IL GRANDE CONSENSO RACCOLTO DAL SINDACO DI FIRENZE NON È NÉ UNA BOLLA MEDIATICA, NÉ ESPRESSIONE DI UN ELETTORATO DI DESTRA IN CERCA DI UN LEADER LIBERISTA: È INVECE PER LO PIU’ IL CONSENSO DI QUELLA PARTE DELL’ELETTORATO A CUI SI RIVOLGEVA IL PD ORIGINARIO E A CUI NEGLI ULTIMI TRE ANNI IL PD SI È CHIUSO
Intervento alla manifestazione inaugurale del Comitato milanese per Matteo Renzi, svoltasi allo Spazio Energolab di via Plinio stipato di giovani e giovanissimi, a Milano l’11 ottobre 2012 – Il testo integrale di questo intervento è stato pubblicato sul quotidiano Il Foglio del 16 ottobre 2012.
Quando cinque anni fa abbiamo fondato il Partito democratico, lo abbiamo fatto anche per dotare il nostro centrosinistra di un partito capace di liberarsi dalle contraddizioni e dai ritardi della sinistra italiana del secolo passato.
LA VOCAZIONE MINORITARIA E GLI ALTRI ERRORI DELLA SINISTRA
A quella vecchia sinistra imputavamo, innanzitutto, la vocazione minoritaria, che si concretava in una sorta di disprezzo nei confronti degli elettori refrattari a capire e condividere le sue ragioni. Un disprezzo che la induceva a esimersi dal mettere in discussione se stessa e le proprie strategie incapaci di convincere la maggioranza degli italiani. E la induceva anche a isolare come corpi estranei, circondandoli di veri e propri cordoni sanitari, accusandoli di “intelligenza col nemico”, tutti coloro che si azzardassero a mettere in discussione il verbo dominante, o – Dio non voglia – si spingessero addirittura a contendere la leadership ai vecchi vertici della sinistra stessa.
A quella sinistra imputavamo, più specificamente, di non avere saputo liberarsi di vecchi schemi di lettura dei meccanismi della società civile e del tessuto produttivo; col risultato che nelle grandi scelte in materia di lavoro, negli ultimi quarant’anni, essa aveva sbagliato tutto. Era, quella, la sinistra che in Parlamento nel 1970 si era astenuta sullo Statuto dei Lavoratori considerandolo come una trappola per ingabbiare il movimento operaio; la sinistra che per tutti gli anni ’70 e fino alla metà degli anni ’80 aveva fatto muro contro il riconoscimento del part-time nel nostro ordinamento, votando contro la legge che lo introduceva nell’ ‘84; la sinistra che aveva difeso fino all’ultimo sangue il monopolio statale dei servizi collocamento e di fornitura di lavoro temporaneo, fino a quando, nel 1997, siamo stati obbligati ad abolirlo da una sentenza della Corte di Giustizia; la sinistra che aveva fatto dell’articolo 18 dello Statuto – sì: proprio di quello stesso Statuto che nel 1970 aveva disprezzato, come una trappola per il movimento operaio – un tabù intangibile (scommettiamo che tra cinque anni anche a sinistra non ci sarà più nessuno che proporrà di ripristinare il vecchio articolo 18, come oggi non c’è nessuno che proponga di revocare il riconoscimento del part-time o la liberalizzazione dei servizi nel mercato del lavoro?); la sinistra, infine, che dagli anni cinquanta e ancora fino all’anno scorso ha difeso come fondamentale e irrinunciabile il principio della rigida e assoluta inderogabilità del contratto collettivo nazionale, contro la tendenza al decentramento della contrattazione. È, del resto, la stessa sinistra che fino alla fine degli anni ’70 è stata contraria al processo di integrazione europea e alla TV a colori. E non provo alcun compiacimento nell’osservare tutto questo, perché lungo tutta la mia vita adulta ho scelto questa stessa sinistra come mia casa, anche se abitandovi sempre in una posizione un po’ eccentrica.
UN PAESE IN CUI SI VA AVANTI SOLO PER ANZIANITÀ
Dei propri vecchi miti collettivisti quella sinistra aveva abbandonato l’idea di realizzarli, ma non si era liberata delle tossine che ne erano rimaste nella sua cultura, le quali avevano continuato a ritardarne, come sabbia nell’ingranaggio, la reattività di fronte ai mutamenti del mondo reale. Le avevano impedito di rendersi conto che i vecchi strumenti di protezione del lavoro si erano trasformati in fattori di esclusione di una massa crescente di lavoratori, soprattutto giovani, dall’area di applicazione delle protezioni. La difesa sistematica e incondizionata dei lavoratori stabili regolari contro ogni possibile stress da esame aveva generato il principio per cui si va avanti sempre soltanto per anzianità; ma un Paese in cui si va avanti soltanto per anzianità è un Paese condannato a star fermo e comunque a perdere i suoi giovani migliori.
A quella sinistra imputavamo, ancora, di non riuscire a rapportarsi alla società civile se non per il tramite degli apparati di rappresentanza delle varie categorie, e in primo luogo dei sindacati; col risultato di perdere i contatti con una massa crescente di lavoratori esclusi dalle tutele. E di ridursi a una difesa sistematica di servizi pubblici organizzati in funzione dell’interesse prioritario, quando non esclusivo, di chi vi è addetto. A quella sinistra imputavamo dunque di comportarsi troppo spesso come organizzazione di protezione degli insiders contro gli outsiders, degli addetti ai servizi contro gli utenti dei servizi. Le imputavamo, infine, di comportarsi troppo spesso come organizzazione della protezione degli interessi costituiti della mia generazione, quella dei nati tra gli anni ’40 e gli anni ’50, contro gli interessi delle nuove generazioni.
QUEGLI ERRORI DELLA VECCHIA SINISTRA SONO DIVENTATI ERRORI DELL’INTERO PAESE
In questi cinque anni trascorsi dalla fondazione del Pd, le stesse critiche che noi allora muovevamo alla vecchia sinistra sono diventate altrettante critiche che l’Unione Europea muove all’intera organizzazione della società italiana attuale; e altrettante richieste di riforma alle quali i nostri partner europei condizionano la loro disponibilità a farsi carico della garanzia del nostro enorme debito pubblico. Questo è il motivo per cui possiamo ben dire che quel nuovo partito democratico, che nel 2007 ci proponevamo di costituire, oggi costituisce elemento di importanza decisiva nella risposta del nostro Paese alle critiche e alle richieste dei nostri partner europei. Un elemento di importanza decisiva, dunque, nella strategia europea che, con il Governo Monti, ci siamo dati per uscire dalla crisi terribile che ci attanaglia; e cogliere nel contempo la straordinaria occasione che ci si offre per allineare il nostro Paese rispetto ai migliori standard dei Paesi del centro- e nord-Europa in materia di servizi,
amministrazione e finanza pubblica.
LA SCOMMESSA EUROPEA DELL’ITALIA, SPARTIACQUE POLITICO FONDAMENTALE
Oggi quella scommessa comune che abbiamo stipulato con i nostri partner europei e la strategia necessaria per vincerla costituiscono – e continueranno presumibilmente a costituire ancora per diversi anni – uno spartiacque fondamentale per la politica italiana. È su quella strategia, oggi più importante che mai per le sorti del Paese, che il Pd decide se rimanere fedele o no alla propria missione originaria. Fin dal luglio scorso un gruppo sempre più folto di parlamentari democratici si è proposto di richiamare con forza il Pd alla necessità di porre al centro del proprio programma per la prossima legislatura la scommessa europea dell’Italia e la strategia necessaria per vincerla: le abbiamo chiamate sinteticamente “l’Agenda Monti”. Lo stesso tema sta diventando cruciale in questa campagna elettorale per le primarie.
Scegliendo il leader del centrosinistra non possiamo non scegliere anche la via migliore per far uscire l’Italia dalla crisi. E so di essere con una larghissima maggioranza
dell’elettorato democratico quando dico che la strategia più seria e realistica è costituita proprio dalla la scommessa europea che Mario Monti ha incominciato a delineare con Mario Draghi, Angela Merkel e François Hollande. Non mi sembra azzardato prevedere che vincerà queste primarie il candidato che saprà fare propria nel modo più coerente e convincente questa strategia.
LA CONTRADDIZIONE IRRISOLTA DI BERSANI
Questo è il motivo per cui vedo una contraddizione insanabile nella posizione assunta dal nostro Segretario generale, Pierluigi Bersani, che per un verso dice di voler fare propria la strategia europea delineata da Mario Monti, ma nel contempo indica come “alleato prioritario” per la prossima legislatura il partito guidato da Nichi Vendola, che qualifica apertamente quella stessa strategia come “la rovina dell’Italia”. Vedo una contraddizione insanabile nel dire che facciamo integralmente nostri gli impegni assunti dall’Italia in funzione della propria scommessa europea, e nel contempo affermare – come ha fatto sul Foglio di martedì scorso il Responsabile nazionale dell’Economia del Pd Stefano Fassina – che occorre “rottamare l’Agenda Monti”, in quanto ispirata a idee sbagliate e perniciose. Vedo anche un incredibile errore politico nell’asserragliarci nelle ridotte della vecchia sinistra proprio nel momento in cui il disfacimento del PdL ci aprirebbe – come osserva giustamente Giorgio Tonini – praterie sconfinate verso il centro dello schieramento.
Questo, viceversa, è il motivo per cui credo che dobbiamo appoggiare la candidatura alle primarie di Matteo Renzi: perché la linea che Renzi propone per il Pd e per la coalizione di centrosinistra è oggi la più coerente con la ragion d’essere originaria dello stesso Pd, la più coerente con la strategia europea dell’Italia delineata da Mario Monti e al tempo stesso la più coerente con l’obiettivo di conquistare al centrosinistra gli elettori delusi dal centrodestra.
GLI ERRORI DI VALUTAZIONE DI ROSY BINDI E DI MASSIMO D’ALEMA
Lo pensa anche quella metà degli elettori potenziali del Pd che, come voi qui questa sera, in queste ultime settimane manifestano nei sondaggi il proprio sostegno al sindaco di Firenze. Sbaglia clamorosamente Rosy Bindi quando li (vi) qualifica sprezzantemente come espressione “della maggioranza silenziosa”, pretendendo con questo di sancire la loro (la vostra!) estraneità rispetto al novero degli interlocutori che al centrosinistra interessano: ritroviamo qui un po’ di quel “disprezzo antropologico” verso l’altro da sé che ha caratterizzato la vecchia sinistra a vocazione minoritaria di cui parlavamo all’inizio. Compie lo stesso clamoroso errore di valutazione politica Massimo D’Alema quando liquida questo fenomeno come una “bolla mediatica” destinata a scoppiare tra breve. È vero proprio il contrario: il sostegno a Matteo Renzi viene per gran parte da quell’elettorato democratico che non si sente rappresentato dal Pd quale esso è diventato da alcuni anni, e che dunque si è sentito privato di rappresentanza politica. Il consenso che è esploso intorno a Matteo Renzi – di cui anche voi siete espressione qui questa sera – è per la maggior parte espressione dell’elettorato cui guardava il Pd quando è nato, ma che il Pd di Bersani dal 2009 ha preferito ignorare e se possibile abbandonare. C’è dentro un po’ di “destra non berlusconiana”, come i dirigenti attuali del Pd cercano disperatamente di convincersi che ci sia? Può darsi, e non vedrei alcun motivo di dolermene; ma non è certo questa l’essenza del fenomeno. Questa sera, per esempio, di quella destra in questa sala non vedo traccia. Il fatto è che quei dirigenti tutto quello che non capiscono lo qualificano come “destra”,
per esimersi dal farci i conti. Ogni giorno che passa essi spalancano gli occhi, increduli, di fronte al fatto che questa che loro credono una “bolla mediatica” continua a crescere e non scoppia; le tossine lasciate in circolo dai vecchi errori impediscono loro di cogliere il segno dei tempi.
L’INVITO DI FRANCO MARINI: “ATTENDI IL TUO TURNO!”
Gli errori della vecchia sinistra, diventati ormai parte integrante della cultura di un intero Paese, vengono fuori anche nei discorsi di dirigenti di vertice del Pd che non appartengono storicamente alla vecchia sinistra, ma in questa vicenda ne hanno assunto il modo di pensare e di agire. Parlo per esempio di Franco Marini, che lunedì scorso, in una intervista di fuoco contro Matteo Renzi sul Corriere della Sera, si è lasciato scappare (cito a memoria): “Io gli avevo detto di aspettare il suo turno; non mi ha ascoltato”. Aspettare il proprio turno: in questa frase torna fuori la vecchia sinistra delle graduatorie per anzianità, per cui di fatto al vertice possono stare soltanto i sessantenni e i settantenni. Non ci
capacitiamo del fatto che un trentasettenne possa aver l’ardire di contendere la leadership a un sessantenne. Ed Miliband ne aveva trentanove quando si candidò a guidare il Labour Party? Ti rispondono: “ma qui siamo in Italia”. Appunto. Vorremmo che anche nel nostro Paese si incominciasse a riconoscere che i trent’anni sono l’età della vita
nella quale, salvo eccezioni, siamo più intelligenti e più produttivi.
UN’ALTRA SCIOCCHEZZA DELLA VECCHIA SINISTRA: L’ACCUSA DI “LIBERISMO”
Quando non è quella di “intelligenza col nemico”, l’accusa che gli alti dirigenti del Pd muovono a Matteo Renzi, per esimersi dal confrontarsi pragmaticamente con le sue idee e le sue proposte, è quella di liberismo (vedi per esempio, proprio oggi Cesare Damiano in una accorata intervista al Mattino di Napoli). Quello che gli si rimprovera, in sostanza, è la proposta di usare largamente il mercato concorrenziale, dove è possibile attivarlo, come strumento per combattere le posizioni di rendita e realizzare le pari opportunità. Il che, tra l’altro, significa anche saper individuare i casi in cui il mercato concorrenziale non funziona, per attivare lì i correttivi necessari. La nostra vecchia sinistra identifica ancora l’idea del mercato concorrenziale con il laissez faire ottocentesco, con l’assenza di ogni regola, con il ritorno alla legge della jungla. Ma le cose stanno proprio al contrario. Un mercato veramente concorrenziale “allo stato di natura” non esiste e non è mai esistito: ci si arriva, con difficolta. solo al culmine di una evoluzione che incomincia con i grandi mercati monopolistici della prima rivoluzione industriale, seguiti dai sistemi keynesiani ad alta partecipazione statale nell’industria e nelle banche. A ben vedere, non c’è nulla di più “artificiale”, cioè lontano dallo stato di natura, di un mercato perfettamente concorrenziale: per poter esistere e funzionare bene, esso ha bisogno di essere sorretto, oltre che da un alto grado di fiducia reciproca tra gli operatori e i cittadini – quelle civic attitudes che è compito della buona politica promuovere -, anche da una attrezzatura molto sofisticata: una regolazione efficace e un’autorità antitrust in grado di sciogliere e prevenire i monopoli, un sistema informativo plurale ed efficiente, e un sistema di istruzione universale moderno, capace di assicurare il più possibile a tutti la necessaria dotazione di partenza del bene che più conta anche sul piano economico: la cultura. Se a tutto questo aggiungiamo – come fa Matteo nella sua bozza di programma – una solida rete di sicurezza e assistenza per garantire che nessuno dei più sfortunati venga abbandonato a se stesso, abbiamo il quadro di un programma che con il laissez faire ottocentesco ha pochissimo a che vedere, e che mira invece a una moderna e molto ambiziosa coniugazione di equità, pari opportunità e crescita economica. Un disegno che può forse essere accusato di eccessiva ambizione, ma non certo di ingenuo liberismo.
La realtà è che per la vecchia sinistra è “liberismo” tutto ciò che esce dai suoi schemi. Non si spiegherebbe, altrimenti, come essa possa commettere l’incredibile sciocchezza di tacciare di “liberismo” chi, come Matteo Renzi, ha fatto propria l’idea-forza della flexsecurity: un modello nel quale è particolarmente accentuato l’intervento pubblico, o comunque del sistema delle relazioni industriali, per correggere le disfunzioni tipiche del mercato del lavoro. Accusano Renzi di “liberismo”perché esce dai loro schemi: sta con gli outsiders dove loro difendono solo gli interessi degli insiders; con gli utenti dei servizi pubblici, dove loro di fatto proteggono solo gli interessi degli addetti a quei servizi; con le nuove generazioni dove essi di fatto si mobilitano soltanto a sostegno delle vecchie.
NON UN APPOGGIO INCONDIZIONATO
Il mio, sia chiaro, non è un appoggio incondizionato a Matteo Renzi; e neppure l’atto di adesione a una corrente. Al contrario, appoggerò Matteo soltanto a condizione che lui mantenga – come finora ha fatto – il suo impegno a difendere l’unità del Partito democratico, al di là di ogni polemica interna, per quanto aspra essa possa essere. Per un partito veramente democratico la dialettica interna non può essere un pericolo: deve esserne invece la linfa vitale. È proprio quello che la vecchia sinistra non capisce, quando torna a isolare il dissenziente con la tecnica del cordone sanitario, con la denigrazione personale, e magari anche con le accuse di “intelligenza col nemico”. Anche su questo terreno la campagna elettorale di Matteo deve essere per tutto il partito – pur nella fermezza delle posizioni assunte – una lezione di democrazia, di mitezza, e di non faziosità.
Il mio appoggio a Matteo è subordinato a un’altra condizione: che mantenga e rafforzi la coerenza del suo programma con la strategia europea dell’Italia disegnata da Mario Monti. Alla condizione, cioè, che sappia porre – come finora ha fatto – la sua straordinaria capacità di comunicazione politica al servizio di quella strategia, senza cedere mai alla tentazione di scambiare anche solo una briciola del rigore programmatico di cui abbiamo bisogno per una briciola di facile popolarità: tenere ferma la barra del timone gli renderà, a conti fatti, in termini di consensi duraturi, molto di più di quel che potrà fargli perdere in termini di consenso volatile. Questo non significa non vedere gli errori e le lacune, che abbondano nell’operato del Governo Monti; ma significa far proprio fino in fondo il disegno di un’Italia capace di riconquistare la fiducia e la stima degli altri grandi Paesi europei, proprio perché capace di mantenere rigorosamente gli impegni presi, e, mantenendoli, di dare il colpo di reni necessario per correggere i propri errori e per conformare la propria amministrazione e le proprie strutture ai migliori modelli che quei Paesi ci offrono. Con la serena coscienza che questo è il migliore servizio che possiamo rendere ai nostri figli, agli italiani di domani, dopo decenni di irresponsabilità e iniquità a loro danno.
L’IDEA-FORZA DELLA TRASPARENZA TOTALE
A questo proposito vorrei aggiungere soltanto un ultimo punto. La strategia europea delineata da Mario Monti, con i sacrifici e i mutamenti di cultura materiale del Paese che essa comporta, non può in alcun modo prescindere dalla disponibilità di un ceto politico capace di conquistarsi la fiducia piena dell’opinione pubblica. Questa fiducia – che oggi si è persa – può essere riconquistata soltanto attraverso due scelte fondamentali: quella di una sobrietà francescana della politica e quella di una trasparenza totale che ne consenta il controllo diretto da parte della cittadinanza. Parlo di quella full disclosure che oltre Manica e oltre Atlantico è garantita dai Freedom of Information Acts, e che da noi è stata finora soltanto proclamata, mai veramente praticata. Significa che ogni documento di ciascuna amministrazione pubblica, ma anche di quella interna di ciascun partito, deve essere accessibile a chiunque senza condizioni; e che ogni atto di spesa, ogni mandato di pagamento, ogni contratto è efficace soltanto dal momento in cui è pubblicato on line. È una vera e propria nuova cultura amministrativa, a suo modo rivoluzionaria, che Matteo Renzi enuncia nella sua bozza di programma, avendo già incominciato praticarla nel Comune di cui è sindaco e nell’amministrazione stessa della sua campagna elettorale. Se l’opinione pubblica si convincerà che sono soltanto promesse elettorali, questo si ritorcerà come un boomerang contro di lui. Ma se invece lui saprà convincere l’opinione pubblica di essere capace di costruire davvero questa
cultura in Italia, incarnandola nei suoi stessi atti e nella sua persona, la mia previsione è che Renzi conquisterà a se stesso e al centrosinistra un consenso enormemente più ampio di quello che del centrosinistra è tradizionalmente proprio.
Auguri, Matteo!
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