LA CRISI DEL COMPARTO ITALIANO DI FIAT-CHRYSLER NON TOGLIE NULLA ALLA BONTÀ DELLA SCELTA COMPIUTA DALLA MAGGIORANZA DEI LAVORATORI DI POMIGLIANO, MIRAFIORI E GRUGLIASCO NEL 2010 E DELLA SVOLTA CHE QUEGLI ACCORDI AZIENDALI HANNO PROPIZIATO NEL SISTEMA ITALIANO DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI
Intervista a cura di Nando Santonastaso, pubblicata sul quotidiano il Mattino, il 18 settembre 2012 – In argomento v. l’articolo di Alessandro Penati pubblicato su la Repubblica il 17 settembre 2012
È stato uno dei sostenitori della «rivoluzione contrattuale» della Fiat, partita nella primavera del 2010 a Pomigliano. Ma oggi che il Piano Fabbrica Italia sembra finito nel cassetto, Pietro Ichino, giuslavorista, senatore indipendente eletto nel Pd, non ha cambiato opinione.
Il mondo politico e sindacale, quasi al completo, rimprovera a Marchionne scarsa chiarezza: e lei?
Non cambierei di una virgola le opinioni espresse negli ultimi due anni sulla vicenda dei contratti aziendali di Pomigliano, Mirafiori e Grugliasco. Sia sotto il profilo giuridico, perché quelle pattuizioni erano e restano pienamente legittime, sia sotto il profilo dell’opportunità sindacale e industriale di votare ‘sì’ ai relativi referendum.
Ma è un modello che di fatto rischia di venire meno se proprio la Fiat rinuncia ai suoi investimenti.
Innanzitutto, non dimentichiamo che nel 2003, quando Marchionne ha assunto la guida del Gruppo, la Fiat era in stato fallimentare. Aggiungo, poi, che quegli accordi hanno una parte rilevante del merito della svolta nel nostro sistema delle relazioni industriali che si è concretata l’anno successivo, con l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, firmato anche dalla Cgil. Senza la vicenda Fiat, probabilmente quella svolta non ci sarebbe stata. E senza gli accordi aziendali del 2010 non ci sarebbero stati neppure gli investimenti in essi previsti; non vedo, dunque, che cosa i lavoratori interessati avrebbero guadagnato col respingere quegli accordi, come la Fiom li invitava a fare.
Ma la Cgil e la Fiom denunciavano il limite di quel piano.
È vero che il piano industriale lasciava aperti alcuni interrogativi sul futuro, ma che cosa mai avrebbero guadagnato i lavoratori e il nostro Paese dal respingerlo in limine? Oltre tutto quando quegli accordi sono stati discussi e sottoposti a referendum, non era ancora sorta la questione della esclusione della Fiom dalle rappresentanze sindacali riconosciute in azienda: esclusione che è avvenuta solo dopo la sottoscrizione, proprio in conseguenza del rifiuto di firmare da parte della stessa Fiom, in applicazione di quanto previsto dall’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori come modificato dal referendum del 1995.
Crisi di mercato a parte, secondo lei c’entra anche lo scontro giudiziario con la Fiom nella revisione dei piani Fiat per l’Italia?
Ero e resto dell’idea che la guerra senza esclusione di colpi condotta dalla Fiom contro il piano industriale della Fiat è stato un gravissimo errore, oltre che un fatto incompatibile con un sistema di relazioni industriali moderno ed efficiente. Certo non è questa guerra la causa della crisi che oggi gli stabilimenti Fiat stanno attraversando, ma altrettanto certamente essa non ha giovato né all’impresa, né ai lavoratori, né alla nostra immagine di fronte agli operatori economici di tutto il resto del mondo, come giustamente osserva Alessandro Penati sulla Repubblica di oggi [ieri – ndr.].
Difficile però convincere oggi i lavoratori che il futuro è lo stesso.
Ho ben presente l’ansia, più che giustificata, che i lavoratori della Fiat oggi provano per la crisi attuale della nostra industria automobilistica; e sono ben convinto della necessità di una politica industriale che elimini le ragioni di quest’ansia. Ma questa politica non può che consistere nell’aprire il nostro Paese agli investimenti stranieri, facendone un luogo ospitale e attraente per chi vuole insediarvi le proprie iniziative economiche; non mi sembra che a questo scopo sia di aiuto il continuare a dipingere e trattare, qui da noi, come un demonio quello stesso Sergio Marchionne che i sindacati e i lavoratori americani considerano invece un grande capitano d’industria.
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