M. CRIPPA: “LUCI E OMBRE DELLA FLEXSECURITY DI PIETRO ICHINO”

Articolo di Marco Crippa pubblicato nel Bollettino ADAPT, organo della Fondazione Marco Biagi, il 16 marzo 2009. Segue una mia breve nota di replica.


La riforma dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è argomento delicato. Si ricorderà che il passato governo Berlusconi aveva, dopo molte difficoltà, raggiunto un accordo generale con CISL e UIL per la citata riforma. L’accordo trovò, come naturale, la forte opposizione della CGIL che scatenò le piazze. L’idea fu quindi accantonata.

Inserita nel programma elettorale del Partito Democratico, la modifica dell’art. 18 è oggi oggetto di trattazione in un disegno di legge a firma del sen. e prof. Pietro Ichino e di altri esponenti del PD. In estrema sintesi il progetto di legge introduce una diversa regolamentazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (esplicitato nel motivo economico o organizzativo) in forza della quale si prevede un’indennità economica (da aggiungersi al preavviso) in luogo della reintegra nel posto di lavoro.

Il preavviso viene definito in tanti mesi quanti sono gli anni di anzianità (con un minimo di tre a un massimo di dodici), mentre l’indennità di licenziamento viene ottenuta con un calcolo un pochino più complesso, corrispondente  a tanti dodicesimi della retribuzione lorda complessiva  quanti sono gli anni di anzianità, sottraendo però quanto già dovuto per il preavviso. L’uso del termine “retribuzione complessiva” induce a pensare che per tale indennità si debbano conteggiare anche eventuali elementi variabili della retribuzione (straordinari, premi, ecc.).

La tabella riporta una simulazione di un lavoratore con un reddito di 26.000€ lordi annui ed elementi variabili pari a 1.500€, con la diversa dinamica degli importi dell’indennità a seconda degli anni di anzianità: il sistema prevede la corresponsione di importi crescenti con l’aumentare dell’anzianità aziendale. In ogni caso, se abbiamo inteso bene il meccanismo di calcolo, le somme erogate sono sempre di poco superiori all’ammontare del preavviso.

  

Retr annua lorda

26.000

 

 

 

 

 

Elementi variabili

1.500

 

 

 

 

 

Lordo mese

2.000

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Anni anzianità fino a

3

4

5

10

14

19

 

 

 

 

 

 

 

Preavviso

€ 6.000

€ 8.000

€ 10.000

€ 20.000

€ 24.000

€ 24.000

Indenn. Licenziam.

€ 875

€ 1.167

€ 1.458

€ 2.917

€ 8.083

€ 19.542

Totale

€ 6.875

€ 9.167

€ 11.458

€ 22.917

€ 32.083

€ 43.542

Num mensilità

3,4

4,6

5,7

11,5

16

21,8

 

 

 

Il lavoratore licenziato, inoltre, ha diritto a sottoscrivere uno speciale contratto di ricollocazione  e di ricevere una speciale indennità di disoccupazione della durata massima di quattro anni, quantificata con un importo decrescente di anno in anno (si parte dal 90% della retribuzione nel primo anno, e si scende al 60% nel quarto). Il contratto di ricollocazione viene sottoscritto con un ente bilaterale o consortile di nuova introduzione (finanziato dalle imprese e dal FSE) che si occupa del programma di riqualificazione e ricollocazione del soggetto. La frequenza di corsi di formazione professionale e l’impegno del disoccupato ad accettare le eventuali proposte di lavoro sono la condizione per  ottenere l’indennità di disoccupazione sopra indicata. Il sistema sarebbe improntato a criteri di economicità ed efficienza del servizio, cosicché l’Ente bilaterale avrebbe tutto l’interesse ad abbreviare la permanenza del lavoratore nello status di disoccupato.

La sottrazione del lavoratore dalla copertura del vecchio articolo art. 18 avviene attraverso la sottoscrizione di uno speciale contratto collettivo (detto di “transizione”) firmato da una o più aziende e da una organizzazione sindacale. In pratica da qualsiasi sindacato, purché non di comodo. Si noti che non si fa alcun cenno al requisito della maggiore rappresentatività del sindacato che si trova a firmare il contratto collettivo di transizione. Dal momento della stipula di detto contratto collettivo, tutti i neo assunti delle imprese firmatarie ricadono nella speciale normativa sopra descritta.

E’ possibile estendere la speciale normativa anche ai “vecchi” lavoratori se il contratto di transizione viene sottoscritto dalle organizzazioni sindacali che abbiano raccolto più del 50% dei voti nelle precedenti elezioni delle RSU, oppure attraverso un referendum preventivo tra tutti lavoratori.

E’importante aggiungere che, ai fini dell’applicazione della normativa in esame, questo disegno di legge introduce una nuova nozione di “lavoratore dipendente” da una azienda, individuato in quel prestatore d’opera che tragga più di metà del suo reddito dall’azienda stessa, salvo che l’attività sia effettivamente autonoma e che il reddito sia superiore a 40.000 euro annui, oppure che il prestatore sia iscritto ad un albo o ordine professionale. Se non ricorrono tali eccezioni, si presume de iure che il lavoratore sia in situazione di “dipendenza economica” dall’impresa e che quindi sia una lavoratore dipendente della stessa, qualunque sia la modalità di collaborazione in atto tra le parti. Coerentemente con quanto sopra, si rideterminano le aliquote contributive ai fini previdenziali, eliminando l’attuale differenza tra lavoratori dipendenti e coordinati continuativi. Si indica quindi nel 30% della retribuzione lorda la nuova aliquota contributiva, di cui per tre quarti a carico dell’impresa e un quarto a carico del dipendente. Rispetto alla situazione attuale, con questi importi, il lavoratore dipendente costerà di meno (con una riduzione di circa sei punti percentuali nei contributi INPS) e il co.co.pro. costerà di più. 

Il sistema si ispira apertamente al “modello danese” che prevede una forte copertura economica nel periodo di disoccupazione, ma al tempo stesso un vero obbligo per il disoccupato a partecipare ai corsi di riqualificazione professionale, nonché ad accettare le proposte di lavoro che gli vengono sottoposte.

Lo schema tutto sommato è semplice e innovativo: l’art. 18 viene depotenziato attraverso un intervento legislativo, ma con il necessario intervento della contrattazione collettiva, allo scopo di acquisirne il consenso “politico”. E’ chiaro che l’accettabilità del nuovo sistema è strettamente connessa al buon funzionamento dei servizi di ricollocazione, che dovranno funzionare secondo i concetti di efficienza e economicità delle imprese private.

Abbiamo già manifestato, in altre sedi, il nostro favore per l’impianto generale del progetto; tuttavia ci corre l’obbligo di evidenziare alcune criticità che posso incrinarne l’efficacia.

Ripetiamo che il buon funzionamento dell’ente bilaterale è l’elemento chiave per convincere imprese e lavoratori a passare al nuovo sistema, abbandonando la (falsa) protezione dell’art. 18. Allora solleviamo qualche dubbio che gli enti bilaterali finanziati dalle piccole imprese abbiano la capacità economica sufficiente per sostenere il costo delle operazioni di ricollocazione. Sarebbe bene prevedere che i fondi delle piccole imprese confluiscano e formino enti di più ampie dimensioni magari con accorpamenti a livello provinciale in modo che essi possano raggiungere una dimensione economica critica tale da poter far fronte agli impegni di spesa (e far quadrare i bilanci). A ciò possono essere d’aiuto anche le associazioni imprenditoriali che dovrebbero partecipare alla corretta gestione economica dell’ente, vincolato, quanto meno, all’obbligo di pareggio del bilancio. Obbligo tanto più necessario in quanto al finanziamento degli enti bilaterali dovrebbero concorrere i fondi europei, e il servizio di ricollocazione e riqualificazione professionale non può e non deve essere occasione di sperpero di denaro pubblico. Tra l’altro, il comma 4 dell’art. 2 prevede che in caso di cessazione di attività da parte dell’ente bilaterale, siano le imprese aderenti a rimanere direttamente responsabili dei trattamenti a favore dei lavoratori disoccupati. Ciò costituirà certamente un incentivo ad aderire a consorzi di una certa dimensione che assicurino efficienza e continuità.   

Dobbiamo invece osservare che la recente versione del comma 4 art. 6, che definisce meglio il concetto di “mero capriccio”, quale motivo illecito di licenziamento punito con la reintegra ex art. 18 Statuto dei Lavoratori, fuga alcune perplessità che erano sorte in precedenza. Nel nuovo testo infatti viene aggiunta la definizione di mero capriccio, come “motivo futile totalmente estraneo alle esigenze proprie del processo produttivo”. Spiegazione quanto mai utile e necessaria allo scopo di evitare di aprire la porta alle più disparate interpretazioni giurisprudenziali su un concetto troppo generico.

Annotiamo invece come sussista il dubbio relativo all’esistenza, anche nel nuovo licenziamento per motivi economici, dello stesso obbligo nell’attuale licenziamento per giustificato motivo oggettivo che impone al datore di lavoro di dimostrare l’impossibilità di ricollocare diversamente il lavoratore in una posizione professionalmente analoga. Infatti, il nuovo licenziamento per motivi economici è di fatto un licenziamento per giustificato motivo oggettivo e non è da escludere che qualche interpretazione giurisprudenziale “libera” preveda, per analogia, la sussistenza del suddetto obbligo di ricollocazione.

Ma il problema più ampio (e motivo di maggiore perplessità) è rappresentato dalla nuova regolamentazione del contratto di lavoro a termine. Ai fini della nuova disciplina, infatti, il contratto di lavoro con il collaboratore in condizione di dipendenza economica dall’impresa si intende sempre a tempo indeterminato, salvo pochi e limitati casi, che riecheggiano le causali della vecchia legge 230/62:

a)    lavori stagionali (definiti con decreto ministeriale)

b)    sostituzione di lavoratore assente

c)    assunzione per spettacoli o per stagioni teatrali

d)    contratto a termine di durata massima di tre anni per ricerca scientifica e insegnamento, oppure negli altri casi definiti dal contratto collettivo di transizione, quando esso sia firmato da un sindacato avente più del 50% dei consensi (quindi non nel caso in cui il contratto di transizione sia stato approvato per referendum).

Non è chiaro se anche in nei succitati casi si prevede la corresponsione dell’indennità di licenziamento (meglio di cessazione del contratto). In ogni caso, è intuibile il ragionamento per cui si sia deciso di limitare il ricorso al termine: eliminando il rischio della reintegra e aumentando il periodo di prova a sei mesi, rimarrebbero inutili tutti quei contratti a termine “abusivi”, cioè non sorretti da giustificazione oggettiva, ma sottoscritti solo per evitare le forche caudine dell’art. 18. Inoltre, la maggiore “facilità di licenziamento” dei nuovi assunti dovrebbe portare le aziende a preferire con maggiore serenità il contratto a tempo indeterminato, riducendo il fenomeno della “precarietà”.

Sul primo punto, se è vera la premessa, che cioè molti contratti a termine sono privi di giustificazione, allora essi si ridurrebbero automaticamente per effetto delle nuove norme, senza necessità alcuna di ulteriori restrizioni legislative.

In merito alla seconda argomentazione, valga una riflessione più ampia. Prima di tutto, dal punto di vista statistico, l’Italia non è il paese europeo che maggiormente utilizza il contratto a termine (e neppure il contratto di somministrazione) e quindi non sta qui la precarietà del mercato del lavoro italiano, bensì nel lavoro nero, vera piaga sociale del nostro sistema. In secondo luogo, anche nei Paesi europei in cui non vige l’obbligo di reintegra, non riscontriamo quelle forti limitazioni al contratto a termine e che invece prevede il progetto Ichino. E non si capisce perché le imprese italiane dovrebbero partire svantaggiate per l’impossibilità di utilizzare uno strumento contrattuale legittimo.

Se spostiamo l’attenzione sui modelli organizzativi delle imprese, e soprattutto di quelle italiane, che per la maggior parte sono di medie e piccole dimensioni, troviamo che la loro organizzazione è oggi molto più flessibile e mutevole che nel passato. L’orizzonte temporale delle decisioni imprenditoriali è molto più ridotto di un tempo, a causa della instabilità della domanda e delle aumentate variabili del sistema socio-economico (globalizzazione, concorrenza estera, tensioni finanziarie, ecc.). Cosicché le ragioni per stipulare un contratto a termine non sono sempre legate alla temporaneità di una commessa (può essere utile assumere a termine anche per attività continuative o di lunga durata) o alla sostituzione di un lavoratore assente.

Se il contesto in cui si va ad operare non è prevedibile, come lo possono essere le ragioni per le future assunzioni? E ancora, nel nuovo sistema si esclude quella che è la motivazione principe per un contratto a termine : il compimento di un’opera determinata nel tempo. Tutte le aziende italiane che operano per commessa (tipico esempio di aziende che delle opere a tempo determinato fanno la loro normale ragion d’essere) sarebbero escluse dal nuovo sistema. O meglio, preferiranno non entrarvi: perché oggi alla cessazione della commessa, cessa anche il contratto di lavoro a termine senza ulteriori costi, mentre lo schema di Ichino le obbligherebbe all’assunzione a tempo indeterminato con il maggior costo del preavviso e dell’indennità di licenziamento. E’ pure vero che tale maggior costo è prevedibile e noto sin dall’inizio del rapporto, ma esso non è detto che possa essere trasferito sul costo della commessa e fatto pagare al committente….

Oggi operiamo in un contesto non controllabile in anticipo, un contesto che gli studiosi delle dinamiche delle scelte collettive definiscono “a razionalità limitata”. In questi casi l’errore maggiore è quello di trincerarsi in strumenti difesivi e di protezione dell’esistente, autolimitando le scelte possibili e perpetuando quelle passate. Sarebbe invece preferibile non precludere a priori alcuno strumento contrattuale, eventualmente regolando specificatamente l’assistenza di coloro che perdono il lavoro per la naturale scadenza del termine, ma lasciando le aziende in concorrenza anche sulla libera scelta dei contratti e del tipo di gestione delle risorse umane che intendono perseguire.

MARCO CRIPPA

NOTA
 
Alle perplessità e ai dubbi esposti da Marco Crippa rispondo soltanto che:
– le imprese firmatarie del contratto di transizione saranno libere non solo di scegliere tra la forma dell’ente bilaterale e quella dell’ente consortile, ma anche di sceglierne le dimensioni (novero delle aziende coperte ed estensione del raggio d’azione territoriale); e si suppone che compiano la scelta a ragion veduta, visto che i costi dell’eventuale inefficienza – in particolare di quella dovuta a difetto o eccesso dimensionale – saranno esse stesse a sopportarli;
– per incentivare la stipulazione del contratto di transizione da parte delle imprese di piccole dimensioni, oggi escluse dall’ambito di applicazione dell’articolo 18 St. lav., il progetto prevede un contributo a carico dell’Erario pari allo 0,5% del monte salari dei nuovi assunti in queste imprese (cioè un contributo annuo che potrà variare, all’incirca, da 60 a 100 euro per ciascun nuovo assunto);
– al lavoratore assunto legittimamente con contratto a termine, alla cessazione del contratto, non è dovuto alcun trattamento di indennizzo o assistenza: questo mi sembra già agevolmente desumibile dal testo legislativo, ma nulla vieta di precisarlo esplicitamente;
– la rinuncia da parte dell’impresa ad assumere con contratto a termine, nel nuovo regime, è compensata dalla grande flessibilità del contratto a tempo indeterminato (salvo l’obbligo di assistenza al lavoratore licenziato), che comunque – nell’ordinamento comunitario – deve costituire la forma normale di contratto;
– la libertà di licenziamento per motivo ecnoomico-organizzativo (salvo l’obbligo di assistenza al licenziato) significa anche esonero da qualsiasi controllo giudiziale circa la possibilità di riutilizzazione del lavoratore in altra posizione lavorativa: anche questo mi sembra già agevolmente desumibile dal testo legislativo, ma nulla vieta di chiarirlo esplicitamente.         (p.i.)

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