INCOMINCIAMO FIN D’ORA AD APPLICARE I PRINCIPI E LE REGOLE DELLA FULL DISCLOSURE: VALORIZZANDO LE NORME GIÀ ESISTENTI, ANTICIPANDO LA RIFORMA LEGISLATIVA CON I NOSTRI COMPORTAMENTI, CORREGGENDO LA DISTORSIONE CHE SI È DETERMINATA NELLA CULTURA GIURIDICA DELLA PRIVACY
Intervento di Pietro Ichino al convegno del 19 settembre 2012 presso la F.N.S.I , Iniziativa per l’adozione di un Freedom of Information Act (FOIA) anche in Italia, in occasione della Giornata della Trasparenza
In questo mio breve intervento accennerò soltanto a tre punti che mi paiono importanti: valorizzare le norme già esistenti; anticipare la riforma legislativa della trasparenza totale con i nostri comportamenti; correggere la distorsione che si è determinata nella cultura giuridica della privacy. A ben vedere questi tre punti possono essere ricondotti a uno solo: incominciamo a praticare i principi e le regole della full disclosure subito, anche a legislazione invariata. Questo preparerà il terreno a una maggiore effettività della nuova legge, quando finalmente arriveremo a dotarcene.
1. Valorizzare le norme già esistenti. – Sia pure in modo assai difettoso, tuttavia il principio della trasparenza totale ha già incominciato a essere enunciato nella legge-delega per la riforma del 2009 delle amministrazioni pubbliche (legge n. 15/2009, articolo 4, comma 2, lettera h), che vincola le amministrazioni ad “assicurare la totale accessibilità dei dati relativi ai servizi resi dalla pubblica amministrazione”), a essere precisato nel decreto-delegato emanato in adempimento di quella delega legislativa (d.lgs. n. 150/2009, articolo 11, che sancisce il principio di “accessibilità totale … delle informazioni concernenti ogni aspetto dell’organizzazione, degli indicatori relativi agli andamenti gestionali e all’utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali, dei risultati delle attività di misurazione e valutazione svolta dagli organi competenti…”) e a essere ulteriormente precisato nel Codice della protezione dei dati personali (comma 3-bis inserito nell’articolo 19 del d.lgs. n. 196/2003 dall’articolo 14 del Collegato lavoro, l. n. 183/2010, che sgombera il campo da un ostacolo sistematicamente opposto al tentativo di impedire la piena attuazione della norma del 2009, vincolando le amministrazioni a rendere accessibili a chiunque “le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto a una funzione pubblica e la relativa valutazione, con la sola eccezione delle “notizie concernenti la natura delle infermità e degli impedimenti personali o familiari che causino l’astensione dal lavoro”). Queste norme, certo, non hanno l’incisività dei Freedom of Information Acts statunitensi e britannici; ma costituiscono pur sempre un punto di riferimento normativo importante, che potrebbe essere valorizzato molto più di quanto non si sia fatto in questi primi tre anni di loro applicazione.
La stessa legge del 2009, poi, ha istituito un’autorità indipendente, la Commissione per la valutazione, l’integrità e la trasparenza delle amministrazioni-CIVIT, che dovrebbe considerarsi preposta anche all’attuazione e promozione di quel principio di trasparenza. E, aggiungo io, che dovrebbe costituire una sorta di contraltare dell’Autorità per la protezione dei dati personali, promuovendo nel settore pubblico il necessario contemperamento tra i principi di full disclosure e privacy.
Dunque non mancano disposizioni legislative alle quali ben potrebbe farsi riferimento per incominciare a praticare su larga scala i principi e il metodo della full disclosure nelle amministrazioni. Invece, su questo fronte tutto tace; e anche la Civit, fino a oggi, si è mostrata assai poco attiva su questo fronte. Non solo: si assiste anche a comportamenti amministrativi che vistosamente contraddicono quei principi e quel metodo. Solo alcuni esempi: nessuna amministrazione mette on line i mandati di pagamento e gli atti su cui essi si basano, in particolare i contratti con i fornitori e collaboratori privati; quasi nessuna amministrazione mette on line i dati relativi alle valutazioni della propria performance, i dati sui propri organici, sulle qualifiche, mansioni specifiche e retribuzioni dei dipendenti, sui loro tassi di assenze, sulle valutazioni delle loro prestazioni: qui domina ancora l’idea che il diritto alla privacy escluda questa pubblicazione, nonostante che due anni fa – come si è visto – nel Codice della protezione dei dati personali sia stata inserita una disposizione mirata esplicitamente ad affermare il contrario. E ultimamente l’ANVUR (che pure merita per altri aspetti tutto il nostro plauso), ignorando totalmente quella disposizione, ha addirittura pubblicamente addotto esigenze di protezione della riservatezza individuale a giustificazione della non pubblicazione delle valutazioni dei risultati individuali della ricerca universitaria.
2. Anticipare la riforma con i nostri comportamenti. – A questa inerzia occorre incominciare a contrapporre il maggior numero possibile di iniziative volte ad applicare fin d’ora i principi e le regole della full disclosure, anche a legislazione invariata, in attesa che un Freedom of Information Act nostrano segni definitivamente la svolta, con il pieno allineamento per questo aspetto dell’Italia ai Paesi più avanzati.
Vedo un primo luogo dove questa anticipazione sarebbe integralmente possibile, con effetti dirompenti, negli enti locali – Comuni e Province – alla cui testa stia un sindaco o presidente che crede nel valore della trasparenza totale. Così, per esempio, ho salutato con grande soddisfazione il fatto che Matteo Renzi abbia inserito nel proprio programma per le primarie del centrosinistra un capitoletto sull’introduzione del Freedom of Information Act nel nostro Paese; ma ho anche osservato che Renzi è oggi sindaco di una grande città italiana; e che, se crede davvero in questo principio, nulla gli impedisce di farlo applicare in modo totale e rigoroso nell’amministrazione municipale di cui egli è il capo.
Sono anche convinto che solo l’applicazione rigorosa del principio di trasparenza totale possa testimoniare la volontà dei partiti di voltar pagina in modo radicale rispetto alle malversazioni di cui abbiamo purtroppo visto negli ultimi mesi e ancora in questi ultimi giorni numerose tragiche manifestazioni, in tutto l’arco delle forze politiche rappresentate in Parlamento. Per questo mi sono battuto affinché il gruppo parlamentare a cui appartengo adottasse fin d’ora la full disclosure come principio ispiratore di tutta la propria amministrazione; una delibera in questo senso è stata effettivamente adottata dalla Presidenza del gruppo dei senatori democratici nel luglio scorso, ma a tutt’oggi non ha ancora incominciato a essere messa in pratica: spero che l’attuazione non tardi. Ma penso che tutti i partiti dovrebbero sentire la necessità vitale – prima ancora che il dovere morale – di incominciare immediatamente ad applicare questo principio, se vogliono recuperare la fiducia di una parte almeno del loro elettorato. E invece si assiste alla ridicola discussione circa la certificazione dei bilanci dei gruppi parlamentari: come se il problema fosse quello di confermare la solidità di quei bilanci (chi mai dubita della solvibilità di questi soggetti?), e non quello della trasparenza, della possibilità di controllo da parte dell’opinione pubblica su ogni voci di spesa di quel denaro, che è pubblico all’origine e resta sostanzialmente tale quando è usato per far funzionare un ente di rilevanza costituzionale, quali sono i partiti e i loro gruppi parlamentari. Occorrerebbe che l’opinione pubblica esigesse fin d’ora, con grande forza, l’applicazione di questo principio da parte dei partiti e gruppi parlamentari, così forzando anche il legislatore a disporre nello stesso senso in sede di riforma del finanziamento pubblico della politica.
3. Correggere gli eccessi e le distorsioni della cultura della privacy. – Infine, occorre che gli studiosi del diritto e gli opinionisti incomincino a sottoporre a una revisione attenta e profonda l’intera costruzione giurisprudenziale che è venuta formandosi, soprattutto per opera dell’Autorità per la protezione dei dati personali, intorno alla nozione di diritto alla riservatezza e alle sue implicazioni in materia di conoscibilità e circolazione dei dati. Ho proposto poc’anzi alcuni esempi dell’uso indebito che del principio di protezione della privacy si è progressivamente fatto nell’ultimo ventennio per evitare la trasparenza totale delle amministrazioni e impedire la circolazione di dati che nulla hanno a che fare con la vita privata delle persone. Dal principio costituzionale di protezione della persona umana si è voluto dedurre una regola di inconoscibilità dei dati inerenti alla vita delle persone, che – secondo i suoi sostenitori – dovrebbe essere considerata come regola generale, suscettibile soltanto di eccezioni ben delimitate disposte da norme legislative specifiche. Questa costruzione viene, così, utilizzata di volta in volta per affermare la non conoscibilità delle valutazioni dell’attività didattica e di ricerca dei singoli professori universitari, la non utilizzabilità dei dati di cui le scuole dispongono sulle carriere scolastiche degli studenti, o dei dati di cui dispongono le amministrazioni giudiziarie sull’attività dei singoli magistrati nell’esercizio della loro funzione, e così via. Siamo arrivati all’assurdo per cui, in nome della privacy (qui utilizzata per coprire la pigrizia degli addetti), la quasi totalità degli Istituti scolastici rifiuta di fornire informazioni sui diplomi, con i relativi voti di profitto, rilasciati ai propri ex-studenti!
Credo che il danno prodotto da questa distorsione della nozione di protezione dei dati personali per il progresso civile ed economico del nostro Paese sia molto grave. In attesa di una legge che ristabilisca l’equilibrio necessario tra diritto delle persone al riserbo e libertà di circolazione delle informazioni, e di un’autorità per la trasparenza delle amministrazioni che si occupi di difendere questo equilibrio, è indispensabile che incominciamo fin d’ora a costruire nel settore pubblico la cultura della full disclosure.
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