A TORTO O A RAGIONE, E’ DIFFUSA LA CONVINZIONE CHE LE FORZE POLITICHE TRA LE QUALI SI DISTRIBUIRANNO I VOTI DEGLI ITALIANI SIANO COSTITUTIVAMENTE INCAPACI DI PROSEGUIRE SULLA LINEA DEL RISANAMENTO STRUTTURALE DEL PAESE – OCCORRE COSTRINGERLE A INDICARE CHIARAMENTE, SU CIASCUN TEMA CRUCIALE, IL CONTENUTO PRECISO DEL RISPETTIVO PROGRAMMA
Articolo di Angelo Panebianco pubblicato sul Corriere della Sera il 15 luglio 2012
Viviamo in una fase ove è costante la tensione fra la democrazia e l’Europa, fra gli orientamenti degli elettorati e l’esigenza di salvaguardare il progetto comune europeo. È una tensione che a volte si riesce a tenere sotto controllo e a volte degenera in conflitto aperto. La frattura, che attraversa l’eurozona, fra le democrazie nordiche e le democrazie mediterranee, ne è espressione. Per tenere a bada i mercati, rassicurare le opinioni pubbliche delle democrazie nordiche, e salvare la nostra appartenenza al club dell’euro, l’Italia si è inventata una misura-tampone, una soluzione d’emergenza: il governo detto tecnico. Ma la clessidra è spietata, il conto alla rovescia non può essere fermato. Per quanto ciò possa apparire paradossale (e «politicamente scorretto»), quasi tutti, in Italia e fuori, temono il momento in cui la «democrazia» si riprenderà le sue prerogative, il momento in cui, fra meno di un anno, gli elettori si pronunceranno. Perché c’è in giro tanta paura della democrazia? Perché, a torto o a ragione, è diffusa la convinzione che le forze politiche fra le quali si distribuiranno i voti degli italiani, siano tutte inadeguate, costitutivamente incapaci di perseverare nelle politiche di risanamento che la crisi ha reso necessarie.
A parole, i partiti che oggi sostengono il governo Monti promettono che non disferanno ciò che esso ha iniziato. Ma perché dovremmo crederci? Perché dovremmo credere che la destra, se tornasse al governo, non si sbarazzerebbe subito della spending review per ricominciare con la gestione della spesa pubblica che l’ha sempre caratterizzata? E perché dovremmo credere alla sinistra quando dice che non abbandonerà la strada aperta dal governo Monti, essendo un fatto che quella strada è invisa ai sindacati ed è impensabile che la sinistra faccia alcunché senza disporre del placet sindacale?
Che si parli di possibile «grande coalizione» (ossia, di un governo Monti bis) dopo le elezioni, la dice lunga su quanto siano consapevoli delle proprie inadeguatezze le stesse forze politiche.
Come se ne esce? Una strada ci sarebbe. Difficilissima ed estranea alle nostre tradizioni. Per la prima volta, da quando esiste la democrazia in Italia, le forze politiche che contano dovrebbero applicare le istruzioni contenute nel «Manuale del Bravo Democratico». Il manuale del bravo democratico dice che le campagne elettorali non si conducono a colpi di promesse generiche ma di progetti specifici. Un progetto specifico è tale se chiarisce chi verrà premiato e chi verrà penalizzato. È tale se viene applaudito da alcuni e fa imbufalire altri.
Esempi possibili di progetti specifici che una forza politica dovrebbe così annunciare agli elettori: se vinciamo le elezioni, entro trenta giorni dall’insediamento del governo, faremo tagli alla spesa pubblica per il valore di X nei comparti A, B, C, D, e ridurremo per l’ammontare corrispondente la pressione fiscale. O ancora: se vinciamo le elezioni, fatti salvi i servizi essenziali, dimezzeremo i trasferimenti dal Nord al Sud accompagnando il provvedimento con l’azzeramento del prelievo fiscale sulle imprese meridionali per tot numero di anni.
Su tutti i principali temi di interesse pubblico i partiti dovrebbero proporre progetti. Ad esempio, in materia di Sanità, che fine hanno fatto i costi standard? O, nel caso della scuola, chi se la sente di proporre un dettagliato piano (il contrario del bla bla generico) per iniettare meritocrazia? Legare l’ammontare degli stipendi alla qualità dell’insegnamento è tecnicamente possibile, se esiste la volontà politica.
Se una campagna elettorale venisse così condotta, si tratterebbe, in un certo senso, di una vittoria postuma di Ugo La Malfa (l’enfasi sui contenuti a scapito degli schieramenti era l’essenza della pedagogia politica di La Malfa). La «lamalfizzazione» delle forze politiche comporterebbe uno strappo radicale rispetto alla tradizione. In Italia, da sempre, le campagne elettorali vengono condotte combinando prese di posizione ideologiche contro il «nemico» e promesse generiche. L’ideologia (i vari «ismi»: l’anticomunismo, l’antiberlusconismo, eccetera) serve a compattare «i nostri», le promesse generiche, non scontentando nessuno, servono per sommare clientela a clientela. Passare dal metodo «ideologia + promesse generiche» al metodo «progetti specifici» sarebbe una rivoluzione: obbligherebbe, per esempio, a radicali cambiamenti di stile politico e comunicativo.
Per istinto, per calcolo, per tradizione, e anche per capacità personali, i politici si preparano a fare la solita campagna all’italiana. Ma questa volta, forse, sbagliano i conti. Il discredito della politica, documentato dai sondaggi, ha superato il livello di guardia. Cambiare radicalmente stile comunicativo potrebbe essere l’unica possibile via d’uscita. E, inoltre, avrebbe un effetto rassicurante per il mondo che ci scruta dall’esterno.
Ciò che si perderebbe presentando progetti in grado di far perdere voti antagonizzando potenziali clientele elettorali si guadagnerebbe in immagine di serietà e rigore. Ed è proprio la mancanza di serietà e rigore ciò che oggi tutti rimproverano alla politica. Senza contare il fatto che una campagna elettorale condotta a colpi di progetti specifici contrapposti consentirebbe agli elettori di capire quali siano le forze più credibili come continuatrici della politica di risanamento.
La crisi mondiale, come ci viene ripetuto ogni giorno, ci obbliga, se vogliamo sopravvivere, a cambiare molte delle nostre abitudini. È arrivato il momento in cui anche alla politica conviene cambiare le sue.
h