CHI, COME L’ECONOMISTA SERGE LATOUCHE, PREDICA LA RIDUZIONE DELLA CAPACITÀ PRODUTTIVA DI UNA NAZIONE NON CONSIDERA I COSTI SOCIALI ALTISSIMI DI QUESTA OPZIONE: A PAGARLI SAREBBE LA PARTE PIU DEBOLE DELLA SOCIETA’ CIVILE
Fondo di Irene Tinaglisu la Stampa del 22 agosto 2012 – Sull’utopia regressiva propugnata dallo studioso francese v. anche il mio editoriale telegrafico per la Nwsl n. 212…
Molti governi europei oggi cercano ricette per stimolare la crescita: ma è davvero necessario tornare a crescere? Secondo alcuni no. Le teorie anti-crescita, che affondano le loro radici nei movimenti anti-industriali dell’Ottocento e che sono state riportate in auge dall’economista francese Serge Latouche, stanno ispirando molte persone
ad invocare una sana decrescita. I sostenitori di queste tesi affermano che ripensando il nostro sistema dei consumi sia possibile vivere felici senza che aumenti il Pil.
Quello che dovremmo fare, come ci ricorda anche Guido Ceronetti nel suo articolo su La Stampa di domenica scorsa, è separare i bisogni essenziali da quelli che non lo sono e i beni prodotti per soddisfare bisogni reali da quelli fatti solo per generare profitto, ovvero i «commerci». Se le persone, per esempio, anziché produrre beni inutili volti al
commercio e al profitto fine a se stesso, producessero semplicemente quello che serve loro per sostentarsi, sarebbero meno dipendenti dai cicli economici, dai debiti e dall’ansia di accumulare ricchezza. E i Paesi starebbero in piedi senza bisogno di far crescere il Pil a tutti i costi.
Questa prospettiva è molto affascinante e per certi versi romantica, se non fosse che la distinzione tra beni volti alla soddisfazione di bisogni cosiddetti essenziali e beni commerciali non è così netta come si possa pensare (senza contare l’inquietante scenario in cui qualcuno decide cosa è essenziale per la gente e cosa non lo è). A meno di ridurre i beni essenziali al mero consumo alimentare, molti bisogni fondamentali non si soddisfano solo con l’autosussistenza. Se per beni essenziali si considerano infatti anche l’istruzione, le scuole e la sanità pubblica, i vaccini e le medicine, i trasporti e così via, allora tutto cambia.
Perché tutti questi beni e servizi non si mantengono con l’economia di sussistenza, soprattutto in Paesi, come l’Italia, che non hanno materie prime da esportare. Si costruiscono invece con i proventi delle attività commerciali e industriali e le relative entrate fiscali; risorse che consentono, appunto, di finanziare servizi pubblici e di supportare ricerca scientifica, innovazione e progresso. Deve essere chiaro, quindi, che decrescere non significa solo diminuire le ricchezze individuali e fare a meno di qualche accessorio come il cellulare o l’iPad, ma significa allo stesso tempo diminuire le risorse che lo Stato ha a disposizione per tutte le azioni di redistribuzione, assistenza e investimento per il futuro.
È chiaro: la decrescita non danneggia tutti nello stesso modo e quindi non spaventa tutti nello stesso modo. La scarsa crescita non è mai stata un gran danno per l’aristocrazia
terriera o quelle classi che possono contare su rendite fisse e sostituire i servizi pubblici con servizi privati, ma è un disastro per gli operai, i commercianti e la classe media, che più delle altre hanno bisogno di servizi pubblici.
Certo: possiamo dire a tutte queste persone che tornino a coltivare la terra e a badare da soli ai propri figli, insegnandogli a leggere a casa e curando le loro malattie con le erbe del giardino. In fondo era così fino a non molto tempo fa, prima dell’industrializzazione e delle rivoluzioni tecnologiche dell’ultimo secolo e mezzo. Ma erano altri tempi, difficilmente invidiabili: tempi in cui davvero c’era poco altro a cui ambire al di là della sussistenza, in cui il bisogno di crescere, studiare e viaggiare era privilegio di pochi, e in cui i progressi della medicina e della scienza erano scarsi e lenti.
Basta pensare che l’aspettativa di vita è rimasta quasi invariata dai tempi dei Romani fino agli inizi del Novecento. E’ stato con l’aumento dei commerci, dei grandi progressi conomici, industriali e scientifici dell’ultimo secolo, che si è più che raddoppiata.
Anche la storia recente ci offre numerosi esempi del ruolo della crescita. È stato grazie all’apertura e alla crescita economica che la Cina ha potuto, nei soli vent’anni tra il 1981 e il 2001, dimezzare la povertà nel Paese. E’ stato con la crescita economica che il Brasile si è potuto permettere programmi sociali che hanno strappato all’emarginazione milioni di amiglie. E persino nel miracolo cubano degli Anni Sessanta l’alfabetizzazione e le infrastrutture sanitarie furono sostenute da alti tassi di crescita. Una crescita fittizia, pompata dagli aiuti della Russia, e che infatti crollò miseramente alla fine degli Anni Ottanta. Tra il 1989 e il 1993 il Pil subì una contrazione del 35%. Ma la decrescita non fu affatto felice. La crisi di fame e povertà che colpì la popolazione cubana fu atroce. Solo con l’apertura al turismo, ai capitali esteri e ad alcune forme di commercio e di piccole iniziative imprenditoriali (e con una forte repressione del dissenso che nel frattempo andava aumentando), Cuba è riuscita a resistere finché non è arrivata la cooperazione con il Venezuela
di Chavez e poi con la Cina.
Perché pure i Paesi d’ispirazione socialista, forse anche più degli altri, si sono accorti dell’importanza della crescita economica. Come disse Deng Xiaoping: «La povertà non è socialismo». Quello su cui molti Paesi dovrebbero riflettere oggi, e la vera sfida che hanno davanti, non è tanto come eliminare o ridurre la crescita, ma su quali basi costruirla e con quali criteri utilizzarla e ridistribuirla. Perché non tutte le crescite sono egualmente sostenibili nel tempo, e on tutte sono gestite e distribuite nello stesso modo. Questo è il vero nodo attorno al quale si gioca il nostro futuro.
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