LA QUESTIONE DELL’EQUILIBRIO ATTUARIALE DELL’INPS

DUE INTERESSANTI SCAMBI DI IDEE CON ALCUNI LETTORI SUL PROBLEMA DEL FINANZIAMENTO DEL SISTEMA PENSIONISTICO

Messaggi pervenuti a seguito della mia parecipazione alla trasmissione l’Infedele, condotta di Gad Lerner, del 20 giugno 2012, e del mio intervento sul Corriere della Sera del 18 giugno 2012

37 ANNI DI CONTRIBUZIONE BASTANO PER  FINANZIARE 23 ANNI DI PENSIONE? – 1

Gentile Professore,  ho letto il suo articolo sul Corriere  della Sera in cui  afferma l’insostenibilità di pensioni pari ai 3/4  del salario medio [dell’ultimo periodo di lavoro – n.d.r.], dopo 38 anni di lavoro, con una contribuzione al 33% e una vita media residua di ogni pensionato [di 60 anni – n.d.r.] di 23 anni. Questione di matematica, lei  dice.
Questa la mia matematica; felicissimo se saprà contraddirla:  38 anni di lavoro/23 anni di pensione = 1,65 dunque una contribuzione del 33% vale 33 x 1,65 = 54,4% del salario  medio come pensione.  Tuttavia quel 33% è versato in anticipo e come tutti i versamenti deve  dare un interesse reale che supponiamo del 2% ogni anno. Se il versamento dei  contributi fose fatto a una società finanziaria sarebbe obblig o trovare un
rendimento di questa natura (oggi il rendimento medio dei titoli di stato è del  4% e l’nflazione del 2%), poiché il versamento è fatto a una cassa pensioni a  ripartizione come l’INPS la rivalutazione deriva dall’aumento del PIL  nazionale.  Allora prendendo un tasso mediano di rivalutazione calcolato su 19 anni al 2%, un capitale iniziale Ci dà un capitale finale Cf come segue, considerando un tasso di rivalutazione semplice e non composto e dunque favorevole per un conteggio che dia luogo a un reale rendimento.
Cf= Ci x (1 x0,02 x 19)= Ci x 1,38
Quindi quella pensione al 54,4 % del salario medio deve essere  rivalutata moltiplicando per 1,38.
Pensione in base al capitale versato con un tasso di rivalutazione  medio reale del 2% = 54,4 x 1,38 = 74,5 , cioè appena mezzo punto sotto a quei 3/4 di pensione che lei considerava
assolutamente ingiustificato.
Valerio Caciagli

Nel calcolo proposto in questo messaggio mancano due considerazioni essenziali:
stiamo parlando di un sistema previdenziale – quello in vigore per noi
sessantenni, ben diverso per questo aspetto rispetto a quello disegnato nel 1995 per i nostri figli e nipoti – nel quale l’importo della pensione è interamente collegato all’entità dell’ultima retribuzione;
– negli ultimi decenni le retribuzioni dei lavoratori dipendenti italiani sono state caratterizzate da una dinamica tale per cui al termine  della vita lavorativa il livello di reddito degli impiegati è stato mediamente  molto vicino al doppio rispetto al livello iniziale; nel caso degli operai questa dinamica è stata mediamente più attenuata, ma il livello medio finale è stato sempre intorno al 50% in più rispetto a quello iniziale. Così stando le cose, il rendimento dell’accantonamento cui il lettore giustamente fa riferimento non basta in alcun modo per compensare l’aumento della retribuzione di riferimento.  (p.i.)

REPLICA DEL LETTORE E MIA CONTROREPLICA
Caro prof. Ichino, nella sua lettera di risposta è  contenuto un errore grossolano. Non è infatti vero che il calcolo della  pensione si faccia sull’ultima retribuzione: dal 1995 (riforma Dini) si fa  sulla media degli ultimi dieci anni di retribuzione. Inoltre, una cosa è  parlare di stipendio su cui si fa il calcolo (non è un caso che io parlavo di  stipendio medio) e una cosa è, come da Lei fatto sul Corriere della Sera,  parlare di insostenibilità delle prestazioni per rapporto ai contributi pagati. Io credo che un maggior rigore nel trattare gli argomenti che riguardano la  vita dei lavoratori esporrebbe gli innovatori come Lei a minori critiche e permetterebbe un migliore successo politico . Mi permetto di sollevare quest’ultimo punto come iscritto alla CGIL ed elettore del PD che tutti i giorni  trova difficoltà a difendere visioni meno angustamente segnate da un classismo  tramontato perché riceve la facile critica di avere militanza politica contigua  a persone come Lei che troppo facilmente dimenticano l’oggettività delle  quoni che riguardano il lavoro dipendente.
Valerio Caciagli

Quello che il lettore indica come “errore grossolano” è solo una conseguenza dei vincoli di spazio nella comunicazione giornalistica. Ma non si tratta affatto di un “errore grossolano” (perché tutta questa aggressività?): il fatto che, per la determinazione della pensione per la generazione dei sessantenni e cinquantenni di oggi, si faccia riferimento alla media degli ultimi anni di lavoro – gli ultimi cinque fino a poco tempo fa, ora gli ultimi dieci – non toglie che questo sistema di calcolo esclude dal computo i primi due terzi o tre quarti della vita lavorativa, nei quali normalmente il lavoratore guadagna nettamente di meno che nella fase finale.   (p.i.)

37 ANNI DI CONTRIBUZIONE BASTANO PER  FINANZIARE 23 ANNI DI PENSIONE? – 2

Caro prof. Ichino, seguo volentieri i suoi interventi sui giornali e in televisione, e molto spesso apprezzo le sue posizioni “fuori dal coro” e il suo spirito liberale, poco diffuso a destra e a sinistra. Mi capita anche spesso di discutere con mio marito, che, al contrario di me, che ho una formazione umanistica, affronta le questioni anche dal punto di vista “scientifico”. Così oggi, per confutare il suo articolo sul Corriere della Sera di lunedì scorso Vero e falso sulla questione degli esodati (e come risolverla), mio marito mi ha mandato un conteggio – vedi file che alllego [che qui non si può riportare, anche per difficoltà di editing – n.d.r.] -, dal quale si evincerebbe che se l’INPS agisse come un fondo investimento assicurativo (rendono fra il 3 e 4%/anno), i contributi dopo 35 anni di lavoro sarebbero sufficienti per 19 anni all’80% dell’ultimo stipendio.
Nell’articolo lei invece afferma: fino ad allora avevamo fatto finta che con 60 anni di età e 37 o 38 anni di contribuzione un lavoratore si fosse “guadagnato il diritto” alla pensione. Se si considera che a 60 anni gli italiani hanno una attesa media di vita di 23 anni se uomini, 24 se donne, è evidente l’insostenibilità di quell’idea: non è possibile che 38 anni di contribuzione nella misura del 33 per cento costituiscano un finanziamento sufficiente per una pensione pari a tre quarti o quattro quinti dell’ultima retribuzione, destinata a durare per 23 o 24 anni.
Mi farebbe piacere a questo punto avere un suo riscontro. Che rispondo a mio marito? (Il tutto, le assicuro, non è un artificio retorico, ma reale dialettica familiare, siamo fatti così…)
Amelia Sbandati

La dinamica media delle retribuzioni in Italia, nell’arco della vita lavorativa, negli ultimi quattro decenni, è stata molto più marcata: basti considerare che in genere i contratti collettivi riconoscevano agli impiegati 12 scatti biennali pari al 5%; l’agganciamento della retribuzione alla media degli ultimi cinque (poi dieci) anni ha dunque comportato uno sbilancio assai rilevante, facendo sì che non venga computata una porzione iniziale della vita lavorativa che va dai tre quarti ai sette ottavi della carriera lavorativa, e che solitamente è quella in cui il lavoratore guadagna di meno.
Per un discorso più completo (che nell’articolo sul Corriere non potevo svolgere per ragioni di spazio), poi, in questo calcolo non è computato il rischio invalidità, che pure è coperto dall’assicurazione generale obbligatoria. In ogni caso, lo sbilancio dell’Inps in questi decenni è stato causato anche dal fatto che esso ha funzionato con il sistema “a ripartizione”, e non “a capitalizzazione”: in altre parole, le nuove generazioni pagavano le pensioni per le precedenti. Col risultato che ogni contrazione della forza-lavoro fa saltare l’equilibrio previdenziale. (p.i.)

LA REPLICA DEL MARITO DELLA LETTRICE E UN ULTIMO SCAMBIO DI MESSAGGI
Sono il marito dell’autrice del messaggio precedente. Il senso del mio semplice calcolo in parte coincide con una cosa che anche lei in fondo dice: la Legge Dini con un po’ più di coraggio (con il contributivo per tutti fin dal 1995) avrebbe messo le cose in ordine. Questo passo si poteva (e si può) fare anche oggi, in quanto mi sembra di aver dimostrato che 35 anni di contributi (non 37 o 38 di ipotetici 60-enni che avrebbero iniziato a lavorare a 23 anni!) assicurano una lunga pensione con l’80% dell’ultima retribuzione (non sono per il retributivo old style; il mio è solo un esempio per dire che sarebbe sostenibile socialmente, e anche per la società dei consumi in cui viviamo, avere dei pensionati con l’80% dell’ultima retribuzione; persone capaci di spendere non solo per sopravvivere).
Fornero poteva quindi scegliere la strada del contributivo per tutti subito e anche retroattivo (senza le distinzioni di Dini) e avrebbe evitato:
. a) a padri e nonni di essere temibili concorrenti sul mercato del lavoro di figli e nipoti, e viceversa;
b) a lei di fare salti mortali per giustificare la parte pensionistica della sedicente Legge Salva-Italia, con argomenti buoni certamente per il passato, che era infatti retributivo e assistenziale, quando invece dobbiamo guardare al futuro.
Il contributivo ben applicato ci può in sintesi ancora salvare. Fornero ci porterà a crisi insolubili e a mio avviso non andrebbe appoggiata acriticamente.
Pietro Laurenzi

La riforma Fornero del dicembre scorso compie proprio la scelta del metodo contributivo di calcolo della pensione anche per cinquantenni e sessantenni, ma soltanto per la parte della pensione destinata a maturare dal 1° gennaio 2012 in poi. Io sarei stato favorevolissimo a una applicazione anche retrospettiva di questa nuova regola: non esistono infatti diritti acquisiti in questo campo, finché i requisiti per il pensionamento non sono maturati. Ciò avrebbe costituito un atto di giustizia intergenerazionale; e avrebbe fornito un margine utile cui attingere per rendere più graduale l’applicazione della nuova disciplina dell’età pensionabile.  (p.i.)

Egregio professore,  vedo con piacere che è bersagliato da argomenti  aritmetici simili al mio (e a quello che evidentemente convinse nel 1995  Lamberto Dini).  Le sue risposte, a me e al Sig. Valerio Caciagli,  descrivono le cose come sono state, e di questo le do atto, ma il nostro  discorso è diverso e sostanzialmente recita: non pensiamo al passato; ma al  futuro, e per il futuro 35 anni con il contributivo sarebbero un’opzione praticabile, e secondo me auspicabile, invece della lotta per il posto di  lavoro fra generazioni che Fornero ha instaurato.  Io credo che, di fronte all’evidenza aritmetica, un suo  statement pubblico del tipo: “Sono stato frainteso: 35 anni di contributi  di per sè basterebbero per una pensione accettabile, a patto che…”  sarebbe intellettualmente (e spero lei non pensi: sovieticamente) opportuno,  vista l’autorevolezza di cui lei gode.
Pietro Laurenzi

Sono pienamente d’accordo su questo punto: che l’applicazione integrale del sistema contributivo per il calcolo della pensione consentirebbe un’elasticità molto maggiore dell’età di pensionamento, cioè uno spazio molto maggiore di libertà di scelta del lavoratore. E – come scrivo in un altro post sull’argomento, è questa un’opzione sulla quale occorre mettersi subito al lavoro. Non concordo, però, con l’idea del conflitto generazionale per la scarsità di occasioni di lavoro, cioè con l’affermazione secondo cui ogni lavoratore anziano che continua a lavorare porterebbe via un posto a un giovane. Quando il lavoro della persona anziana è produttivo, il fatto che essa continui a svolgerlo porta con sé maggiore produzione di ricchezza e minor prelievo di risorse pubbliche: tutto ciò favorisce l’occupazione delle nuove generazioni, come è confermato dal fatto che nei Paesi dove il tasso di occupazione degli anziani è più alto anche il tasso di occupazione dei giovani è più alto.  (p.i.)
j

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