NON È L’OPERAZIONE CHE SI COMPIE UNA TANTUM, PER SUPERARE UNA CRISI CON UNA TIRATA DI CINGHIA, MA UN METODO DI GOVERNO DA APPLICARE SEMPRE, GIORNO PER GIORNO, SENZA MAI DARE PER SCONTATO CHE CIÒ CHE SI è STANZIATO UNA VOLTA DEBBA RIMANERE STANZIATO PER VIRTÙ PROPRIA
Articolo di Enrico Morando, capogruppo Pd alla Commissione Bilancio del Senato, pubblicato su Europa il 7 luglio 2012
In Italia, le pubbliche amministrazioni spendono un pò più del 50% del Prodotto, e ricavano le risorse per finanziarsi attraverso una pressione fiscale che ha ormai raggiunto il 45% del PIL.
Cosa giustifica una spesa pubblica così elevata, che trascina inesorabilmente al rialzo un prelievo fiscale ormai al top tra i più grandi paesi europei? Noi democratici, per questa domanda, abbiamo una risposta precisa e convincente: lo Stato deve essere molto presente nell’economia e nella società, perchè senza il suo intervento l’ingiustizia sociale, cioè la disuguaglianza creata dal mercato, sarebbe troppo elevata; e lo stesso livello della crescita economica avrebbe a soffrirne, perchè una società dove aumentano emarginazione ed esclusione deprime le aspettative sul futuro. E un sistema di aspettative stabilmente depresso è precondizione certa di stagnazione e recessione economica.
È una buona risposta, per chi guarda alla società e ai suoi problemi dal punto di vista del nostro sistema di valori. Ma è una risposta che deve fare i conti con la realtà, se vuole risultare convincente per i più. Quella realtà che ci dice che la disuguaglianza – misurata dall’indice di Gini – si è venuta approfondendo, negli ultimi venti anni, assieme al crescere della spesa pubblica in rapporto al PIL. Mentre, dai primi anni ’90, il PIL cresce meno della media dell’area Euro. Dunque, giustifichiamo alta spesa (e alta pressione fiscale) in nome della eguaglianza e della crescita, ma i risultati che otteniamo sono del tutto contraddittori.
Ecco a cosa serve la revisione integrale della spesa pubblica, cui il Governo Monti sta finalmente cominciando a lavorare: a capire dove spendiamo troppo e male, per far sì che venga realizzato quel cambiamento nella struttura stessa della pubblica amministrazione che ci consente di ottenere migliori prestazioni (più eguaglianza e più efficienza economica) con minori risorse (e, quindi, con meno tasse, specie sul lavoro).
Non è dunque per un esigenza che nasce fuori dai nostri valori e dagli interessi che vogliamo affermare che dobbiamo accingerci a questo lavoro, che sarà lungo (le rigidità si superano solo con la programmazione di lungo periodo), duro (l’enorme massa di spesa pubblica crea privilegi grandi e piccoli, che reagiranno), diffuso sul territorio (nessun segmento della Pubblica amministrazione può chiamarsi fuori, dal più piccolo comune al più grande ministero). Ma è l’unico lavoro riformista che può consegnarci un’altra Italia: più giusta, perchè l’intervento del pubblico va a concentrarsi sui rischi più gravi di esclusione (pochi sanno che alla scuola dedicavamo il 23,1% della spesa pubblica nel 1990 e che siamo scesi al 17,7% nel 2009, senza che nessuno l’abbiamo mai formalmente “deciso”); e più dinamica, perchè un elevato livello di efficienza della Pubblica Amministrazione – dalla giustizia alle infrastrutture a rete – è una componente essenziale della crescita della Produttività Totale dei Fattori.
Se la spending review è questo, non ha senso affrontarla col freno a mano tirato: “va bene facciamola. Ma in questo settore sì, nell’altro no”. Non stiamo addentrandoci in partibus infidelium. Se siamo riformisti, questo è il nostro terreno di azione.
Del resto, non è un caso che il sistema di regole essenziali per procedere sulla strada della revisione integrale della spesa sia stato introdotto nella legislazione italiana dal centro-sinistra: prima, grazie all’azione tanto efficace quanto poco compresa del ministro Tommaso Padoa Schioppa; e poi con un emendamento dei senatori PD alla legge di conversione del Decreto- manovra di Tremonti dell’agosto 2011. Altro che inviti alla cautela, quindi: se una critica se può fare al Governo Monti, è semmai quella di non essersi immediatamente impegnato per utilizzare da subito le potenzialità insite in quest’ultima norma. Un’esitazione che è stata immediatamente utilizzata da chi aveva ed ha interesse a dipingerlo come “governo delle tasse”.
Ciò che deve risultare chiaro, è che realizzare la spending review secondo le metodologie che veniamo da anni proponendo, e realizzare tagli lineari delle spese, possono avere in comune solo il risultato finale: una significativa riduzione della spesa totale. Quanto al resto, sono agli antipodi: l’una è fondata sul bilancio a base zero (ogni euro deve essere rigiustificato dall’inizio), gli altri sulla logica meramente incrementale della decisione di bilancio (l’anno prossimo si spende quello che si è speso l’anno scorso, ridotto di x). L’una usa la comparazione tra ogni singolo, piccolo segmento della Pubblica Amministrazione e gli altri simili – a livello nazionale ed europeo -, ne ricava degli obiettivi in termini di prestazioni e costi (sì, anche standard), e assegna premi e penalizzazioni conseguenti. Gli altri definiscono obiettivi di risparmio a prescindere dai risultati; così premiando i peggiori (quelli che hanno grasso da smaltire, perchè hanno sprecato molto nel passato) e penalizzando i migliori (quelli che lavorano già sull’osso, perchè hanno lavorato bene).
Né si deve pensare che una buona spendig review abbia bisogno di troppo tempo e sia troppo complessa. Poiché essa è un processo ininterrotto di valutazione, comparazione e miglioramento, è vero che non finisce mai. Ma è altrettanto vero che può dare risultati anche subito, crescenti nel tempo. Se l’opera di razionalizzazione ed efficientamento dell’acquisto di beni e servizi può assicurare risparmi (anche riducendo gli spazi in cui nuotano corrotti e corruttori) per qualche miliardo già nel 2012, così da consentirci di non far scattare l’aumento dell’IVA dal 1° ottobre, la realizzazione di un vero e proprio piano industriale della Pubblica Amministrazione può consegnarci, a metà 2013, il concreto avvio di vere e proprio riforme strutturali. Un esempio basterà per tutti: perchè organizzare la presenza dello stato sul territorio sulla dimensione delle province, quando è provato – al di là di ogni ragionevole dubbio – che le “fabbriche ” dello stato sarebbero ben più efficienti, e costerebbero meno, se fossero organizzate alla dimensione ottimale in rapporto alle prestazioni che devono fornire?
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