ORONZO MAZZOTTA: NON È COLPA DEI GIUSLAVORISTI SE IL LEGISLATORE VA PER LA SUA STRADA SENZA ASCOLTARLI

IL GIUSLAVORISTA PISANO REPLICA AI MIEI ARGOMENTI OSSERVANDO COME IL GIUDIZIO NEGATIVO SULLA TECNICA NORMATIVA ADOTTATA NEL DISEGNO DI LEGGE FORNERO SIA PRESSOCHÉ UNANIME TRA GLI STUDIOSI DELLA MATERIA: NON DOVREBBE DUNQUE ESSERE IMPUTATA A LORO L’INTERRUZIONE DEI CANALI DI COMUNICAZIONE CON IL CETO POLITICO

Lettera aperta di Oronzo Mazzotta, ordinario di diritto del lavoro nell’Università “la Sapienza” di Pisa, pervenuta il 12 giugno 2012, in risposta all’intervento che ho svolto nel corso del Congresso dell’Associazione Italiana di Diritto del Lavoro e della Sicurezza Sociale, a Pisa, l’8 giugno precedente – Segue la mia risposta

Caro Pietro,
ho letto nella tua Newsletter di lunedì 11 giugno, dopo averlo a-scoltato dalla tua viva voce, l’intervento che hai tenuto al recente Congresso nazionale dell’Aidlass di Pisa e mi permetto, non un a replica pun-tuale, che richiederebbe riflessioni più approfondite, ma qualche osservazione e due domande.
     Non ho certo titolo per rispondere a nome della comunità scienti-fica, né dell’Aidlass nella sua interezza né, ancora, del consiglio direttivo uscente. Non della prima perché, al massimo, posso costituirne uno dei tanti appartenenti in ragione della professione (accademica e non), non della seconda che è solo un contenitore, un luogo di dibattito culturale, né del terzo che si limita a lanciare temi di discussione e non fa proposte. Ri-spondo quindi a titolo strettamente personale e non impegnativo se non per me stesso.
     Le Tue riflessioni, come del resto la discussione che si è svolta a Pisa, ripropongono problemi di grande respiro in relazione ai rapporti fra economia e diritto e fra le rispettive “culture” sui quali ci stiamo confron-tando da molto tempo ed ancora lo faremo. Del resto condivido con Te un percorso culturale assai stimolante all’interno della Fondazione Giuseppe Pera che sta instaurando un proficuo dialogo fra le due discipline, valo-rizzando anche il ruolo della sperimentazione.
     Farò solo due osservazioni, quasi arbitrarie, fra le tantissime che il tuo scritto suggerisce: l’una di merito, l’altra di metodo (come si usa dire), anteponendo la prima alla seconda.
Date le molteplici vesti, tutte autorevoli, nelle quali ti proponi alla pubblica opinione (editorialista, professore di diritto del lavoro, avvo-cato, senatore della repubblica, membro di un importante partito politico, etc.), che si ripercuotono, ed irrimediabilmente, nelle Tue argomentazioni, è opportuno – se si deve intavolare un minimo di dialogo – volta a volta chiarire su quale piano si svolge la discussione.

     I rilievi di merito coinvolgono l’Ichino studioso appassionato del diritto del lavoro, che ha difeso e difende la riforma, anche sul piano tec-nico, considerandola, nella sostanza, un primo importante passo nella di-rezione di una modernizzazione del mercato del lavoro italiano.
     Non mi interessa prendere posizione sulla riforma nel suo insieme; intendo soffermarmi solo sulla nuova disciplina in materia di licenziamento.
     Ho partecipato, negli scorsi mesi e comunque da quando è stato reso noto il testo della riforma, ad innumerevoli dibattiti ed ho letto molti commenti a caldo, senza trovarne uno che abbia condiviso, a tacer d’altro:
  a) l’articolazione in più livelli dell’apparato sanzionatorio;
  b) le complesse alchimie che scompongono e ricompongono i presupposti che legittimano i licenziamenti;
  c) la predisposizione di un procedimento giurisdizionale ad hoc.
     Non c’è alcun osservatore che non abbia rilevato che le nuove norme introducono maggiore (e non minore) incertezza nelle controversie in materia di licenziamenti, maggiore (non minore) discrezionalità giudiziale, maggiore (non minore) durata dei procedimenti.
     Dunque: il ceto giuridico si è espresso in modo assai critico nei con-fronti dello jus (ormai) quasi conditum in materia di licenziamenti. E questo è un fatto.
     Ciò posto, assumere che, in relazione alle finalità conclamate dal legislatore, le scelte tecniche adottate si prestino, nella sostanza, a con-traddire gli scopi divisati non vuol dire che, in tal modo, la nostra comunità si presenti «come un partito più che come un luogo di produzione di cultura giuridica», come Tu scrivi. Né che alla medesima immagine cospi-ri anche un’opzione interpretativa diretta a contrastare gli obiettivi della riforma, con il «ridurre il più possibile gli effetti perseguiti dal legislatore».
     Mi pare invece che tale atteggiamento rientri pienamente entro il tradizionale ruolo del ceto giuridico che valuta la coerenza delle norme sia in relazione proiettiva con le finalità perseguite sia in rapporto con l’insieme preesistente, che tecnicamente definiamo «sistema».
     Ora non vi è dubbio che la verità scientifica di un assunto non può essere acquisita “a colpi di maggioranza”, ma è altrettanto indubbio che nel procedimento interpretativo di un testo di legge abbia un certo peso l’opinione dominante presso i cultori e gli operatori di quel settore disci-plinare. Ed allora pensi davvero che siffatto atteggiamento culturale pos-sa essere sbrigativamente liquidato come il punto di vista di una corpora-zione che fa surrettiziamente politica del diritto?

     E veniamo all’osservazione di metodo.
     Tu affermi che intravvedi per la nostra comunità «una perdita di rilevanza nella costruzione del diritto del lavoro e – più in generale – della cultura giuslavoristica del nostro Paese». È un’affermazione grave e sono sicuro, conoscendo la tua storia personale, che è formulata con rammarico, non certo con iattanza e, meno che mai, con disprezzo.
     Qui è evidente che parla l’Ichino politico, il riformatore, che si batte per la modificazione dell’esistente, non certo lo studioso. Orbene se il discorso si svolge sul piano di una valutazione critica che il “politico” rivolge ad una comunità di studiosi, esterna a sé medesimo, la circostanza che il dibattito interno alla comunità degli studiosi del diritto del lavoro sia più o meno distante dalle discussioni e dalle proposte che si svolgono in sedi propriamente decisorie (il parlamento italiano, gli organismi euro-pei, gli altri ordinamenti, etc.) va apprezzata come un fatto per così dire politico suscettibile di essere valutato nell’agone, per l’appunto, politico.
     E allora – se è questo il piano di discussione – mi chiedo e ti chiedo: è la comunità dei giuslavoristi che deve prendere atto di un proprio scollamento rispetto ai “discorsi” che si fanno in sede decisoria o è la poli-tica che deve prendere atto che da un po’ di tempo a questa parte elabora prodotti normativi che non sono condivisi dall’intera (o da una grandis-sima parte della) comunità accademica che si occupa professionalmente dello studio del diritto del lavoro?
     Insomma: qual è il “fatto” politicamente rilevante il primo o il se-condo?
     Un caro saluto
     O. M.

IL PRIMO COMPITO DEL GIURISTA È INTERPRETARE LEALMENTE LA VOLONTÀ DEL LEGISLATORE GARANTENDONE LA COERENZA CON IL RESTO DEL SISTEMA
Caro Oronzo, ti ringrazio di questa prosecuzione del dialogo congressuale e a mia volta ti rispondo.
     Innanzitutto sui rilievi concernenti il merito del disegno di legge.
     a) Quanto all’articolazione in più livelli dell’apparato sanzionatorio, nella disciplina dei licenziamenti, essa non è una novità nel nostro ordinamento: già oggi osserviamo una differenza di sanzioni tra aziende  medio-grandi e aziende piccole; in riferimento a queste ultime, la osserviamo tra sanzione risarcitoria che costituisce la regola generale e sanzione reintegratoria comminata per il licenziamento discriminatorio; e anche nell’area di applicazione generalizzata della tutela reale osserviamo qualche differenza, in relazione a determinate circostanze, per quel che riguarda la parte risarcitoria della sanzione. Una differenziazione più marcata era prevista in disegni di legge presentati, negli anni passati, da giuslavoristi illustri come Gino Giugni e Tiziano Treu; e, molto più modestamente, nel disegno di legge n. 1873/2009, di cui io sono primo firmatario.  Dunque, non mi sembra affatto che questa articolazione possa essere considerata di per sé una scelta eterodossa o contraria alla logica interna del sistema.
    
b) Quanto alle “complesse alchimie che scompongono e ricompongono i presupposti che legittimano i licenziamenti”, anch’io avrei di gran lunga preferito una disciplina della materia strutturata in maniera più semplice, quale era quella delineata nel mio disegno di legge, o anche quella proposta inizialmente dal Governo nella prima metà di marzo. Però neppure questa mi sembra costituire una gran novità: nella nostra materia, negli anni passati, dottrina e giurisprudenza hanno prodotto alchimie anche più complesse di queste.
    
c) Quanto infine alla predisposizione di un procedimento giurisdizionale ad hoc concordo con quanto mi scrivi: non è questo il modo in cui si possono sveltire i processi.
     Non condivido, invece, il tuo rammarico per la maggiore incertezza che questo nuovo ordinamento introdurrebbe, circa l’esito della controversia. Per un verso, infatti, i limiti posti all’entità dell’indennizzo costituiscono – eccome – un fattore di riduzione dell’incertezza, rispetto alla situazione attuale, nella quale l’entità dell’eventuale risarcimento dipende  essenzialmente dalla durata del procedimento. Per altro verso, la modulabilità della sanzione in relazione alle circostanze e alla qualità del caso concreto mi sembra comunque un miglioramento, rispetto alle iniquità e ai paradossi generati, nel regime attuale, dall’ineluttabile automaticità della reintegrazione.

     Ma, come tu stesso hai ben capito,  la questione che ho posto con il mio  intervento al Congresso della nostra Associazione non riguarda tanto il merito di questo disegno di legge, quanto piuttosto il modo nel quale la discussione in proposito è stata impostata nelle relazioni e in quasi tutti gli altri interventi, nel corso dello stesso Congresso. E ho posto questa questione parlando – qui devo contraddirti – in qualità di studioso, di giurista, e non in qualità di politico.
     Proprio da giurista dico che non mi sembra compatibile con le disposizioni preliminari del Codice civile (in particolare con il riferimento contenuto nell’articolo 12 all’ “intenzione del legislatore”) l’atteggiamento del giurista il quale si accinge a interpretare una nuova legge adottando come criterio di scelta, tra le diverse eventuali letture possibili, un proprio intendimento mirato a ridurre al minimo gli effetti dichiaratamente perseguiti dal legislatore. Questo è l’atteggiamento che può legittimamente assumere un partito di opposizione, o un sindacato che intenda contrastare le scelte del legislatore; ma – ripeto ancora – la nostra comunità accademica non può ridursi al ruolo di un partito o di un sindacato, se non vuole perdere autorevolezza nel campo che le è proprio, se non vuole ridurre il campo dell’interpretazione della legge (e quindi anche la giurisdizione) al teatro di una guerra per bande. Una comunità di giuristi degna di questo nome deve, al contrario, mostrare come si possa e si debba affrontare il delicato compito dell’interprete sulla base di una distinzione concettuale chiara e rigorosa tra le opzioni ermeneutiche 
de iure condito e quelle politico-sindacali de iure condendo, di cui ciascuno di noi è in qualche misura portatore.
      Il primo dovere del giurista è di essere interprete leale di ciò che il legislatore ha inteso dire e ha voluto; inoltre di essere il custode della coerenza logica dell’intero sistema delle norme dalle quali l’ordinamento è composto, poiché nel mondo del dover essere giuridico non sono concepibili comandi tra loro contraddittori. Se su questo concordi, converrai con me almeno su questo punto: l’opera di interpretazione della nuova disciplina dei licenziamenti che si apre con la dichiarazione dell’intendimento di ridurre al minimo l’area di applicazione della tutela indennitaria, in presenza di un chiaro intendimento inverso del legislatore, sarebbe accettabile soltanto in presenza di un vincolo costituzionale a favore della tutela reintegratoria. Ma i tre precedenti della Corte costituzionale citati nel mio intervento al Congresso mostrano come questo vincolo non ci sia affatto. Dunque l’interprete che ispira la propria opera a questo intendimento, ignorando quello diametralmente opposto espresso in modo esplicito dal legislatore, tradisce il proprio compito.    (p.i.)

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