UN DISCORSO SERIO SULLA QUESTIONE DEGLI ESODATI

ALL’ORIGINE C’E’ UNA SOTTOVALUTAZIONE DEL PROBLEMA DA PARTE DEL GOVERNO, MA OGGI LO SCONTRO SU QUESTO TERRENO E’ ESSENZIALMENTE TRA CHI VUOLE VOLTAR PAGINA RISPETTO AL VECCHIO MODO DI RISOLVERE LE CRISI OCCUPAZIONALI AZIENDALI E CHI INVECE LO DIFENDE

Articolo di Giuliano Cazzola pubblicato sul n. 7/8 del mensile Mondoperaio, agosto 2012.
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Il principale difetto della riforma delle pensioni del ministro Elsa Fornero è simmetricamente opposto a quelli comunemente rimproverati alle altre riforme succedutesi nel corso degli ultimi vent’anni. Mentre queste ultime sono state molto generose per quanto riguarda il periodo di transizione, la riforma Monti-Fornero se ne è curata troppo poco, al punto di doversi porre il problema di quanti e quali lavoratori “salvaguardare”  rispetto a regole che rischiano di lasciare senza pensione e senza altri sostegni di carattere economico, decina di migliaia di persone, ormai prossime alla quiescenza secondo le previgenti normative, ma che si sono viste spostare inopinatamente in avanti la soglia d’accesso con il decreto Salva Italia (e i correttivi del decreto Milleproproghe). Sono state quindi individuate alcune categorie di lavoratori (c.d.esodati, in mobilità, in prosecuzione volontaria, inseriti nei fondi di solidarietà e quant’altro)  a cui, in presenza di talune condizioni,  vengono preservati i vecchi requisiti. Su tali situazioni è scoppiata la solita guerra dei numeri e pertanto delle coperture finanziarie.  Fino a quando, il Governo, senza far cessare le polemiche, ha enucleato, nel numero di 65mila, i casi che già  ora hanno esaurito le forme di tutela pubbliche e private e raggiunto i previgenti limiti di quiescenza, riuscendo, così,  a far quadrare il cerchio delle coperture finanziarie, almeno nell’arco dei 24 mesi successivi all’entrata in vigore della legge. Poi, dopo la pubblicazione di una Nota dell’Inps che cifrava in oltre 390mila i casi, che nel giro dei prossimi anni, si troveranno in difficoltà (ma non sono mai stati ben chiariti i differenti criteri con cui venivano definite le platee considerate) il ministro Fornero, nel suo passaggio prima al Senato poi alla Camera, ha ammesso l’esigenza di dare copertura ad altri 55mila soggetti. Ma il tormentone esodati sembra essere scappato di mano a tutti, tanto che lo stesso Mario Monti, per ottenere l’approvazione della legge sul lavoro prima del vertice del 28-29 giugno, ha dovuto impegnare il Governo a risolvere un problema che odora di prima Repubblica e di sanatorie antiche.
. I media  – chissà mai perché ?- si sono appassionati al caso particolare dei cosiddetti esodati, tanto che questa definizione viene comunemente usata per indicare tutte le fattispecie di salvaguardati. Chi sono gli esodati? Si tratta di lavoratori che hanno accettato la proposta di dimissioni volontarie o di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, formulata dalla loro azienda (quasi sempre di grandi dimensioni), in cambio di un’extraliquidazione solitamente ragguagliata al tempo mancante all’accesso alla pensione. Poiché la riforma Fornero ha spostato in avanti i requisiti dell’età pensionabile, queste persone (insieme alle altre tipologie espressamente indicate nella legge) rischiano di avere un periodo, spesso di alcuni anni, non coperto dall’ammontare pattuito. La loro legittima preoccupazione – lo ripetiamo –  deriva dal fatto che le misure di salvaguardia (riguardanti la possibilità di andare in quiescenza con le previgenti regole)  sono finanziate,  per questo come per gli altri casi, soltanto per un biennio (per una platea inizialmente di 65mila persone). E dopo? Si chiedono in tanti.  Nessuno, però, si domanda se veramente si tratti di un’emergenza nazionale come sono riusciti a far credere gli interessati  organizzati  in rete, prima ancora che di loro si occupassero le stesse organizzazioni sindacali.
. A chi scrive è capitato di  imbattersi in un caso che meriterebbe di essere raccontato in tv. Si tratta di un ex dirigente “esodato” da una grande impresa di telefonia che, oltre al tfr spettante, ha incassato un’extra liquidazione lorda di 400mila euro e che rischia di doverseli far durare per due anni in più rispetto a quelli previsti al momento dell’uscita dal lavoro. Che questo signore abbia un problema è assolutamente evidente; che lo stesso voglia cercare di risolverlo è comprensibile. Ma possiamo considerare tale caso come se richiedesse un’assoluta priorità, senza fare alcuna distinzione con chi, magari, ha perso il lavoro in solitudine, senza incassare un euro in più del tfr? Non dimentichiamo che i dipendenti in mobilità dello stabilimento di Termini Imerese sono fuori dalle deroghe per una questione di decorrenza di alcuni giorni. Eppure, tutto viene messo su di uno stesso piano e chi ha più voce per protestare viene ascoltato in modo acritico. Si replicherà certamente che quello da me citato è un caso isolato. Proviamo, allora, a calarci nella nostra discutibile  normalità.
.  . “Poste  italiane”  – al pari di altre società pubbliche o private – sono un caposaldo della politica degli esodi, nel senso che, nel triennio 2009-2011, ha concordato circa 16.500 uscite incentivate, erogando un’extraliquidazione pro capite di circa 39mila euro lordi  (41mila per i quadri e 38,5mila per gli impiegati) per un ammontare complessivo di oltre 64 milioni di euro. Con tale operazione (in sostanza, una forma di prepensionamento a carico dell’azienda) si tendeva a coprire mediamente circa 20 mesi rispetto alla possibilità di avere accesso alla pensione. A seguito della riforma delle
pensioni del ministro Fornero risultano esservi 2,7mila esodati incappati negli effetti dell’incremento dell’età pensionabile. Ognuno di loro aveva percepito
un incentivo medio lordo  intorno ai 56mila euro allo scopo di coprire una distanza media dalla liquidazione del trattamento pensionistico di circa 38 mesi. In conseguenza della nuova normativa  si è assistito ad un raddoppio del periodo che li separa dalla pensione: fino a 78 mesi se non interviene una soluzione.
. Il caso di “Poste italiane” è emblematico di un càerto andazzo. Un’azienda interamente a capitale pubblico si avvale di procedure soft (e onerose) per
ridurre il personale in esubero (in taluni casi l’esodo del padre ha comportato l’assunzione part time del figlio). Così migliaia di persone vengono, in pratica, retribuite per anni per non lavorare, fino a quando non varcheranno la soglia della pensione. Per  2,7mila persone la copertura è stata calcolata per 38 mesi sulla base delle previgenti regole pensionistiche. Ma tale impianto è stato rimesso in discussione dallo scivolone in avanti – e di parecchio – dell’agognato approdo pensionistico. Così, per risolvere il loro problema, questi nostri concittadini dovrebbero trovare il modo di sbarcare il lunario, complessivamente per 78 mesi. E’ politicamente corretto intravedere in tutto quanto abbiamo sommariamente descritto un massiccio spreco di risorse umane e materiali, da “Paese della cuccagna” che da un certo momento in poi non riesce più ad esserlo, ma non si rassegna ? Capisco benissimo che le mie considerazioni non saranno popolari; ma è proprio tanto sbagliato risolvere questo problema alle diverse scadenze in cui si presenterà ? Ci sarà pure, al fondo di tutto, anche un po’ di responsabilità personale. Oppure continueremo sempre a caricare sullo Stato le conseguenze di scelte anche nostre ? Non sembra avere molto senso, quindi, impegnare oggi (in un Paese che riesce a destinare, a fatica, appena un miliardo allo sviluppo economico) alcuni  miliardi (più o meno un ammontare compreso
tra i 5 e i 6 miliardi che si aggiungerebbero a quelli di medesimo importo già stanziati)  per assicurare il pensionamento, secondo le previgenti regole, per quanti si presenterà il problema a partire dal 2015, visto che fino al 2014 dovrebbero bastare gli interventi predisposti dal Governo. Il problema, però, nasce dall’impianto stesso della riforma, che non si è fatta adeguatamente carico dei problemi della transizione. E questo errore rischia di essere fatale, perché ha ridato fiato all’Italia che ha sempre risolto tutti i problemi attraverso l’erogazione di una pensione. Il ministro Fornero ha sicuramente ragione a voler  interrompere una prassi che, in un modo o nell’altro, infilava i lavoratori anziani in un circuito assistenziale che li accompagnava, prima ancora di aver compiuto 60 anni, attraverso processi  di esubero fino alla pensione anticipata grazie allo scivolo garantito dagli ammortizzatori sociali. Ma è proprio la mancanza di gradualità con cui è stato promosso questo momento di discontinuità che rischia di travolgere la  riforma ridando voce all’Italia che considera la pensione come una via d’uscita per ogni difficoltà. Elsa Fornero si è fatta sorprendere da quella coalizione di interessi che da sempre ha trovato rifugio nei meandri del sistema pensionistico e che oggi è in grado di corredare una battaglia nel segno della conservazione con elementi di indubbia ragionevolezza, perché nessuno può accettare di dover cambiare tanto radicalmente e all’improvviso percorsi di vita legittimamente attesi.  Aver voluto resistere su di una linea insostenibile porterà, prima o poi, a rivedere la stessa riforma, come si fece del 2007 con lo <scalone> di tre anni in un solo colpo della legge Maroni, i cui effetti erano attesi nel 2008. Un’operazione che è costata al sistema ben 7,5 miliardi in un decennio. Anche questa volta prima o poi qualcuno troverà  assurdo mantenere inalterata la facciata di un regime pensionistico tra i più severi in Europa e nello stesso tempo essere assillati dalle deroghe, per anni e per decine di migliaia di persone. E riterrà più utile  ripiegare, nell’impianto stesso della riforma, su percorsi più graduali e flessibili. Arrendendosi all’Italia di ieri.

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