UN RICERCATORE DI LAW & ECONOMICS INTERVIENE NEL DIBATTITO SUSCITATO DALL’INTERVISTA DI ELSA FORNERO AL WALL STREET JOURNAL DELLA SETTIMANA SCORSA
Intervento di Matteo Rizzolli, Assistant Professor di Law & Economics nella Free University di Bolzano, 2 luglio 2012 – In argomento v. anche il mio editoriale dello stesso giorno per la Nwsl n. 207, Tre modi di intendere il diritto al lavoro, nonché un mio scambio di idee con un lettore dissenziente – A questo intervento di Matteo Rizzolli si riferisce l’intervento di duro dissenso sul sito IMille.org riportato con una mia risposta anche su questo sito
Le dichiarazioni del ministro Fornero sul diritto al lavoro hanno dato fuoco alle paglie delle polemiche estive. Eppure che il lavoro non sia un diritto è un’affermazione abbastanza scontata. Si chieda ad un disoccupato, uno che ha appena terminato un colloquio di lavoro con un “no, grazie”, se può esercitare il suo diritto al lavoro, magari entrando in tribunale e denunciando il (non)datore di lavoro (oppure confindustria o lo stato stesso).
Se le parole hanno ancora un senso, il diritto è una posizione giuridica precisa. Ce l’ha insegnato Hohfeld che un diritto, per essere tale, deve essere correlato ad un dovere. Ovvero, se la legge afferma l’esistenza di un diritto in capo a qualcuno, necessariamente attribuisce a qualche altro soggetto il dovere di garantire quel diritto, pena la sanzione dell’autorità pubblica. È del tutto ovvio che non esiste quindi alcun diritto al lavoro in nessun paese o società moderna. Nemmeno nelle versioni del comunismo più spinto.
Piuttosto, usando sempre gli strumenti di analisi di Hohfeld, il lavoro è una libertà (ovvero l’opposto giuridico di un dovere) a cui corrisponde un’impossibilità ad interferire con questa libertà da parte di altri. Se un soggetto decide liberamente di lavorare in proprio, o cercare lavoro presso un’impresa o altrove, nessuno può impedirglielo. Oggi le leggi razziali del fascismo che vietavano agli ebrei di poter lavorare sarebbero quindi incostituzionali – oltre che per altre mille buone ragioni – perché impedirebbero loro di esercitare la libertà di lavorare.
Il lavoro non deve essere un diritto. La scienza economica ci insegna le buone ragioni per le quali il lavoro non è un diritto ma una libertà. Innanzitutto, dal punto di vista macro, è molto difficile creare le condizioni per cui tutta l’offerta di lavoro sia soddisfatta da una domanda pari o superiore nel corso del ciclo economico, almeno di non andare ad intaccare altri “diritti” quali un livello equo di salario, la sicurezza e cosi via. La teoria dei salari di efficienza ci insegna che le imprese hanno peraltro buone ragioni per tenere i salari ad un livello superiore a quello che garantirebbe la piena occupazione. Se non vi sono abbastanza posti di lavoro, chi e come si dovrebbe assumere il dovere di offrirli? Se sussistesse questo dovere ci troveremmo al paradosso che le imprese e lo stesso stato, obbligati ad assumere, sarebbero costretti alla bancarotta, e quindi al licenziamento, proprio per soddisfare il diritto al lavoro.
Dal punto di vista micro inoltre il rapporto tra un datore di lavoro ed un lavoratore è regolato da un contratto che stabilisce per il dipendente determinati diritti (quali quello di ricevere uno stipendio, di avere le ferie, di essere sicuro sul posto di lavoro, ecc.) ed anche determinati doveri (quali quello di svolgere la mansione affidata con diligenza ed impegno). Se una delle due parti non rispetta i termini del contratto, il rimedio principale passa dallo scioglimento del contratto stesso (e dall’eventuale richiesta di danni). Il ricorso alla via giudiziale è l’altra possibilità: il lavoratore vi fa spesso ricorso contro il datore di lavoro se subisce la violazione di un proprio diritto. In linea teorica anche il datore di lavoro potrebbe usare la via giudiziale per richiedere “diligenza ed impegno”, ma essendo queste variabili non facilmente osservabili né dal datore di lavoro stesso né da un eventuale giudice chiamato a decidere, la via giudiziale rimane nei fatti impraticabile. Al datore di lavoro rimane quindi come unico rimedio possibile quello della terminazione del contratto. Che sarebbe impossibile se sussistesse un “diritto al lavoro” genericamente inteso.
Il lavoro non è un diritto sociale come l’istruzione e la salute. Il ministro Fornero ha cercato di parare il colpo delle polemiche sostenendo che non faceva riferimento al singolo posto di lavoro ma al diritto “sociale” al lavoro. Altri commentatori hanno paragonato il diritto al lavoro ad altri diritti sociali quali l’istruzione e la salute. Ma a ben vedere il parallelo è improprio ed ancora una volta ci conforta nell’affermare che il diritto al lavoro non sussiste. Infatti, se un malato che ha diritto alle cure viene rifiutato dall’ospedale oppure riceve cure inadeguate, può pienamente esercitare il suo diritto alla salute attraverso le vie legali. Un padre può adire le vie legali contro il comune che non garantisce il posto nella scuola dell’obbligo al proprio figlio. Di più, lo stesso padre deve garantire la frequentazione della scuola al figlio pena l’intervento dell’autorità pubblica.
Si sono sbagliati i padri costituenti? L’articolo 4 della costituzione recita effettivamente che “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.
Letto nella sua interezza e spogliato dall’ideologia, l’articolo della costituzione ci parla di un luogo a cui tutti aspiriamo in cui i lavoratori sono messi nelle condizioni di poter dare il loro contributo al progresso materiale e spirituale della società. Questo comporta un dovere del pubblico ad offrire opportunità ed un dovere del singolo nel coglierle.
Invece una lettura forzata ed estrema dell’art. 4 ci impone nella prima parte un diritto del lavoratore ad un posto di lavoro, a cui corrisponde un dovere di una controparte di offrire lavoro, e nella seconda parte un dovere del lavoratore di svolgere un lavoro, evidentemente concedendo ad una controparte il diritto di esigere questo svolgimento. Ovviamente entrambe le letture sono fuorvianti ed aberranti.
Nella concretezza della legge, il dettame costituzionale non poteva che tradursi in un impegno concreto dello stato per tutte le politiche che favoriscano l’accesso al lavoro, a cominciare dall’istruzione, comprendendo anche tutti gli strumenti indispensabili al buon funzionamento del mercato del lavoro, quali il collocamento ed i giudici del lavoro.
Insomma, il diritto al lavoro non esiste né in Italia né altrove. Esiste invece la libertà di lavorare e il diritto ad essere messi nelle condizioni di esercitare questa libertà.
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