IL DISEGNO DI LEGGE FORNERO COSTITUISCE SOLTANTO IL PRIMO PASSO DI UNA MODERNIZZAZIONE PROFONDA DEL NOSTRO MERCATO DEL LAVORO, SIA SUL VERSANTE DELLA DISCIPLINA DEI RAPPORTI, SIA SU QUELLO DEI SERVIZI E DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI
Intervista a cura di Pietro Urso, in corso di pubblicazione sul mensile della Fondazione FareFuturo, Charta Minuta, giugno 2012
Senatore Ichino, in questo periodo stiamo vivendo un vero e proprio black out del lavoro. Secondo lei come possiamo uscire da questo stallo?
Abbiamo due leve possibili, a meno di non pensare a un ritorno all’isolamento, all’uscita dell’Italia dall’Europa – che sarebbe però catastrofica per molti altri aspetti. Se vogliamo andare avanti, anzitutto non abbiamo altra scelta che quella di aprire, spalancare il nostro paese agli investimenti stranieri: una leva che noi oggi utilizziamo pochissimo, siamo ermeticamente, drammaticamente chiusi agli investimenti stranieri. Per questo occorrono, certo, riforme che rendano più efficiente l’Amministrazione pubblica e le infrastrutture di comunicazione e di trasporto, ma anche che rendano più semplice e più leggibile la nostra legislazione, in particolare la legislazione del lavoro; misure che allentino la morsa della burocrazia. Si tratta di riforme che non costano molto, anzi, sono a costo zero e potrebbero essere fatte in tempi brevissimi. Il codice del lavoro semplificato, traducibile in inglese, è già tecnicamente pronto ed anche politicamente maturo: ci sono state manifestazioni di interesse e disponibilità da parte di tutte le forze politiche, quindi si potrebbe fare in tre mesi e lancerebbe un importante messaggio a operatori stranieri che vedono l’Italia, oggi, come un paese bizantino, incomprensibile, in cui la legge dice una cosa, ma per sopravvivere economicamente bisogna farne altre che loro non sanno o non conoscono, rispetto alle quali non hanno il know how che possiedono soltanto gli imprenditori indigeni. Tutto ciò si potrebbe fare subito e avrebbe sicuramente un impatto positivo. L’altra leva deve essere quella di una politica economica espansiva a livello europeo. I singoli Stati, oggi, non possono battere moneta, non possono indebitarsi più di quanto già non siano indebitati. In Italia non si possono mettere nuove tasse perché siamo già largamente oltre il limite della tassabilità dei redditi. Si può pensare a imposte sui patrimoni, ma l’Imu è già un’imposta patrimoniale ed è vissuta male per il carico che si aggiunge agli altri carichi fiscali.
Quali misure dovrebbe prendere il governo per rilanciare l’occupazione?
Non abbiamo margini per aumentare l’investimento a spese dello Stato e dobbiamo puntare con tutte le nostre forze sulla realizzazione di un governo europeo dell’economia, che faccia quella politica espansiva che i singoli Stati non possono fare. Ma per questo dobbiamo avere le carte in regola. Dobbiamo essere affidabili come partners per gli altri Stati, come soprattutto la Germania, che devono potersi fidare di noi. Per questo mi sembra giusto l’impegno posto da Monti per sottolineare l’affidabilità del nostro paese. Poi, certo, questo implica anche che il rigore sia sostenibile e bisogna fare attente verifiche in proposito, ma non abbiamo altre strade da battere. Nel mercato del lavoro, inoltre, si può fare molto anche a legislazione invariata.
A che cosa pensa?
Penso, per esempio, agli skill shortages, cioè a tutti i posti di lavoro che restano permanentemente scoperti per mancanza di personale qualificato che possa ricoprirli. E’ un giacimento occupazionale che va utilizzato fino in fondo e che, invece, noi oggi sprechiamo. Sono decine di migliaia di posti di lavoro permanentemente scoperti in ogni Regione. E se le Regioni danno pessima prova sul terreno dei servizi del mercato del lavoro, deve valere il principio di sussidiarietà: intervenga lo Stato a sostituire i servizi regionali nelle Regioni che non fanno quel che devono. Poi, più in generale, penso che occorra una flessibilità degli standard, che consenta di aumentare i tassi di occupazione dove la situazione non consente di reggere gli standard attuali, come nel Mezzogiorno. Non si tratta di reintrodurre gabbie salariali, ma semmai di “sgabbiare” la contrattazione collettiva aziendale, consentirle di fissare standard che tengano conto del contesto locale, per abbattere il muro che separa domanda e offerta di lavoro.
Lo scorso 31 maggio il Senato ha approvato il testo della riforma del lavoro. Qual è il suo giudizio complessivo?
È un discorso che andrebbe articolato, perché per un verso ha dei meriti notevoli, come l’aver rotto il tabù dell’articolo 18, riscrivendo una norma che costituisce un’anomalia italiana nel contesto europeo. Ci si èspostati, sul piano dei principi, da una concezione di property rule a una di liability rule, da un regime di proprietà del posto di lavoro a un regime di responsabilizzazione dell’impresa per la stabilità e la continuità del lavoro e del reddito dei dipendenti entro limiti ragionevoli secondo gli standard centro-nordeuropei. Bisogna riconoscere, che su questo punto, c’è stata una svolta, direi, epocale. Pur se io avrei preferito una riforma ancora più netta e incisiva, e anche formulata in modo più semplice.
Che giudizio dà della riforma degli ammortizzatori sociali?
Se ne parlava da 18 anni senza che mai, né da destra né da sinistra, si sia cavato un ragno dal buco. Ora la legge introduce, per la disoccupazione, un’assicurazione di carattere universale estesa a tutto il lavoro subordinato e riconduce la Cassa integrazione guadagni alla sua funzione originaria, quella di tenere legato il lavoratore all’impresa nelle situazioni in cui questa ha la prospettiva di riprendere l’attività. Bisognava impedire che continuasse l’uso della Cassa integrazione al posto dei trattamenti di disoccupazione.
Quali altre novità introduce la riforma Fornero?
…Per la prima volta, in 50 anni, una legge dello Stato affronta il problema del dualismo tra protetti e non protetti, flessibilizzando da un lato – in modo notevole, anche se con qualche compromesso – il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, e d’altro lato disponendo un riassorbimento di collaborazioni autonome che nascondono la realtà di un lavoro dipendente. Anche qui i compromessi hanno ridotto non poco l’incisività della riforma, ma pure per questo aspetto un cambiamento c’è e mi sembra positivo.
Quali sono, invece, a suo parere, i difetti più gravi della nuova legge?
Il testo legislativo resta vecchio nel linguaggio e nelle tecniche normative, poco comprensibile e leggibile da parte dei milioni di persone a cui è destinato. Questo è un difetto grave. Per certi aspetti, poi, riemerge una vecchia cultura giuslavoristica che tende a iper-regolare i rapporti e a complicare le cose in novantanove casi per prevenire l’abuso nel centesimo, dimenticando che in questo modo si fa un danno anche al centesimo lavoratore a cui l’abuso si riferisce: l’aumento di complessità genera un costo che ha un effetto depressivo sulla domanda di lavoro; mentre per i lavoratori non c’è tutela migliore che poter scegliere. L’abbondanza di offerte di lavoro conta più di qualsiasi protezione legale, di qualsiasi avvocato, ispettore, giudice. Ecco, per questi aspetti la legge soffre ancora di una scrittura e di una tecnica vecchie.
Il ministro Fornero ha parlato della necessità di equiparare le regole dei licenziamenti tra settore pubblico e privato e subito si è sollevata la polemica contro i “licenziamenti facili” nella Pubblica Amministrazione. Che cosa ne pensa?
La norma che disciplina il licenziamento, in particolare l’art 18, disciplina contestualmente la materia nel settore pubblico. Perciò la variazione dell’art 18 vale anche per il settore pubblico. Il problema è che nel settore pubblico manca una dirigenza responsabilizzata riguardo agli obiettivi da garantire e capace di esercitare le prerogative manageriali. Quindi, il problema nel settore pubblico è di responsabilizzare i dirigenti creando gli incentivi giusti perché esercitino correttamente le proprie funzioni. Per questo, occorre collegare l’attribuzione degli incarichi dirigenziali a obiettivi precisi, misurabili e specifici, cosa che oggi in Italia non avviene quasi mai; poi sarebbe necessario licenziare il dirigente che non raggiunge gli obiettivi. Su questo i politici che stanno al vertice delle Amministrazioni dovrebbero essere controllati dall’elettorato. Invece gli elettori votano perlopiù in base a opzioni ideologiche, anche di carattere molto astratto. Questi sono i punti essenziali, e per questo io non sono d’accordo con l’idea del ministro per la Funzione Pubblica di dettare una disciplina speciale per il settore pubblico.
Più precisamente, che cosa propone per il settore pubblico?
Sarei d’accordo con una norma che esentasse i dirigenti pubblici dalla responsabilità erariale per l’indennizzo al lavoratore, nel caso in cui il giudice disponga l’indennizzo ritenendo il licenziamento non sufficientemente motivato. Questa responsabilità erariale del dirigente pubblico oggi costituisce un forte disincentivo all’esercizio della funzione disciplinare e ostacola l’esercizio di questa prerogativa, che è propria di qualsiasi dirigente – la possibilità di licenziare il lavoratore quando occorre sopprimere un posto di lavoro, o quando il lavoratore non è più utile nella funzione specifica. Questa è l’unica modifica legislativa che mi parrebbe opportuna. Per il resto sono d’accordo con il ministro del Lavoro quando dice che bisogna tendere ad avere un pubblico impiego che funziona, nella misura del possibile, come nelle aziende private.
Tornando al testo della riforma del lavoro da lei promossa, come commenta le parole della leader della Cgil, Susanna Camusso, che ha parlato di una riforma che “non serve al lavoro”?
Dissento da questo giudizio per tutti i motivi che ho detto prima. L’Italia ha bisogno di allinearsi al resto d’Europa e ai migliori standard dei paesi occidentali sul terreno della disciplina del lavoro: la nuova legge va in modo inequivocabile in questa direzione, anche se avrei auspicato che fosse ancora più chiara e incisiva. Bisogna evitare di restare in mezzo al guado e compiere questo passaggio rapidamente. Ora occorre applicare la nuova legge, che già contiene novità importanti. Nei prossimi mesi e anni occorrerà anche proseguire l’itinerario di riforma del nostro sistema, verso quella semplificazione e leggibilità che ci chiede l’Unione Europea con il Decalogue for Smart Regulation, che qui è stato ignorato e che invece dovrebbe essere la nostra bussola.
Parlando del rischio di rimanere nel guado, possiamo dire che oggi ci sono rimasti gli esodati. Come è stato possibile un errore del genere?
Abbiamo dovuto fare in poche settimane il cammino che avremmo dovuto fare nei quindici anni precedenti. Questa è una gravissima colpa della mia generazione nei confronti della generazione dei nostri figli e nipoti: abbiamo fatto la riforma delle pensioni nel ‘95, applicando tutti i nuovi criteri soltanto alle nuove generazioni ed esentandone la vecchia, la nostra. Cosa vistosamente iniqua, oltre che insostenibile per le casse dello Stato. Trovandoci poi sull’orlo del baratro, siamo stati costretti a fare rapidamente e in modo brutale quello che avremmo dovuto fare prima. Detto questo, resta il fatto che l’aritmetica non è un’opinione. Quello che noi abbiamo considerato fino a ieri un diritto intangibile, cioè il diritto di andare in pensione con il 70-80 per cento dell’ultima retribuzione a 60 anni con 37 anni di contribuzione, non può stare in piedi: con un contributo previdenziale del 33 per cento in 37 anni non si possono pagare i 23-24 anni di vita media attesa di chi ha compiuto 60 anni. Questo ”diritto” alla pensione era pagato dallo Stato, che copriva il deficit pensionistico: ma alla lunga questo non è più stato possibile.
Come pensa che si potrebbe risolvere questo problema?
Questo repentino cambiamento ha scompaginato i piani di vita delle “classi” di lavoratori prossime alla pensione, che hanno visto improvvisamente allungarsi di tre o quattro anni la vita lavorativa. La soluzione, però, tranne alcune decine di migliaia di casi particolari – gli “esodati” intesi in senso stretto – non può consistere nell’anticipare la pensione, tornando al prepensionamento, ma in un’incentivazione del rientro nel tessuto produttivo e, dove questo non risulti possibile, in un trattamento di disoccupazione. Ma con le condizioni proprie di un trattamento di disoccupazione, per cui il sostegno del reddito sarà erogato se non sarà possibile trovare un lavoro; dove invece il lavoro ci sarà, occorrerà accettarlo, pena la perdita dell’indennizzo.
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Sintesi
Ichino spiega tre possibili azioni per contrastare il blackout del lavoro: spalancare le porte agli investimenti stranieri, sfruttare gli skill shortages e attivare una politica economica espansiva sul piano europeo. Sulla riforma del lavoro parla di una svolta reale, anche se non sufficiente. Spiega l’importanza di essere passati, come principio generale, da una property rule a una liability rule. Sul problema esodati commenta “è stato un gravissimo errore della mia generazione nei confronti di quella dei nostri figli, in occasione della riforma delle pensioni del ’95, applicare i nuovi criteri alle sole nuove generazioni escludendo le vecchie, non soltanto creando un’ingiustizia, ma anche mantenendo in vita una situazione insostenibile per l’equilibrio del bilancio statale. Ora abbiamo dovuto riparare a quell’errore, facendo in due settimane quello che avremmo dovuto fare gradualmente in due decenni”.
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