LA LAICITÀ DELLA POLITICA, DELLA SCIENZA, DELLA CULTURA, COSTITUISCE IL METODO DELLA COOPERAZIONE TRA CREDENTI E NON CREDENTI, BASATO SULLA PREMESSA CONDIVISA CHE IN QUESTI CAMPI NESSUNO POSSIEDE VERITÀ RIVELATE
Intervista curata dalla redazione della rivista Iustitia, organo trimestrale dell’Unione dei Giuristi Cattolici Italiani e in corso di pubblicazione sul n. 4/2012 dello stesso trimestrale – settembre 2012
RELIGIONE E POLITICA
“Il mondo della ragione e il mondo della fede – il mondo della secolarità razionale e il mondo del credo religioso – hanno bisogno l’uno dell’altro e non dovrebbero avere timore di entrare in un profondo e continuo dialogo, per il bene della nostra civiltà” (Benedetto XVI, discorso del 17 settembre 2010 a Westminster Hall). Quali sono le condizioni per realizzare il dialogo? In quali sedi?
Quello che chiamiamo “il mondo della fede” è il mondo di tutti coloro che sono sensibili al monito dell’Ecclesiaste (“tutto è fumo, fumo nel vento”, secondo la versione ceronettiana), si interrogano sul senso profondo della vita umana, non si rassegnano all’idea che il tempo, alla lunga, possa inghiottire l’infinita ricchezza delle nostre vite, riducendola a nulla. Questo interrogativo è quanto di più razionale e ragionevole si possa immaginare; ma a questo interrogativo la scienza non è in grado di dare alcuna risposta. La grande eredità biblica (che non si esaurisce nelle Scritture, ma si incarna in millenni di esperienza) una risposta invece la dà. La dà attraverso un insieme di segni che non corrisponde al linguaggio proprio delle scienze umane. Per esempio, quel “fuoco interiore” che sentono i discepoli sulla via di Emmaus (Mt., XXII, 21), indicibile con le parole umane, ma chiarissimo per loro nel suo significato: in quel momento essi colgono appieno il senso ultimo della loro vita. Segni che non richiedono la conoscenza di alcun linguaggio umano particolare, il possesso di alcun codice di comunicazione scientifica, per essere percepiti; segni suscettibili, dunque, di essere percepiti da qualsiasi persona, quale che ne sia la cultura, l’orientamento politico, la stessa religione. Coltivare l’eredità biblica è, essenzialmente, coltivare il patrimonio di esperienza plurimillenaria di apertura a quei segni; ma quei segni – come la luce del sole – sono diretti a tutti, anche a chi non li cerca, a chi non crede che esistano.
Per altro verso, da questa eredità biblica non possiamo trarre alcuna indicazione specifica per la risposta corretta ai problemi quotidiani della nostra vita, siano essi problemi di conoscenza del mondo che ci circonda, di sfruttamento delle sue risorse, o di organizzazione politica. Il “Date a Cesare quel che è di Cesare” non costituisce il precetto fondante della sola autonomia della sfera politica (nel senso dell’impossibilità di trarre dall’eredità biblica indicazioni sulla soluzione dei problemi dell’organizzazione della città terrena), ma anche dell’autonomia della scienza, della tecnica, e di ogni altro campo del lavoro umano. Su questi terreni il credente non dispone di alcuna verità rivelata che gli conferisca un vantaggio rispetto al non credente. La laicità della politica, della scienza, della cultura, costituisce dunque il metodo della cooperazione tra credenti e non credenti, basato sulla premessa condivisa che in questi campi nessuno possiede verità rivelate; il metodo che consente a tutte le persone di buona volontà di trovare un terreno comune dove mettere in comunicazione le loro coscienze ispirate a fedi e filosofie anche molto diverse, per cooperare nella ricerca delle soluzioni tecniche, politiche, legislative migliori per il bene comune. Il terreno comune viene meno se c’è qualcuno che, in quella sede (quella che va “resa a Cesare”), si presenta con la verità in tasca, già bell’e confezionata e certificata con il sigillo della conformità alla volontà di Dio: suscettibile, proprio perché rivelata, di essere imposta a tutti senza tema di errore. Questa violazione del metodo della laicità è anche, a ben vedere, un atto di prepotenza, frutto di un difetto di carità, verso gli interlocutori che non la pensano allo stesso modo.
IL RUOLO DEI CATTOLICI IN POLITICA
Troppo spesso si identifica la Chiesa con la sola gerarchia. I laici cattolici, con la coscienza formata anche dalla Dottrina sociale della Chiesa, dovrebbero saper intervenire a titolo proprio e con la propria responsabilità nel dibattito sociale e politico. Purtroppo ciò non si verifica adeguatamente e persiste una certa riluttanza dei laici cattolici ad assumere posizioni ben definite nella società e nelle istituzioni. Come superare l’impasse? Movimenti e associazioni cattoliche possono avere un ruolo attivo? Quale partecipazione dei cattolici alla vita politica?
La definizione – cui ho accennato nella risposta alla domanda precedente – della laicità come metodo fondamentale della cooperazione tra credenti e non credenti sul terreno della politica mi porta a considerare negativamente la pretesa di qualsiasi partito politico di chiamarsi “cristiano” o “cattolico” (questo secondo aggettivo, che significa “universale”, è anche semanticamente incompatibile con il sostantivo “partito”). Quella denominazione avrebbe la pretesa di indicare un fondamento biblico delle scelte politiche proprie di una parte dei cittadini, con ciò contraddicendo non soltanto il precetto del “Date a Cesare”, ma anche i numerosi passaggi della Gaudium et Spes nei quali viene riconosciuta l’autonomia legittima delle realtà terrene (§§ 36, 41, 56, 76): tutte le cose di questo mondo hanno “la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine” … “che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare”. “Leggi proprie che l’uomo gradatamente deve scoprire” significa proprio questo: che il cristiano non deve pretendere di essere in una posizione di vantaggio nei confronti del non credente nella ricerca della soluzione migliore dei problemi della città terrena.
Questo non significa che la scelta evangelica non influisca sulle scelte politiche del cristiano, o di chi aspira a essere tale. Se per caso Cesare è cristiano, questo influirà, certo, sulle sue scelte di governo, ma solo attraverso la mediazione della sua coscienza e nei modi diversi che si renderanno opportuni, a seconda del contesto politico e civile in cui egli opera. È ancora la Gaudium et Spes (§ 16) a dirci che “L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio”. Pietro Scoppola amava citare, a questo proposito, un’affermazione del Concilio Lateranense IV del 1215: “Quidquid fit contra conscientiam aedificat ad Gehennam”. Nelle materie che vanno “rese a Cesare” le scelte operative devono dunque esprimere i valori in cui crediamo attraverso la mediazione della coscienza di ciascuno di noi.
Ne consegue che il ruolo della Chiesa deve collocarsi su di un piano diverso: quello della coltivazione dell’eredità biblica, dell’educazione delle persone ad aprirsi ai segni della salvezza, cioè del senso ultimo della nostra vita. Ed è opportuno che questa azione si concreti anche in un confronto fra credenti su temi e problemi specifici propri della politica; ma il confronto tra di essi non potrà mai condurre all’individuazione della soluzione di un problema suscettibile di essere qualificata come “cristiana”: questo equivarrebbe a istituire nesso biunivoco tra verità rivelata e opzione politica, che in realtà non c’è. Sarebbe, in definitiva, una violazione del secondo comandamento: “Non nominare il nome di Dio invano”.
Un esempio: la prostituzione. La coscienza del cristiano in quanto tale non può non essere scossa da questa forma di mortificazione della dignità della persona, di mutilazione della sua sessualità. Ma la scelta della legislazione più opportuna in questa materia non si può dedurre direttamente dalla Bibbia; essa si colloca su di un piano diverso. Ci potrà dunque essere il cristiano che in coscienza ritiene più opportuno punire i clienti delle prostitute con sanzioni penali come si è fatto in Svezia, oppure con sanzioni soltanto amministrative; o quello che ritiene più opportuno non ricorrere a divieti ma limitarsi a regolamentare l’esercizio della prostituzione per limitarne il più possibile gli effetti dannosi; oppure ancora quello che ritiene preferibile l’astensione da qualsiasi intervento normativo e l’adozione di altre forme di intervento operativo per garantire assistenza, informazione e protezione alle persone più deboli coinvolte. Un altro esempio: Gesù non è venuto a dirci quale sia la legislazione giusta (“voluta da Dio”) in materia di adulterio; ci ha solo insegnato come guardare con amore, da cristiani, alla persona adultera, lasciando alla nostra coscienza, nelle diverse situazioni storiche e politiche, nei diversi contesti culturali, la scelta della norma o del comportamento pratico da adottare. In questa scelta ciascuno di questi cristiani può trovarsi in piena sintonia con altri cittadini; così come può accadere che i cristiani stessi su questo terreno politico-pratico si dividano tra loro, compiano scelte diverse.
Mutatis mutandis, i termini della questione sono gli stessi per tutte le materie, anche per quelle eticamente più sensibili: come non è possibile trarre direttamente dal Vangelo la legislazione ideale sulla prostituzione o sull’adulterio, allo stesso modo non è possibile trarla neppure in materia di suicidio, di aborto, di diritto familiare, di limiti alla ricerca biologica, o di confine tra cura dovuta del malato terminale e accanimento terapeutico. Su tutte queste materie la Chiesa deve vegliare perché ciascuno educhi e tenga ben sveglia la propria coscienza. Ma, come suo membro, le chiedo di non avere la pretesa di sostituirsi alla mia coscienza nelle scelte politiche, legislative, professionali, di fronte alla quali la vita può pormi in questi campi. Se si spinge su questo terreno, la Chiesa finisce col proporsi come un partito politico, o come una scuola accademica. Dal punto di vista dell’ordinamento statuale, ha il diritto di farlo, come qualsiasi altra libera associazione; ma sul piano evangelico mi sembra che essa rischi di peccare contro il primo comandamento là dove pretende di divinizzare – assolutizzandola una determinata soluzione politica, legislativa o tecnica; e contro il secondo comandamento dove per compiere questa operazione pone il sigillo del nome di Dio su di una scelta umana.
COSTITUZIONE E POLITICA
Nell’attuale globalizzazione degli strumenti giuridici (a presidio e a tutela dei diritti dell’uomo ma altresì degli interessi di gruppi nei confronti della generalità) e nella pluralità degli ordinamenti (nazionale, territoriale, soprannazionale, sottonazionale, universale), quale ruolo riveste una Costituzione nazionale? Quali riforme richiederebbe la Costituzione italiana per adeguarsi al contesto internazionale, salvaguardando i contrappesi fra i poteri dello Stato, attualmente sbilanciati?
La Costituzione esprime lo spirito di una nazione, il patto che unisce la stragrande maggioranza delle persone che la compongono nella fedeltà ad alcuni valori fondamentali che tutti condividono e che devono essere perseguiti da qualsiasi governo, sia pure nei modi e con gli strumenti che di volta in volta saranno scelti dalla maggioranza che lo sostiene. Per questo aspetto essenziale la Costituzione Italiana conserva intatto il suo valore. Credo che essa dovrebbe essere aggiornata nella parte relativa alla forma di governo. E su questo terreno il modello che più mi sembra adatto alle caratteristiche del nostro Paese è il modello francese (semipresidenzialismo, sistema elettorale fondato sul collegio uninominale maggioritario a doppio turno).
POLITICA ED ECONOMIA
È inevitabile che l’economia determini i contenuti e anche le forme del diritto, oppure la Costituzione, nel profilare i fattori della socialità e della socializzazione dei beni e delle attività economiche, ha ancora sufficiente forza per garantire l’incontro e la continuità fra la libertà e la solidarietà? In altri termini, fino a che punto il gioco e la potenza della libertà economica sono bilanciabili dai valori dell’uguaglianza e della giustizia distributiva?
Sono convinto che in tutti i campi dell’economia attuale il mercato perfettamente concorrenziale costituisca l’infrastruttura ideale a cui occorre tendere, per costruire su di essa una società capace di “giustizia” nel senso rawlsiano del termine. Cioè per costruire davvero una situazione di pari opportunità per tutti. Ma il mercato perfettamente concorrenziale non si trova quasi mai allo stato di natura. Anzi, esso è quanto di più lontano dal modo in cui un mercato lasciato a se stesso tende a strutturarsi: allo stato di natura dominano i monopoli, gli oligopoli, i monopsoni, le convenzioni ad excludendum, le asimmetrie informative, le disparità tra dotazioni di partenza delle persone. Costruire un’economia ispirata al modello del mercato perfettamente concorrenziale in funzione delle pari opportunità richiede misure molto sofisticate volte a prevenire e dissolvere i monopoli, combattere le asimmetrie informative, garantire equità nelle dotazioni individuali di partenza, soprattutto sul terreno dell’istruzione e formazione professionale. Oggi è questa, a mio avviso, l’idea-forza più rivoluzionaria e più “di sinistra”, se per “sinistra” intendiamo l’opzione in favore della costruzione della parità di opportunità per tutti e l’attenzione alla condizione degli ultimi.
Sono però altrettanto convinto del fatto che la coscienza cristiana di altri può portarli invece a preferire un modello di organizzazione sociale diverso, ispirato per esempio a modelli di forte interventismo statuale nell’economia (ovviamente diverso e per certi aspetti opposto rispetto a quello tendente a perseguire il modello della concorrenza perfetta), oppure a modelli di ispirazione corporativa, oppure ancora a modelli di ispirazione liberista (che, per il motivo che ho indicato poc’anzi, non coincidono affatto con il modello della concorrenza perfetta e possono tendere a ridurre drasticamente l’intervento pubblico per la garanzia delle pari opportunità). Nessuno, però, pretenda di porre sulla propria opzione un sigillo di conformità alla verità rivelata.
LA SITUAZIONE DEI PARTITI E LA PARTECIPAZIONE
È possibile che i partiti si riqualifichino divenendo effettivamente rappresentativi degli elettori che li votano? Quali possono essere gli strumenti per far funzionare, all’interno dei partiti, il metodo democratico? In che misura i «valori non negoziabili» possono trovare un consenso trasversale nei partiti?
Sui primi due punti, la mia opinione è che le elezioni primarie possano costituire uno strumento efficacissimo, se utilizzato in modo corretto, per combattere lo strapotere degli apparati di partito e l’autoconservazione dei gruppi dirigenti. Osservo in proposito come proprio in questi giorni (autunno 2012) la pratica delle primarie stia producendo una vera e propria – a mio avviso molto positiva – mutazione strutturale nel Partito democratico, accelerando notevolmente il superamento di vecchie incrostazioni culturali delle quali i dirigenti del partito non sarebbero altrimenti riusciti a liberarsi.
Nello stesso ordine di idee, un altro strumento fondamentale di rinnovamento della politica è, a mio modo di vedere, il sistema elettorale fondato sul collegio uninominale maggioritario: questo sistema pone il candidato a contatto diretto con gli elettori, perché nelle nostre elezioni politiche il collegio uninominale può annoverarne dai cinquantamila ai duecentomila (a seconda del numero dei seggi in palio) e non milioni; inoltre questo sistema aumenta la contendibilità della carica da parte dell’outsider: presentare la propria candidatura in un collegio uninominale richiede un numero di presentatori limitato e presenta un costo di campagna elettorale molto contenuto. Per altro verso, nel collegio uninominale conta molto di più la qualità della persona, rispetto alla sua bandiera ideologica o religiosa: questo favorisce la connotazione in termini di laicità (nel senso di questo termine indicato all’inizio) sia della candidatura, sia della scelta compiuta dagli elettori con il voto. Il doppio turno (oppure il “voto trasferibile” secondo il modello australiano) consente che al primo turno (o nell’espressione della “prima scelta”, nel sistema australiano) gli elettori possano far valere la loro eventuale scelta di bandiera, salvo poi convergere nel secondo turno (o con la “seconda scelta” se si adotta il sistema del “voto trasferibile”) sul candidato che ha la possibilità effettiva di conquistare la maggioranza assoluta dei voti. Certo, il sistema elettorale fondato sul collegio uninominale maggioritario può favorire il localismo; per questo motivo è necessario coniugarlo con l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, sempre con il sistema del doppio turno o con quello del voto trasferibile: l’esperienza francese mostra come questa abbia un effetto di trascinamento rilevantissimo sul voto per il Parlamento, che segue di poche settimane quella presidenziale.
Vengo infine alla terza questione posta nella domanda: quella riferita ai “valori non negoziabili” e al consenso trasversale che su di essi può determinarsi. La mia risposta su questo punto richiede una premessa, che traggo dall’insegnamento di Luigi Mengoni. I valori che connotano la cultura di una nazione si traducono in principi giuridici, che nel nostro caso sono in larga parte contenuti nella Costituzione. I principi si distinguono dalle regole per questo: che la regola ha un contenuto precettivo pratico preciso e non suscettibile di variazione finché non muta la regola stessa; il principio, invece, indica un valore che deve essere perseguito (la protezione della vita, della dignità, della salute, della sicurezza, della riservatezza delle persone, la libertà di espressione, di informazione, di movimento, ecc.) ma non indica con precisione come lo si debba perseguire: sul come, il principio lascia una più o meno ampia discrezionalità al soggetto che deve applicarlo, sia esso il legislatore ordinario o il giudice. Mentre non è concepibile che tra due regole appartenenti a uno stesso ordinamento vi sia contraddizione, perché nessuno può essere obbligato a tenere nello stesso tempo due comportamenti precisi tra loro contrastanti, è invece comune esperienza quella del contrasto tra due principi in sede di applicazione pratica: per esempio, la protezione della riservatezza personale può entrare in conflitto con la libertà di informazione; in questi casi l’applicazione dei due principi tra loro confliggenti richiede un ragionevole contemperamento tra di essi (cosa che non accade mai tra due regole, delle quali o sì applica una o si applica l’altra). Sul piano giuridico, dunque, l’applicazione dei principi è di per sé più elastica dell’applicazione delle regole. Lo stesso vale, a mio avviso per quel che riguarda il discorso morale riguardo al perseguimento dei valori: sovente accade che valori diversi debbano essere contemperati tra loro. E il contemperamento può sempre avvenire in una gamma di modi diversi più o meno ampia.
Mi scuso per la lunghezza di questa premessa; ma essa è indispensabile a sostegno della risposta alla domanda che mi viene posta. Finché la questione dei valori si pone sul piano della morale individuale, ciascuno può imporre a se stesso un determinato modo piuttosto che un altro di contemperare tra loro valori diversi nelle situazioni in cui essi confliggono tra loro. Due esempi. Se sono cronista in un teatro di guerra, la mia coscienza è libera di conciliare tra loro il principio di tutela della (mia) vita e il principio di libertà di informazione secondo i miei convincimenti, decidendo se e in quale misura mettere a rischio la mia pelle. Se, in sede di fecondazione artificiale, ho la possibilità di far crescere un embrione non portatore di malattie genetiche e uno che ne sia portatore, la mia coscienza è libera di conciliare tra loro il principio di tutela della vita e quello di tutela della salute secondo i miei convincimenti. Ma se la questione dei valori si pone sul piano dell’ordinamento civile di un Paese, o di scelte di governo in determinate situazioni, questo comporta che il legislatore, o il comandante civile o militare, o il giudice, possano trovarsi a dover operare il contemperamento tra due principi confliggenti; e contemperamento significa una gamma di possibili soluzioni, entro un limite di ragionevolezza. Ora, sia l’ordinamento civile, sia le tecniche di fecondazione artificiale, sia il servizio di informazione in un teatro di guerra, appartengono al novero di quelle “cose del mondo” che – secondo la Gaudium et Spes citata all’inizio – hanno “la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine” … “che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare”; dunque individuare la soluzione possibile nella gamma di quelle ragionevoli, sul piano giuridico come su quello amministrativo o quello medico, è questione che va affrontata secondo il metodo di laicità di cui abbiamo parlato: senza, cioè, che alcuno affronti la discussione con la pretesa di avere in tasca una verità rivelata. Nessuna delle soluzioni possibili, entro la gamma di quelle ragionevoli, può essere presentata come desumibile dalle Scritture, o da altra manifestazione di una “volontà divina”. Valga in proposito l’elogio del compromesso in politica, in realtà un’affermazione forte della laicità della politica, che l’allora cardinale Joseph Ratzinger rivolgeva nel 1981 ai politici cattolici del suo Paese: “Non è morale il moralismo dell’avventura, che tende a realizzare da sé le cose di Dio. Lo è invece la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste misure, l’opera dell’uomo. Non l’assenza di compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica”; e ancora: “la verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità”.
In conclusione, quando è in gioco l’applicazione di valori diversi e fra loro più o meno gravemente confliggenti, in una materia di ordine politico, giuridico, medico, scientifico, educativo, comunque connotata dalla “legittima autonomia” di cui parla la Gaudium et Spes, all’interno della gamma di soluzioni ragionevoli possibili la ricerca comune di quella migliore da parte delle persone di buona volontà deve avvenire senza che alcuna soluzione possa essere considerata a priori superiore alle altre. Entro questo spazio, dunque, parlare di “valori non negoziabili” allude – a mio avviso – a una pretesa confliggente con il secondo comandamento. E al tempo stesso confliggente con il principio di laicità e il valore cristiano della carità, che implica anche il mettersi sullo stesso piano, verso il prossimo dissenziente.
So, con questo, di esprimere un’opinione non condivisa da un orientamento oggi prevalente del Magistero cattolico; ma spero almeno di aver spiegato perché essa mi pare più conforme all’insegnamento del Concilio Vaticano II.
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