PERCHÉ SAREBBE GRAVE DIFFERIRE I NUOVI AMMORTIZZATORI SOCIALI

L’ACCORDO TRA RESPONSABILI PD E PDL PER IL LAVORO ALLA CAMERA AVREBBE L’EFFETTO DI PROLUNGARE UNA SITUAZIONE CHE PENALIZZA DUE TERZI DEI LAVORATORI, PER CONSERVARE UN TRATTAMENTO PRIVILEGIATO MA MOLTO MAL CONGEGNATO PER I LAVORATORI DEL SETTORE INDUSTRIALE

Intervista a cura di Alessandro Giorgiutti, pubblicata dal quotidiano Libero il 13 luglio 2012

Senatore Pietro Ichino, come cambierebbe il volto della riforma del lavoro con l’approvazione delle proposte di modifica presentate dalla maggioranza in Parlamento?
Distinguerei tra il rinvio dell’entrata in vigore della riforma degli ammortizzatori sociali e le altre nove modifiche. Quel rinvio avrebbe il significato di una presa di distanza del legislatore dalla logica complessiva della riforma, se non addirittura di un preannuncio di revoca della scelta compiuta in materia di riforma degli ammortizzatori sociali. Sarebbe davvero una cosa grave e preoccupante.

Perché grave e preoccupante?
Perché significherebbe il mantenimento in vita di un sistema che penalizza due terzi dei lavoratori dipendenti italiani, per favorire soltanto i dipendenti delle aziende industriali. A meno che l’idea sottostante a questo rinvio sia quella di mantenere in vita la “cassa integrazione in deroga”, cioè quella di cui negli ultimi anni hanno goduto i “non industriali”, per la quale “paga Pantalone”; ma allora occorrerebbe chiarire dove Pantalone intende prendere il denaro necessario.

Scusi, ma il cavallo di battaglia del Pd è proprio questo: il rinvio dell’Aspi di un anno. In piena crisi, si dice, meglio non togliere ai lavoratori la protezione assicurata dall’indennità di mobilità.
Direi piuttosto che questo è il cavallo di battaglia di Confindustria e sindacati, cui una parte del Pd e una parte del PdL hanno dato acriticamente il proprio consenso. Vorrei che i sostenitori di questo rinvio chiarissero perché mai i problemi congiunturali riguarderebbero soltanto i lavoratori dell’industria, e non tutti gli altri, ai quali l’Aspi garantisce un aumento e un allungamento del trattamento di disoccupazione, uguale per tutti. Senza contare che il lungo trattamento di “mobilità” oggi a disposizione dei lavoratori dell’industria è molto mal congegnato: di fatto in quel modo non viene ricollocato mai nessuno.

Nella riforma si prevede che, in sede di conciliazione obbligatoria, le parti possano concordare un percorso di ricollocazione professionale per il lavoratore rimasto senza impiego. Può essere una leva efficace o, in mancanza di obblighi o  incentivi, questa possibilità rimarrà sulla carta?
Qui, se imprese e sindacati – e magari anche la Regione – faranno la loro parte, si apre la possibilità di sperimentare novità molto interessanti. Si può pensare, per esempio, a un modo nuovo di affrontare le crisi occupazionali aziendali, basato sull’attivazione di servizi di outplacement e di un trattamento complementare di disoccupazione a carico dell’impresa, che renda possibile realizzare anche in casa nostra quel modello di flexsecurity che sta funzionando così bene, anche in periodo di crisi, nei Paesi scandinavi.

Di politiche attive si occupava la sua proposta di legge come anche il disegno di legge Treu-Cazzola. Secondo lei ci potrebbe essere modo di riprendere queste proposte nel corso della legislatura?
Non mi sembra realistico pensare che negli otto mesi di lavoro rimasti a questo Parlamento si possa compiere l’iter parlamentare di provvedimenti legislativi così impegnativi, dei quali non si è neppure incominciato l’esame nei quattro anni passati. È interessante, però, osservare che, se sindacati e imprenditori volessero esercitare le prerogative negoziali di cui ora dispongono, nuovi modelli di disciplina del rapporto di lavoro e della sua cessazione potrebbero essere introdotti mediante la contrattazione aziendale, meglio se sulla base di guidelines contrattate al livello centrale.

Colpisce la distanza tra governo e parti sociali, sulla riforma del lavoro e non solo. Al di là delle polemiche di giornata, un osservatore come Giuseppe De Rita ha colto un divario oggettivo tra la prospettiva “verticale” di un governo tecnico che ha il consenso delle istituzioni internazionali e interloquisce in modo privilegiato con alcuni importanti centri nazionali “a forte tecnicalità” (Banca d’Italia, Cdp…) e la realtà “orizzontale” di enti locali, imprese, sindacati. Si è molto discusso sulla prassi della concertazione: se sia da rottamare o da aggiornare. Alcuni fanno notare che in Germania i sindacati hanno un ruolo decisivo, mentre in Francia recentemente Hollande ha proposto di scrivere nella Costituzione l’obbligo di dialogare con le parti sociali prima di legiferare su temi economico-sociali. Come dovrà riformularsi, secondo lei, il ruolo delle associazioni di categoria e quale dovrà essere il rapporto tra parti sociali, governo, Parlamento?
In questa materia non mi sembra possibile individuare regole generali, tanto meno regole costituzionali. Il fatto è che la concertazione può essere molto utile, può dare una marcia in più al Paese, come è accaduto per esempio in Italia nei primi anni ’90; ma può funzionare soltanto a una condizione: che tra Governo e parti sociali ci sia una sostanziale concordanza – quella che per lo più si verifica in Germania – circa gli obiettivi da raggiungere e i vincoli da rispettare. Dove questa concordanza non c’è, come accade oggi nel nostro Paese, il metodo della concertazione diventa un freno, significa attribuire ai rappresentanti di segmenti determinati della società civile un sostanziale potere di veto sulle scelte del Governo nazionale.

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