CHE COSA È “DI DESTRA” E CHE COSA È “DI SINISTRA” (ancora sul ruolo del “politico di complemento”)

UN LETTORE MANIFESTA IL PROPRIO SCONCERTO PER IL FATTO CHE IO ASSUMA TALVOLTA POSIZIONI CHE APPAIONO “DI DESTRA” – RISPONDO RICORDANDOGLI LA FUNZIONE PECULIARE (E MOLTO SCOMODA) CHE COMPETE ALLO STUDIOSO PRESTATO ALLA POLITICA

Messaggio pervenuto il 6 novembre 2012 – Segue la mia risposta, che deve intendersi riferita anche ad alcuni altri messaggi di dissenso dalla mia intervista al Secolo XIX sugli ultimi sviluppi della vicenda Fiat – In argomento v. anche la mia intervista a Ivan Scalfarotto Il rischio è il nostro mestiere

Chiar.mo Prof. Ichino,
da avvocato giuslavorista ed elettore democratico da tempo sono attento alle sue idee ed alle sue iniziative. La sua segnalazione del libro Pensare la sinistra (che purtroppo non ho ancora letto) rimanda ad una questione veramente sensibile, che mi sta molto a cuore; e credo di non sbagliare se penso che allo stesso modo stia nel cuore di molti riformisti.
Secondo la strategia di comunicazione di certa sinistra “conservatrice”, i riformisti (mi scuso se per sintetizzare banalizzo gli attributi) sono bollati con sdegno come liberisti, normali neo o iper. Nessuno mi convincerà che non sono di sinistra, per quanto sento forte il bisogno di giustizia, di uguaglianza, di libertà. E nessuno mi convincerà che non lo siano persone come lei , e tanti altri “riformisti”. Ma l’altra sinistra non accetta la discussione sui mezzi e non si accorge (voglio essere buono) che i vecchi mezzi conducono a risultati differenti, ed a volte diametralmente opposti a quelli che si dichiara di voler perseguire. Tale parte politica vuole che la gente non ci distingua da chi ha scelto (legittimamente, sia chiaro!) di privilegiare la ragioni della produzione per cultura o ideologia.
Reputo importante quindi mostrare con forza che siamo sempre “da questo lato”, perché si abbia il sostegno ed il consenso di chi vogliamo tutelare.
E vengo al dunque. Da un po’ di tempo, le sue posizioni appaiono sempre più ripiegate sulle ragioni delle aziende. Non faccio fatica ad ammettere che si tratti di una distorsione mediatica, ma per un politico anche l’immagine è sostanza, poiché incide sul consenso dei cittadini.
Da ultimo, sulla questione Fiat, con approccio tecnico, lei ha criticato le sentenze sulla discriminazione ai danni di lavoratori iscritti alla Fiom [intervista al Secolo XIXn.d.r.], nella parte in cui è stata disposta la reintegrazione in luogo del risarcimento. Per contro non ho sentito – e forse è stata una mia carenza – una sua condanna forte per una operazione che le sentenze in questione hanno rivelato essere palesemente discriminatoria, vergognosa incivile. Discriminare sulla base delle idee politiche, dare lavoro a chi ha una tessera sindacale e non ne ha un’altra, è quanto di più vicino al fascismo si sia visto in questi ultimi tempi.
Ed è un peccato, perché l’AD di Fiat aveva iniziato un meritorio processo di svecchiamento delle relazioni industriali.
Le posso assicurare che tra i cittadini, tra i simpatizzanti del centro sinistra riformista, la discriminazione di Fabbrica Italia è stata esecrata senza attenuanti. Soprattutto, sono rimasti spiazzati tutti quelli che avevano fino a quel momento sempre difeso la Fiat, durante la tempesta degli accordi che hanno segnato la rottura con la Fiom.
Immagino, e lo comprendo, che lei senta forte anche il dovere della coerenza con le sue ragioni dottrinarie e le sue iniziative istituzionali. Ma le pongo una domanda: Non pensa che se la sensibilità dei cittadini la colloca a destra, la sua azione politica risulterà molto meno efficace?
Con immensa stima
G. G.

CHE COSA E’ “DI DESTRA” E CHE COSA È “DI SINISTRA” (ancora sul ruolo del politico di complemento)
1. La storica difficoltà della sinistra di distinguere la destra dalla sinistraPrima di questa sedicesima legislatura, sono stato deputato nel corso dell’ottava (1979-83), nel Gruppo comunista. Se allora avessi rispettato il divieto di sostenere cose che l’opinione dominante della mia parte politica considerava “di destra”, avrei dovuto astenermi dal sostenere la necessità del riconoscimento del lavoro a tempo parziale; e, ancor più, astenermi dal sostenere l’abolizione del monopolio statale dei servizi di collocamento nel mercato del lavoro e della regola dell’avviamento al lavoro “su richiesta numerica” in base a graduatoria. Ricordo che proprio a causa delle mie tesi in materia di collocamento pubblico Emilio Pugno, autorevole capo-operaio della Fiat e in quella legislatura vice-presidente della Commissione Industria della Camera, mi diceva (bonariamente, ma con piena convinzione): “tu sei l’ala destra; ma non del movimento operaio: della borghesia”. Fu così che nel 1984 il Pci votò contro il riconoscimento del part-time, fonte di “ghettizzazione” delle donne; e per tutto il decennio successivo Pci e poi Pds continuarono pervicacemente a difendere il monopolio statale del collocamento, baluardo a difesa della dignità e libertà dei lavoratori contro le discriminazioni. Però – ironia della sorte – ad abolire quel monopolio fu nel 1997 una maggioranza di centrosinistra, di cui faceva parte anche Rifondazione comunista. E oggi neppure  Bertinotti o Vendola propongono di tornare indietro, né rispetto alla liberalizzazione dei servizi nel mercato del lavoro, né rispetto al riconoscimento del part-time. È andata così anche per la regola dell’inderogabilità assoluta del contratto collettivo nazionale, per anni considerata da sinistra sacra e intangibile, poi travolta dall’accordo interconfederale del giugno 2011, firmato anche dalla Cgil; e sta andando così per l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori: fra cinque o dieci anni anche questo sarà considerato da tutti a sinistra un ferro vecchio irrecuperabile.
. Questi sono soltanto alcuni esempi scelti nel campo di mia competenza; ma potrei proporne molti altri: basti pensare che negli anni ’70 erano considerati dal Pci – cioè da un italiano su tre – “di destra” anche il processo di integrazione europea e la televisione a colori.

2. Il ruolo insostituibile del politico di complemento capace di andare controcorrente – Tutto sbagliato, dunque, in quella vecchia sinistra? No: c’era anche molto di buono. Ma quella sinistra aveva bisogno pure di qualcuno che, al suo interno, preparasse il terreno per gli sviluppi futuri. Spero di non peccare di presunzione ipotizzando che le mie battaglie degli anni ’70, ’80 e ’90 abbiano avuto qualche peso nel rendere possibile la svolta compiuta dalla sinistra  italiana, in materia di politica del lavoro, con le leggi Treu del 1997; ma quanti improperi, quante accuse di “essere di destra” mi sono sorbito per condurre quelle battaglie!
. A un partito che non voglia fare soltanto il piccolo cabotaggio ma voglia allargare gli orizzonti della propria strategia, cogliendo in anticipo i segni dei tempi, non può bastare la – pur indispensabile – competenza del politico di professione, la sua capacità di coltivare e raccogliere il consenso entro la prima scadenza elettorale. Quel partito ha bisogno anche di studiosi, opinionisti, intellettuali, capaci di svolgere, come “politici di complemento”, il compito difficile e ingrato di dire le cose vere ma impopolari e scomode per l’apparato, di segnalare quanto accade nei Paesi più avanzati anche quando ne deriva una sollecitazione ad abbandonare inerzie domestiche e luoghi comuni radicati, di indicare ciò che prevedibilmente accadrà dopo le scadenze elettorali più vicine anche se si concilia male con le logiche politiche contingenti; insomma, di esporre il frutto delle proprie ricerche e studi anche quando questo comporta l’andare controcorrente. In un sistema democratico sono indispensabili i professionisti del consenso utile subito; sono però indispensabili anche i politici meno applauditi oggi, ma dedicati a costruire un ponte tra il consenso di oggi e quello di domani.

3. La vicenda della Fiat vista dal 2020Per tornare al tema di questa lettera, credo che tra qualche anno apparirà evidente a tutti – anche all’intero Pd – la follia di un Paese allo stremo, affamato di investimenti e di possibilità di lavoro, che fa la guerra contro il lancio di uno stabilimento-gioiello come quello di Pomigliano – che viene premiato dall’UE come best place to work in Europa, e fa registrare l’indice massimo di sicurezza, igiene e protezione dallo stress da lavoro – e contro la prospettiva che la stessa esperienza si ripeta altrove. Motivo dello scontro? Tre deroghe (molto marginali, peraltro) al contratto collettivo nazionale di settore.
. Sbaglierò, ma nel 2020 apparirà evidente che le scorrettezze commesse dalla Fiat a Pomigliano contro la  Fiom sono state precedute da altre scorrettezze di gravità almeno pari commesse dalla Fiom ai danni della stessa Fiat, della maggioranza dei lavoratori dello stabilimento e dei loro sindacati; che la discriminazione nelle assunzioni è stata preceduta da un attacco frontale contro il piano industriale di Marchionne denunciato fin dall’inizio come “illegittimo” o addirittura come costituente un “attentato alla Costituzione” (denunce respinte da tutte le sentenze che si sono registrate sul punto): cosa ben diversa, questa, dal dissentire sull’opportunità di firmare l’accordo aziendale, rispettando però la volontà espressa dalla maggioranza dei lavoratori.
. Per questo, pur criticando la discriminazione perpetrata dalla Fiat ai danni della Fiom a Pomigliano, sento il dovere di tenere la mia critica distinta da quella di chi non ha speso e continua a non spendere una sola parola sulle responsabilità gravi della Fiom in quella vicenda.
. Poi mi chiedo: è mai possibile che Sergio Marchionne sia nello stesso tempo “di destra” in Italia e “di sinistra” negli Stati Uniti, dove è amatissimo non solo dai sindacati e dai lavoratori dell’automobile, ma anche da Barack Obama (della cui campagna elettorale nel decisivo Ohio ha costituito un volto e un argomento di primo piano)?

4. La questione del provvedimento giudiziale – Veniamo infine alla questione strettamente tecnico-giuridica da cui questa discussione è nata. Oggi in Italia siamo ancora abituati a considerare la reintegrazione dei lavoratori o la costituzione coattiva del rapporto di lavoro come provvedimento tendenzialmente “di sinistra”, mentre la sanzione del risarcimento del danno, la “monetizzazione”, sarebbe tendenzialmente “di destra”. Così, nel caso specifico, preferiamo chiudere gli occhi sul fatto che a) qui la costituzione coattiva del rapporto di lavoro non avrebbe potuto comunque essere disposta per tutti i 300 lavoratori discriminati, ma soltanto per metà di essi (e l’altra metà? si arrangi!), mentre il risarcimento del danno per perdita di chance di lavoro avrebbe potuto essere riconosciuto a tutti gli interessati; e sarebbe stata per l’impresa una perdita patrimoniale, pagata principalmente dagli azionisti; b) viceversa, la sentenza non può imporre all’imprenditore di mantenere durevolmente un organico sovradimensionato rispetto alle esigenze aziendali effettive; imporre la costituzione di un posto di lavoro aggiuntivo stabile significa dunque prima o poi metterne a repentaglio un altro.

5. Non è “di destra” valutare i costi delle tutele e chiedersi chi li paga – A ben vedere, l’apertura della procedura di riduzione del personale da parte della Fiat evidenzia un rischio, e quindi un costo, che deriverebbe comunque per tutti i lavoratori dal provvedimento del giudice, anche nel caso in cui la procedura non fosse stata attivata o il licenziamento collettivo non venisse attuato: i posti di lavoro in un’azienda con organico sovradimensionato, operante in un settore fortemente concorrenziale, sono tutti a rischio. Questo – il costo delle misure protettive e chi effettivamente lo sopporta – è il dato su cui noi, a sinistra, quando discutiamo di diritto del lavoro tendiamo a chiudere indebitamente gli occhi. È evidente che qualsiasi sanzione contro un comportamento discriminatorio in qualche misura grava sul conto economico dell’impresa che viene puntia; ma l’analisi economica del diritto consente di individuare le sanzioni più efficaci e produttive di minori effetti indesiderati.
. I giuslavoristi ortodossi italiani – non per caso –  considerano “di destra” l’analisi economica del diritto del lavoro (quella che gli anglosassoni chiamano labor law and economics); e quindi oggi la snobbano, quando addirittura non la demonizzano. Scommettiamo che fra dieci anni, in ritardo di venti rispetto ai loro colleghi d’oltremanica e di trenta rispetto a quelli di oltreatlantico, anche i giuslavoristi italiani si accorgeranno che l’analisi economica del diritto del lavoro è uno strumento indispensabile per correggere in modo migliore le distorsioni del mercato del lavoro?   (p. i.)

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