ALL’ECONOMIA ITALIANA SERVE DI PIU’ UN FISCO ORIENTATO A INCENTIVARE IL LAVORO DELLE DONNE

Articolo di Alberto Alesina e Andrea Ichino pubblicato su il Sole 24 Ore – 3 giugno 2008

 

Una serie di proposte in discussione e di iniziative fiscali del nuovo governo potrebbe avere conseguenze notevoli dirette ed indirette sull’occupazione femminile. Come sappiamo la bassa partecipazione al lavoro delle donne è una caratteristica dell’economia italiana che molti considerano un handicap grave per il nostro Paese. Il complesso di questo pacchetto di riforme potrebbe allontanare ancora di più le donne dal mercato del lavoro.

La prima riforma è quella, già approvata, della de-tassazione degli straordinari. Di per sé,  è un’idea che ha il merito di creare incentivi a lavorare di più in un Paese in cui le ore lavorate per persona sono in media inferiori rispetto all’estero. Se però pensiamo a due coniugi che oltre a lavorare debbano anche occuparsi di figli e famiglia e quindi non possano entrambi approfittare dell’incentivo fiscale a fare straordinari, sarà per loro conveniente che uno solo di essi lavori oltre l’orario normale. E data l’attuale divisione dei compiti all’interno delle famiglie, sarà l’uomo ad aumentare l’offerta di lavoro, mentre la donna starà di più a casa. Questo accadrà a maggior ragione nelle famiglie monoreddito in cui solo l’uomo lavora.

Il provvedimento quindi rafforza la tradizionale divisione dei compiti all’interno della famiglia. Inoltre non tiene conto del fatto che il vero problema in Italia, non sono tanto le poche ore lavorate da chi già lavora, ma soprattutto la non partecipazione al lavoro di troppe categorie: giovani, anziani e soprattutto donne.  Riguardo a questo problema il provvedimento è del tutto inefficace, mentre facilmente avrebbe potuto essere disegnato per incentivare le donne ad entrare nel mercato del lavoro e a lavorare di più: bastava concentrare sulle sole lavoratrici la detassazione degli straordinari o (meglio ancora) di tutte le ore lavorate soprattutto per le donne che entrano per la prima volta nel mercato del lavoro.

L’offerta di lavoro femminile è molto più sensibile di quella maschile alla detassazione.  Sgravando la retribuzione delle sole donne si sarebbe creato un incentivo a far lavorare di più proprio quella parte della forza lavoro che ha la partecipazione piu bassa. Per una data perdita di gettito fiscale, l’offerta di lavoro complessiva sarebbe aumentata maggiormente con ovvi benefici in termini di prodotto interno lordo.

La seconda proposta in discussione è quella del quoziente familiare ovvero il sistema per cui i redditi da lavoro dei coniugi vengono considerati congiuntamente e sulla loro media attribuita a ciascun coniuge si applicano le aliquote progressive per determinare la tassa dovuta dalla famiglia nel suo complesso. Nel regime attualmente in vigore, invece, i redditi della moglie e del marito sono tassati separatamente. Quale dei due sistemi sia preferibile dipende da quanto preferiamo l’equità fiscale tra i coniugi piuttosto che l’equità fiscale tra famiglie che guadagnino lo stesso reddito complessivo,  ma con una diversa composizione tra moglie e marito. E la preferenza tra questi due obiettivi ha implicazioni per la partecipazione al lavoro femminile.

¼br /> Facciamo un esempio. Supponiamo, per semplicità, che le aliquote IRPEF medie siano 5% per un reddito di 50, 10% per un reddito di 75 e 20% per un reddito pari a 100. Se in una famiglia l’uomo guadagna 100 e la moglie 50 e in un’altra guadagnano tutti e due 75, con la tassazione disgiunta la prima famiglia paga più tasse della seconda: ossia 2.5 + 20 = 22.5 contro 7.5+7.5=15. Ciò può essere visto come un’ingiustizia perché le due famiglie pur avendo lo stesso reddito totale pagano tasse diverse. Il metodo del quoziente familiare si propone di ovviare a questa ingiustizia, ma ne genera un’altra. Nella prima famiglia, con la tassazione disgiunta, se la donna, che guadagna 50, volesse lavorare di più, il suo reddito marginale verrebbe tassato al 5%, mentre con il quoziente quella stessa donna dovrebbe considerare una aliquota marginale del 10%, perché ai fini fiscali è come se il suo reddito fosse quello medio familiare, ossia 75 e non 50.

Quindi con la tassazione disgiunta, ogni euro guadagnato da moglie e marito viene tassato nello stesso modo, ma famiglie con redditi uguali possono essere tassate in modo diverso. Con il metodo del quoziente, le donne sono tassate di fatto più degli uomini, ma famiglie con redditi complessivi uguali hanno la stessa imposizione. Se riteniamo che la partecipazione al lavoro delle donne sia un obiettivo importante per il nostro paese è evidente che il metodo del quoziente familiare ci allontana da questo obiettivo, e la tassazione disgiunta è preferibile.  Non a caso, nei paesi scandinavi e in UK dove la partecipazione al lavoro femminile e più alta, la tassazione della coppia è disgiunta, mentre è congiunta in Germania e Francia dove la partecipazione femminile è più bassa.

Infine il governo sembra aver abbandonato la proposta del cosiddetto “bonus bebè” (ventilata nel programma del PDL) a favore di un massiccio aumento di spesa pubblica per asili nido e servizi all’infanzia. Il bonus bebè era una pessima idea.  Se doveva essere un incentivo alla fertilità sarebbe servito a ben poco come hanno dimostrato vari studi empirici sugli incentivi a procreare. Gli asili nido sussidiati dallo Stato sono considerati da molti il deus ex machina che dovrebbe risolvere il problema della fertilità e del lavoro femminile. A noi non pare. Meglio sarebbe ridurre le imposte alle donne (e quindi alle loro famiglie) e dare loro un maggiore reddito disponibile da spendere come vogliono, dalla cura dei figli a quella degli anziani (sempre piu spesso un problema maggiore di quello dei figli), all’assunzione di baby sitters e badanti o per asili nidi privati che il mercato da solo genererebbe a fronte della domanda liberata dalla minore tassazione. E aumenterebbe anche l’offerta privata di asili nido a prezzi più accessibili perché riducendo le tasse alle donne diminuirebbe il costo della forza lavoro femminile che è di fatto uno degli input produttivi principali nei servizi per l’infanzia.

Una cosa è certa: il complesso di queste riforme, se congiuntamente adottate, aumenterebbe la pressione fiscale sulle donne inducendole a non lavorare, con effetti ambigui sulla fertilità. I nuovi asili nido pubblici rischierebbero di rimanere vuoti.

 24 Maggio 2008

Alberto Alesina aalesina@harvad.edu

Andrea Ichino andrea.ichino@unibo.it

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