“COMPITO DI UNA COMUNITÀ DI GIURISTI NON È QUELLO DI ADEGUARSI PEDISSEQUAMENTE ALLE SCELTE DEL LEGISLATORE, MA DI VALUTARLE CRITICAMENTE E SE POSSIBILE INDIRIZZARLE IN VISTA DEI PROBLEMI DA RISOLVERE”
Lettera pervenuta il 15 giugno 2012, in riferimento al mio intervento al Congresso di diritto del lavoro, svoltosi a Pisa dal 7 al 9 giugno, e alla lettera aperta di Oronzo Mazzotta in proposito, del 12 giugno – Segue una mia breve replica
Caro Pietro,
le tue riflessioni, come sempre stimolanti, sulla mia relazione al Convegno Aidlass di Pisa mi inducono a qualche osservazione.
Non condivido le critiche – di metodo e di merito – che rivolgi alla comunità dei giuslavoristi (e anche a me) per le posizioni negative espresse sul testo in itinere dell’art. 18 St.lav. A tuo parere infatti, da una parte, la scelta di politica del diritto di “allentare” le tutele del licenziamento è del tutto opportuna – e quindi va di per sé sostenuta – e, dall’altra, gli interpreti sono tenuti a una lettura delle norme che – a prescindere dalla loro “cattiva fattura” – assecondi il più possibile la volontà del legislatore storico. Queste considerazioni ti portano a non condividere un’interpretazione che come la mia – valorizzando peraltro precise indicazioni del testo normativo – non asseconda l’obbiettivo di diminuire la tutele del licenziamento, ponendo al centro del sistema non più la “tutela reintegratoria piena”, bensì le “tutele minori” introdotte dal testo di riforma (”tutela reintegratoria attenuata” e “tutela indennitaria forte”).
Io penso invece – e qui concordo appieno con la lettera aperta di Oronzo Mazzotta – che compito di una comunità di studiosi non sia quello di adeguarsi pedissequamente alle decisioni del legislatore quali che siano, ma, al contrario, di valutarne con sguardo critico (e se possibile indirizzarne) le scelte di fondo in vista dei problemi da risolvere, nonché di interpretare le norme alla luce complessiva del sistema.
Ed è proprio avendo in testa questo duplice obbiettivo che ho condotto le riflessioni che sono condensate nella mia relazione.
Sul piano delle scelte di politica del diritto, rimango convinta che la diminuzione delle tutele del licenziamento non sia lo strumento adeguato per risolvere i problemi che affliggono il nostro mercato del lavoro (e che l’art. 1, c.1 del d.d.l. dichiara di voler affrontare). A ben vedere, infatti, esso non serve né per aumentare l’occupazione – su questo concordi anche tu -; nè per ridurre la segmentazione e la segregazione occupazionale soprattutto dei giovani (almeno fintanto che non sia accompagnata da una drastica restrizione delle condizioni d’uso e delle convenienze dei contratti di lavoro flessibili – ricordo in particolare che nel testo licenziato dal Senato è prevista la possibilità di un primo contratto a termine a-causale della durata di ben 12 mesi); nè serve, infine, nemmeno per indurre le imprese a investire sul fattore-lavoro, incrementando la professionalità dei lavoratori così da renderli più forti e competitivi sul mercato e da potenziare una occupazione di qualità. Diminuire le tutele del licenziamento, al contrario, può avere effetti negativi a cascata – come dimostrano le riforme realizzate in Spagna negli ultimi anni e richiamate nell’intervento di Pisa di Maria Vittoria Ballestrero –, in quanto spinge le imprese verso la flessibilità numerica della forza-lavoro al fine di risparmiare sul costo del lavoro e può così innescare una spirale peggiorativa nel trattamento dei lavoratori (la cd. “dinamica della disuguaglianza”) che non può che deprimere i consumi e con essi la produzione e la domanda di lavoro.
Non ritengo neppure che il nuovo testo dell’art. 18 St.lav. sia adeguato per affrontare quel problema di certezza del diritto e di prevedibilità dei costi del licenziamento, che tu poni invece a base della tua valutazione positiva del testo di riforma. La norma in gestazione, frutto com’è di un difficile compromesso e redatta “per strati successivi”, risulta contorta e contraddittoria. Non solo, quindi, la sua traducibilità in inglese per attrarre gli investitori internazionali sembra davvero difficile, ma anzi con tutta probabilità saranno necessari alcuni anni prima che la giurisprudenza si assesti su una determinata linea interpretativa. Certo rimane il fatto che il legislatore fissa ora “tetti” all’indennità risarcitoria da corrispondere al lavoratore illegittimamente licenziato sia nel caso della tutela “reintegratoria attenuata” che nel caso della tutela “indennitaria forte”, così prefissando la misura massima del costo del licenziamento a carico del datore di lavoro. Ma – mi chiedo – è una scelta da condividere quella di scaricare sulla parte debole del rapporto le conseguenze di un atto viziato del datore di lavoro quando la lievitazione dei costi dipende (quasi) esclusivamente dalla durata del processo ? Se la prevedibilità dei costi fosse stato l’unico o il principale obbiettivo della riforma sarebbe stato sufficiente, senza diminuire le tutele, introdurre, da una parte, un’efficace procedura conciliativa sulla falsariga per esempio del modello tedesco (in quel sistema il licenziamento è inefficace se non è autorizzato dal consiglio aziendale e, in caso di parere sfavorevole, non produce effetti, se il lavoratore adisce il giudice, fino alla definizione della causa in primo grado) e incidere, dall’altra, sulle regole processuali, accelerandone (in modo efficace) i tempi. Il testo di riforma, al contrario, non presidia in modo significativo il tentativo di conciliazione ora introdotto per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (è previsto che la violazione della procedura conciliativa comporti l’applicazione della sola tutela “indennitaria dimidiata” fra il minimo di 6 e il massimo di 12 mensilità di retribuzione, mentre il giudice potrà poi tenere conto del comportamento tenuto dalle parti nel corso della procedura stessa al fine della liquidazione delle spese di giudizio) e contempla un procedimento giurisdizionale che a parere di molti non abbrevierà, ma dilaterà i tempi di definizione della causa.
Se le cose stanno così, si può allora dubitare che la finalità prioritaria in concreto perseguita con le modifiche in itinere sia quella di fornire certezza agli operatori giuridici. Al contrario, dalla lettura delle norme in gestazione, traspare una duplice finalità a) ridurre la portata del controllo giudiziale sulle causali giustificative del licenziamento; b) imbrigliare la discrezionalità interpretativa del giudice nel decidere quale tutela applicare nel caso concreto.
Il primo obbiettivo è perseguito prevedendo – in alternativa alla tutela “reintegratoria piena” e alla tutela “reintegratoria attenuata” – una tutela “indennitaria forte” che comporta comunque, pur a fronte di un licenziamento non sorretto da idonea giustificazione, la risoluzione del rapporto di lavoro; il secondo viene attuato cercando di individuare (con esiti del tutto discutibili) in quali casi le diverse tutele debbano trovare applicazione.
Dunque, pur mantenendo fermo il principio della necessaria giustificazione del licenziamento, il legislatore della riforma cerca di attutirne le conseguenze ed al contempo di circoscrivere la discrezionalità del giudice nella scelta della tutela applicabile, tentando di “disarticolare” al loro interno le causali giustificative del licenziamento.
Quanto al principio di necessaria giustificazione del licenziamento – principio fondamentale riconosciuto dal diritto interno (C.Cost. 46/2000), internazionale (per es. Conv. OIL 158/1982, art. 24 Carta sociale europea) e comunitario (art. 30 Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea) a tutela della persona del lavoratore –, esso non consente, a mio parere, di sottrarre l’atto di licenziamento al controllo del giudice (o di altro organo imparziale). È il controllo del giudice, infatti, che assicura effettività a quel riequilibrio delle posizioni di potere nell’ambito del rapporto di lavoro che il principio di giustificazione del licenziamento vuole realizzare. Mi pare dunque incompatibile con il sistema, ove posto in alternativa al controllo giudiziale sulla giustificazione del licenziamento, la previsione generalizzata di un severance cost – come invece da tempo tu auspichi – per tutte le ipotesi di licenziamento di tipo economico.
Non nego che competa al legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità (C.Cost. 46/2000), individuare la tutela conseguente alle patologie dell’atto di licenziamento; penso però che sarebbe stato molto più lineare – e avrebbe contribuito a quella certezza del diritto che tu ritieni sia uno degli obbiettivi della riforma – demandare al giudice nel caso concreto la scelta fra tutela reintegratoria e tutela indennitaria (è questo del resto il modello prescelto in altri ordinamenti, fra i quali l’ordinamento tedesco). Il tentativo (malamente compiuto) di imbrigliare la discrezionalità giudiziale produrrà esiti opposti a quelli voluti.
Tuttavia la discrezionalità del legislatore nell’individuazione le conseguenze delle patologie dell’atto di licenziamento non può ritenersi assoluta: se il principio di necessaria giustificazione del licenziamento è principio fondamentale posto a presidio della persona del lavoratore, la tutela che ne consegue deve essere tale da garantire effettività a quel principio e dunque deve essere “adeguata”. A mio parere utili indicazioni in questo senso possono essere tratte dall’art. 30 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, letto alla luce dell’art. 24 della Carta sociale europea (ho approfondito questo profilo nella relazione scritta). Se così è, si può dubitare che i “tetti” che il testo di riforma pone all’ammontare del risarcimento nelle varie ipotesi di tutela indennitaria previsti dal nuovo testo dell’art. 18 St.lav. siano conformi all’ordinamento, in quanto – in connessione con la prevedibile persistente lunga durata dei processi – impediscono che il lavoratore consegua il pieno ristoro delle perdite subite.
Nella mia relazione pisana ho proposto una interpretazione del nuovo testo dell’art. 18 St.lav. che sposta il baricentro della norma sulla tutela prevista per il licenziamento discriminatorio e/o per motivo illecito e dunque conserva un’ampia area di applicazione alla tutela “reintegratoria piena”, pur senza obliterare l’applicazione delle tutele “minori” (in particolare nella mia ricostruzione nel caso di licenziamento disciplinare giustificato da un inadempimento che non assurge a quel grado di “notevolezza” necessario per integrare il giustificato motivo soggettivo dovrebbe trovare applicazione la tutela “reintegratoria attenuata”).
Non nego che la strada interpretativa che ho scelto “minimizza” l’impatto innovativo della norma in gestazione. Mi sembra però che la mia lettura non solo trovi radice in precisi elementi testuali contenuti nell’art. 18 St.lav. in itinere, ma risulti anche armonica con i principi civilistici in tema di tipicità degli atti unilaterali e delle cause che li giustificano.
Soprattutto – come ho esplicitato nel mio discorso a Pisa e poi anche nella replica finale – l’ampia nozione di licenziamento discriminatorio e/o per motivo illecito che ho proposto è orientata da quel valore fondante che costituisce origine e fine del nostro testo costituzionale: il valore centrale riconosciuto alla persona umana, nelle sue varie dimensioni, dall’art. 2 Cost.
Queste, dunque, sono state le mie scelte di metodo e di merito.
Maria Teresa Carinci
Nel mio intervento al Congresso e nella mia replica a Oronzo Mazzotta non ho sostenuto affatto che l’interprete debba “adeguarsi pedissequamente alle decisioni del legislatore quali che siano”: ho sostenuto che l’interprete deve tenere ben distinto il proprio discorso de iure condito da quello de iure condendo; e che in sede di interpretazione dello ius conditum non può sostituire il proprio intendimento a quello enunciato esplicitamente dal legislatore, obliterando del tutto quest’ultimo, come invece mi sembra M.T.C. faccia nella sua relazione pisana e in questa lettera sullo stesso argomento (della quale comunque la ringrazio, perché aiuta a chiarire le nostre rispettive posizioni). (p.i.)
hh