del sindacato ha raggiunto il massimo successo, col risultato di garantire l’inamovibilità anche a lavoratori il cui rendimento è nullo o addirittura negativo.
La questione è venuta assumendo un’importanza sempre maggiore nel passaggio dall’economia industriale a quella cosiddetta post-industriale. Un secolo fa era parso che l’impegno personale del lavoratore potesse essere compiutamente misurato e controllato con lo spezzettare il lavoro in una serie di movimenti il più possibile simili a quelli di una macchina, stabilirne minuziosamente i tempi e organizzarne la sequenza; cioè col ridurre il lavoratore a qualche cosa di molto simile a un robot. Era il modello fordista di organizzazione dell’azienda; e in riferimento a quel modello il sindacato ha costruito la propria strategia protettiva. Ma da circa trent’anni la trasformazione della materia e l’attività impiegatizia d’ordine hanno incominciato a essere affidate alle macchine automatiche, ai robot veri e propri, che sanno fare entrambe le cose in modo molto più veloce e più preciso; da allora il lavoro umano è diventato sempre più lavoro immateriale, cioè si applica sempre di più alla ricerca, elaborazione e comunicazione di informazioni o di idee con i nuovi strumenti informatici e telematici. E qui, per un verso, l’impegno personale diventa molto meno facilmente controllabile; per altro verso le circostanze obbiettive e le differenze di capacità tra le persone possono incidere enormemente più che in passato sul rendimento del lavoro di ciascuno. Per esempio, se affidiamo una stessa ricerca di informazioni a due impiegati amministrativi, oggi può accadere che il primo impieghi un tempo dieci, cento, o persino mille volte minore del secondo per realizzare il risultato richiesto.
Nell’azienda fordista le differenze di rendimento del lavoro individuale erano ridotte al minimo: il rendimento del lavoratore più produttivo, nell’ambito della stessa categoria professionale, non era quasi mai superiore al doppio di quello del più debole. Per il sindacato era dunque facile organizzare un sistema di determinazione dei trattamenti ispirato ai valori della solidarietà e dell’uguaglianza, nel quale la retribuzione era commisurata a un rendimento medio e il lavoratore cui le cose andavano bene si faceva carico anche del difetto di rendimento del più debole o sfortunato. Ma quando, come accade tipicamente nel tessuto post-industriale, quel rapporto diventa del dieci, cento o mille a uno, il vecchio sistema ispirato alla solidarietà e all’uguaglianza non funziona più: si amplia enormemente uno spazio nel quale l’impresa ha la necessità di incentivare e premiare il rendimento individuale, per portarlo a livelli molto superiori allo standard minimo garantito; e il lavoratore più produttivo ha un interesse sempre maggiore a mettere a frutto le proprie capacità. In questo spazio, però, egli ora è solo di fronte alle iniziative dell’impresa e ai possibili colpi della fortuna avversa. È il nuovo spazio in cui vanno moltiplicandosi i fenomeni del mobbing ai danni dei più deboli, ma anche della depressione da stress lavorativo, che può colpire ugualmente deboli e forti.
Questo delle differenze crescenti di produttività individuale e quindi di reddito tra i lavoratori è oggi il problema cruciale per il sindacato e per il diritto del lavoro. Prenderne atto non significa accettare passivamente l’aumento delle disuguaglianze; ma per costruire un’uguaglianza che nei fatti non c’è, e sembra ogni giorno di più allontanarsi, occorrono strumenti e tecniche di tutela molto diversi da quelli che il sindacato ha forgiato un secolo fa, nell’azienda di tipo fordista.
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IL LAVORATORE NULLAFACENTE NEL SETTORE PUBBLICO
Il governo sta spremendosi le meningi per trovare misure di riduzione della spesa e aumento dell’efficienza dell’amministrazione pubblica. Qualcuno propone di prepensionare gli impiegati più anziani; perché, invece, nessuno propone di liberare gli uffici dai fannulloni, che nel settore privato sarebbero già stati licenziati da un pezzo? È certo che la maggior parte degli esperti la considererà una proposta provocatoria, adatta soltanto a un discorso da bar o da ombrellone; ma non è altrettanto certo che, se sottoposta a referendum popolare, essa non verrebbe approvata a larga maggioranza.
Negli articoli precedenti abbiamo discusso di alcuni modi e di alcuni eccessi con cui l’impresa cerca di sollecitare l’impegno dei dipendenti a un rendimento superiore al limite ‑ davvero molto basso ‑ dello “scarso rendimento”, al di sotto del quale il sistema del diritto del lavoro e il sindacato consentono effettivamente il licenziamento del lavoratore inefficiente, nel settore privato. Nel settore pubblico di fatto non esiste neppure quel limite minimo di rendimento. Oggi sono disponibili tecniche sofisticate per la misurazione della produttività delle strutture e dei singoli anche in questo settore; ma i repertori di giurisprudenza ci informano che, nelle amministrazioni pubbliche, per essere licenziati non basta l’inutilità totale della prestazione, o un’efficienza pari a zero: occorre aver fatto danni gravissimi ‑ per esempio aver sparato al proprio capoufficio, o essere scappato con la cassa ‑ ed essere stato per questo condannato a molti anni di reclusione. Altrimenti, vige di fatto una regola di inamovibilità pressoché assoluta.
Le nostre amministrazioni pubbliche stanno in piedi perché c’è una parte cospicua dei loro dipendenti che ama il proprio lavoro e supplisce con la dedizione personale a infinite carenze strutturali e organizzative, senza per questo ricevere una lira in più del magro stipendio uguale per tutti. Poi c’è un’altra parte che gioca al ribasso, ma si impegna pur sempre a garantire un minimo di efficienza e di utilità effettiva della prestazione, riconosciuto come irrinunciabile. Infine ci sono, protervi, i nullafacenti: quelli che vengono al lavoro solo quando fa loro comodo, o non ci vengono proprio, perché ne hanno un altro, in nero, molto più redditizio; e quando vengono, lavorano così poco e male che non si può affidar loro nulla di importante. Gli appartenenti a quest’ultima categoria sono, in genere, una piccola minoranza; ma è raro che una struttura pubblica ne sia del tutto priva.
Ecco dunque la proposta, “politicamente scorretta” ma niente affatto irragionevole: una nuova legge dispone che, stante la necessità ineludibile di ridurre la spesa pubblica senza ridurre l’efficienza delle strutture, ogni anno per i prossimi tre ciascuna amministrazione potrà licenziare un proprio dipendente ogni cento, individuato da un apposito organismo indipendente di valutazione secondo i due criteri oggettivi del minimo rendimento e della massima inutilità della prestazione lavorativa. La stessa legge, ovviamente, predispone un congruo trattamento di disoccupazione e le altre forme opportune di assistenza intensiva per chi in tal modo perderà lo stipendio; prevede inoltre che al posto di ogni licenziato potrà essere inserito in ruolo un lavoratore precario meritevole, tra quelli utilizzati per anni dalla stessa amministrazione (si calcola che nel settore pubblico ci sia almeno mezzo milione di giovani in questa condizione, esclusi finora dal lavoro stabile soltanto in omaggio al divieto di nuove assunzioni e all’inamovibilità dei nullafacenti).
Si obietterà che il lavoratore può essere del tutto inutile, ma non per colpa sua, bensì per colpa di circostanze avverse, o di cattiva organizzazione. È vero. Ma nel settore privato per questo si perde il posto, anche senza averne colpa; mentre nel settore pubblico proprio il fatto che finora questo non sia avvenuto (o sia avvenuto ancora troppo poco, dove le leggi Bassanini della XIII legislatura hanno incominciato a essere applicate) ha consentito una quasi totale deresponsabilizzazione, dai livelli più alti ai più bassi. Occorre, con urgenza, voltare pagina.
Si obietterà, ancora, che l’organismo di valutazione può sbagliare nella scelta dell’impiegato da licenziare. Aggiungiamo, allora, nella nuova legge una regola di “litisconsorzio necessario”: il lavoratore che impugna il licenziamento deve indicare l’errore commesso dall’organo di controllo e conseguentemente chiamare in causa, debitamente autorizzato a ciò dal giudice, l’altro lavoratore che egli ritiene debba; il giudice, annullando eventualmente il primo licenziamento, deve accertare contestualmente la licenziabilità di quest’altro dipendente.
Contro una legge di questo genere – è ovvio ‑ i sindacalisti farebbero le barricate, “in difesa dei lavoratori più deboli”. Essi però dovrebbero indicare in quale altro modo si possa superare la situazione attuale di deresponsabilizzazione del settore dell’impiego pubblico, di cui si è detto. I sindacalisti dovrebbero inoltre spiegare perché sia giusto continuare a preferire quel due o tre per cento di nullafacenti di ruolo ai tanti giovani bravissimi e indispensabili, che oggi sono relegati da anni ai margini, come “precari permanenti”: altrimenti, tutti i loro discorsi sulla lotta al precariato appariranno ipocriti. Quanto ai nullafacenti, per definizione essi non sono veri lavoratori: sono dei titolari di rendita; la vera ingiustizia è che, nel settore pubblico, essi possano rimanere tali fino alla non meritata pensione.
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IL SINDACATO E I NULLAFACENTI
Alla proposta di individuare i dipendenti pubblici totalmente improduttivi e di incominciare a tagliare lì, piuttosto che tagliare sugli investimenti o sui servizi pubblici che funzionano (Corriere, 24 agosto), i sindacalisti del settore hanno risposto, come previsto, con un “no” secco: niente licenziamenti; semmai “mobilità” e incentivi. Però hanno riconosciuto che il problema esiste, e in misura non trascurabile. Questo è già un passo avanti notevole: tutti dunque concordano che nell’amministrazione pubblica c’è una quota rilevante di nullafacenti.
Allora, che cosa intende fare di questi nullafacenti il ministro della funzione pubblica? Continuare a voltar la testa altrove e a pagar loro lo stipendio a tempo indeterminato, mentre si taglia sulla spesa utile e sugli investimenti, sarebbe oggi intollerabile: non dimentichi, il ministro, che non si tratta dei lavoratori deboli e poco produttivi, ma di persone che non fanno proprio nulla, non ci sono, e quando ci sono è come se non ci fossero; una categoria che alligna solo nel settore pubblico. È giusto ascoltare con la massima attenzione quel che dice il sindacato, ma nella materia di sua competenza, cioè in quella della protezione dei lavoratori; i nullafacenti, per definizione, non sono lavoratori.
Esaminiamo, comunque, le tesi dei sindacalisti su questo problema. La prima: licenziare non si deve, mai. Ma non sono forse licenziamenti anche i prepensionamenti di impiegati anziani che il governo sta studiando in questi giorni, con il tacito consenso degli stessi sindacalisti? E licenziando gli anziani, non si rischia di privare indiscriminatamente gli uffici pubblici di competenze talvolta preziose e insostituibili? Se ridurre gli organici bisogna, non è meglio incominciare con l’impiegato totalmente improduttivo, riservandogli per due o tre anni un trattamento di disoccupazione pari alla pensione anticipata che verrebbe data altrimenti all’anziano produttivo, e ovviamente verificando che non abbia un’altra occupazione nascosta e che sia davvero disponibile a un’occupazione regolare?
Veniamo alla proposta alternativa della “mobilità”. I sindacati del settore pubblico fino a oggi si sono sempre opposti in modo fermissimo a qualsiasi trasferimento autoritativo di dipendenti pubblici: la “mobilità” che essi propongono è solo quella “volontaria”. Ma questa non risolve il problema: nessun impiegato nullafacente ha mai acconsentito a trasferirsi in un ufficio dove si deve lavorare sul serio. In molti casi, poi, anche il trasferimento autoritativo non risolve il problema: per esempio, se un professore non insegna, perché ha altre cose da fare o perché non conosce la materia che dovrebbe insegnare, trasferirlo altrove significa soltanto infliggere il danno ad altri studenti.
I sindacalisti del settore pubblico sostengono poi che il problema potrebbe essere risolto con gli incentivi economici. Tutti noi, però, conosciamo la determinazione con cui loro stessi hanno sempre perseguito gli aumenti salariali indifferenziati e hanno di fatto impedito l’attivazione di sistemi retributivi capaci di premiare impegno e produttività. È comunque evidente che non può essere un premio di produzione a sradicare il fenomeno dei nullafacenti.
A me sembra che la sola soluzione efficace sia quella a) di un organo indipendente di valutazione che individui i nullafacenti, almeno quelli più smaccati (operazione relativamente facile); b) di una norma che stabilisca nella massima inefficienza e inutilità il criterio prioritario di scelta da applicare per la riduzione del personale pubblico, incominciando dai dirigenti; c) di un procedimento giudiziale nel quale il giudice, quando annulli un licenziamento impugnato, accerti al tempo stesso chi altro debba essere licenziato secondo la corretta applicazione dei criteri stabiliti, previa, ovviamente, chiamata in causa del nullafacente interessato, a garanzia del suo diritto di difesa. Questa soluzione ai sindacati del settore pubblico non piace? Ne propongano un’altra; ma non le chiacchiere che si sono sentite fin qui: una soluzione vera, incisiva, efficace.
Certo, per essere efficace qualsiasi soluzione comporterà maggior rigore in un sistema che per decenni è stato intollerabilmente lassista. D’altra parte, la lotta alle rendite – come si è appena visto nella vicenda del decreto Bersani ‑ qualche durezza la richiede (“la rivoluzione non è un pranzo di gala”). E la posizione di rendita dei nullafacenti del settore pubblico non merita indulgenza maggiore rispetto a quelle, tutto sommato meno costose per la collettività, dei tassisti e di alcune categorie di liberi professionisti.
Da una parte c’è l’interesse dei nullafacenti a continuare a godere della rendita che finora è stata loro assicurata; dall’altra c’è l’interesse della maggioranza dei lavoratori pubblici – quelli veri ‑ a una retribuzione adeguata, l’interesse dei precari a uscire dall’apartheid a cui sono stati finora condannati, l’interesse della collettività a non veder tagliare gli investimenti necessari per lo sviluppo economico del Paese. In questo conflitto di interessi i sindacalisti del settore pubblico da che parte stanno?