IL DIRITTO DEL LAVORO AL TEMPO DELLA CRISI E LA CRISI DI IDENTITÀ DEI GIUSLAVORISTI ITALIANI

IL RISCHIO CHE QUESTA COMUNITÀ ACCADEMICA PERDA IL PESO  CHE DOVREBBE AVERE NELL’EVOLUZIONE DELLA PROPRIA MATERIA E DELLA CULTURA STESSA DELLE RELAZIONI INDUSTRIALI

Intervento al Congresso dell’Associazione Italiana di Diritto del Lavoro e della Sicurezza Sociale, Pisa, 8 maggio 2012 – V. anche, in proposito, la lettera aperta di Oronzo Mazzotta, del 12 giugno 2012, con la mia replica

     Prima di tutto consentitemi di cogliere questa occasione per ringraziarvi della manifestazione unanime di solidarietà di fronte agli insulti e alle minacce che nei giorni scorsi i nuovi brigatisti hanno rivolto a me, con l’intento di colpire in realtà tutti noi, la nostra libertà di pensiero e la nostra stessa dignità di cittadini liberi. E per chiarire una cosa che forse non è risultata chiara nel modo in cui la vicenda è stata riportata dai media. All’inizio del procedimento davanti alla Corte d’Assise di Milano sono stato molto incerto sul punto se costituirmi parte civile oppure no; ho deciso di farlo, anche sulla base del consiglio di alcune persone sagge con cui ne avevo parlato, solo per evitare il rischio di una banalizzazione dell’intera vicenda, che emergeva dalla linea difensiva dei difensori degli imputati (“è tutta una montatura”, oppure: “è solo folklore estremistico, senza vero pericolo per nessuno”), in singolare contrasto con il comportamento degli stessi imputati. Nessuno di questi ultimi ha risposto positivamente alla proposta, da me formulata fin dall’inizio del procedimento, nel senso di ritirare la costituzione di parte civile dietro il puro e semplice riconoscimento del mio diritto a non essere aggredito. Il rifiuto di questo riconoscimento  da parte loro – anche di chi è poi stato assolto dalle imputazioni – e da parte dei loro rumorosi sostenitori costituisce un fatto grave, un’ombra inquietante sulla nostra convivenza civile. Non per me, ma per tutti noi, per tutto il Paese: una minaccia che non può e non deve essere sottovalutata.

     Ma veniamo al nostro tema. La cosa di cui vorrei parlarvi, anche se so che sarà percepita da molti come urticante, è un rischio che vedo per la nostra comunità accademica: quello di una sua perdita di rilevanza nella costruzione del diritto del lavoro e – più in generale – della cultura giuslavoristica del nostro Paese. Di questa perdita di rilevanza vedo un segnale non tanto nella pur impressionante divaricazione tra le nostre elaborazioni e la produzione legislativa dell’ultimo decennio: si può anche considerare fisiologico l’alternarsi di stagioni di divergenza e di convergenza di orientamenti de jure condendo tra legislatore e studiosi della materia.  Vedo invece un segnale assai più preoccupante di quel rischio nel diaframma ermetico che impedisce la nostra cooperazione collettiva con il legislatore (quella di cui parlava ieri Marcello Pedrazzoli) anche nelle scelte tecniche di scrittura dello ius conditum: un diaframma cui contribuisce, certo, la diffidenza diffusa in Parlamento nei nostri confronti, e non soltanto nel centrodestra, ma cui contribuisce simmetricamente anche il modo in cui squalifichiamo e disprezziamo i suoi prodotti normativi in quanto poco corrispondenti alle nostre visioni e preferenze. Vedo, poi, un altro segnale molto preoccupante nella totale alterità tra i termini del nostro dibattito interno e quelli dei dibattiti che si svolgono nelle sedi dove si decidono le politiche del lavoro nelle istituzioni europee: di quella stessa Europa a cui tutti noi vogliamo appartenere e con i cui standard diciamo di voler armonizzare la nostra legislazione, ma che siamo pronti a squalificare appena dice cose che non rientrano nei nostri schemi. Parliamo proprio di cose diverse, con linguaggi diversi, su lunghezze d’onda molto diverse.
.    D’altra parte, l’autorevolezza culturale di una comunità accademica, e in particolare di una comunità che coltiva il diritto del lavoro, nasce dalla sua capacità di conciliare il proprio ruolo di interprete dello ius conditum con l’impegno a essere luogo di confronto tra orientamenti diversi sul terreno dello ius condendum, senza che questa seconda funzione possa in qualche modo appannare la prima. Ma non può non risultare appannata la prima funzione quando una scelta compiuta in questi giorni dal legislatore – discutibile finché si vuole, ma pur sempre scelta meditata e lungamente discussa tra il Governo, le forze politiche che lo sostengono e le parti sociali interessate – viene liquidata sprezzantemente come “fesseria” (è proprio il termine usato poco fa a questo proposito da Mario Napoli), o quando l’intero disegno di legge presentato dal ministro del Lavoro viene indicato nel corso del nostro dibattito come il “pastrocchio Fornero”, e la Cisl, che vi ha maggiormente contribuito, come “sindacato giallo”. Maria Teresa Carinci si è espressa con parole diverse: con grande e molto apprezzabile trasparenza ha esplicitato il proprio “preciso intento – nell’accingersi all’opera di interpretazione del nuovo testo legislativo – di conservare un’area più ampia possibile di applicazione della reintegrazione” come sanzione per il licenziamento nel caso di esito negativo della verifica giudiziale; senonché questo è l’intendimento esattamente opposto rispetto alla voluntas esplicitamente enunciata dal legislatore bi-partisan nell’emanare la nuova norma in esame. Intendimento – quello di Maria Teresa – ovviamente del tutto legittimo nel dibattito sullo ius condendum; ma qui è chiaro a tutti che stiamo invece parlando sostanzialmente di ius conditum, anche se manca ancora qualche giorno alla conclusione dell’esame del disegno di legge in seconda lettura da parte della Camera. La nostra relatrice, dunque, ci ha proposto una raffinata opera di interpretazione della nuova norma, dichiarando esplicitamente che l’opera stessa è mirata a contrastarne gli obiettivi, a ridurre il più possibile gli effetti perseguiti dal legislatore. E i due colleghi designati per il ruolo di discussant sulla relazione di Maria Teresa hanno manifestato pieno consenso con lei su questa scelta. Pur con tutta la stima e l’amicizia che mi lega a relatrice e discussants, a me sembra che questa confusione indebita tra preferenze de iure condendo e criteri di lettura dello ius conditum non giovi alla nostra autorevolezza come interlocutori delle istituzioni, dei policy makers; perché contribuisce a identificarci come un partito più che come un luogo di produzione di cultura giuridica.
.    L’intendimento che il legislatore ha enunciato, nel varare la nuova disciplina dei licenziamenti di cui stiamo discutendo, è sostanzialmente questo: riservare la restitutio in integrum – quella che secondo l’approccio di law and economics viene classificata come property rule – ai casi in cui è in gioco un diritto assoluto della persona del lavoratore: dignità, libertà morale, onorabilità personale; e riservare invece la tutela indennitaria, la liability rule, ai casi in cui sia in gioco soltanto un suo interesse economico e professionale. Si possono criticare le singole scelte di formulazione testuale; ma davvero possiamo sostenere che sia irragionevole, irrazionale, contraddittorio con la struttura logica del sistema (così l’ha qualificata la relazione di Maria Teresa Carinci),  l’adozione di una tecnica protettiva che è quella largamente dominante negli ordinamenti europei, applicandosi oggi a più del 95 per cento della loro forza lavoro dipendente? Davvero possiamo sostenere con tanta sicurezza che una scelta di questo genere sia incostituzionale, quando per ben tre volte (nel 1965, nel 2000, in occasione del referendum radicale sull’articolo 18, e nel 2008) la Corte costituzionale ha invece dichiarato la piena compatibilità con la Costituzione della sanzione soltanto risarcitoria contro il licenziamento illegittimo? Come possiamo dimenticare le opinioni espresse a questo riguardo anche da un nostro maestro da tutti amato e rispettato come Gino Giugni, e poi ultimamente da Tiziano Treu che di questo disegno di legge è stato uno dei due relatori di maggioranza in Senato?
.    A me sembra, invece, che – al di là di tutte le sacrosante critiche cui prestano il fianco le singole opzioni di tecnica normativa compiute nel disegno di legge al nostro esame – questa scelta sia assai opportuna su entrambi i versanti della materia del licenziamento individuale. Su quello del licenziamento disciplinare essa è tanto più opportuna quanto più paradossali e irragionevoli sono gli esiti – ai quali così frequentemente assistiamo – di un regime che, unico nel panorama europeo, non ammette alcuna alternativa alla reintegrazione, neppure nei casi in cui il giudice stesso rileva un concorso di colpa del lavoratore nel determinare la cessazione del rapporto. Sul versante del licenziamento per motivo economico od organizzativo, per altro verso, questa del legislatore a me sembra una scelta tanto più opportuna quanto più gravi sono state in quest’ultimo mezzo secolo le aporie della giurisprudenza circa la nozione stessa di giustificato motivo oggettivo, e quanto più plateale è stata la contraddizione tra il mille volte riaffermato principio di insindacabilità delle scelte imprenditoriali e il modo in cui di fatto quelle scelte sono state intrusivamente sindacate nelle aule giudiziarie, ogni volta che il giudice si è sostituito all’imprenditore nella valutazione circa l’utilizzabilità del lavoratore in altra posizione in seno all’azienda, oppure circa l’entità del prevedibile calo delle vendite di un prodotto, oppure ancora circa la congruità delle competenze linguistiche del lavoratore rispetto alle esigenze aziendali, e così via. In tutti questi casi ora il nuovo regime, prevedendo soltanto una (pur robusta) sanzione indennitaria, determinerà una nuova situazione nella quale l’indennità stessa costituirà una sorta di filtro automatico delle scelte dell’imprenditore: laddove la perdita attesa dalla prosecuzione del rapporto superi l’importo di quell’indennità, egli potrà procedere, col licenziamento individuale, a quell’“aggiustamento fine” degli organici che fino a oggi gli è stato di fatto fortemente inibito, proprio per l’assenza di un severance cost predeterminato. Per altro verso, l’entità massima della sanzione (l’equivalente di 24 mensilità dell’ultima retribuzione), superiore di un terzo rispetto al limite massimo vigente in Germania, fa sì che il nostro ordinamento nazionale resti al vertice della graduatoria di protettività in materia di licenziamenti individuali, rispetto a tutto il resto d’Europa.
Aggiungo che mi è, poi, difficile comprendere la logica seguita da Maria Teresa quando per un verso nella sua relazione riconosce che sarebbe costituzionalmente legittima e compatibile con l’articolo 30 della Carta di Nizza dei diritti fondamentali la protezione di tipo obbligatorio fondata sul controllo giudiziario e sulla condanna del datore di lavoro al pagamento di un’indennità in caso di esito negativo della verifica giudiziaria, mentre per altro verso sostiene che sarebbe incostituzionale e contraria alla Carta di Nizza l’imposizione dello stesso indennizzo – per quanto elevato – in tutti i casi di licenziamento per motivo oggettivo: quindi, a ben vedere, una soluzione più favorevole al lavoratore.

.    Intendiamoci bene: anch’io vedo molti difetti in questo disegno di legge governativo. A cominciare dalla sua illeggibilità per la quasi totalità dei milioni di cittadini che saranno chiamati ad applicarlo: la semplificazione della nostra legislazione del lavoro deve costituire una nuova frontiera di importanza prioritaria nel prossimo futuro. Inoltre in alcuni punti del disegno di legge – in particolare nella norma volta a contrastare il fenomeno delle dimissioni in bianco: questione che poteva essere agevolmente risolta in modo molto più semplice – affiora ancora la vecchia cultura giuslavoristica, che tende a complicare la vita al datore come al prestatore di lavoro in 99 casi, per prevenire l’abuso in un centesimo caso. Dimenticando che in questo modo, in realtà, anche il centesimo lavoratore viene danneggiato, perché le complicazioni burocratiche hanno un effetto depressivo sulla domanda di lavoro; mentre non c’è tutela migliore per chi è trattato male in un’azienda che potersene andare sbattendo la porta perché ce n’è un’altra pronta ad assumerlo trattandolo meglio. Lungi da me, dunque, l’idea di incensare questo provvedimento legislativo che si avvia a concludere il proprio iter parlamentare. Mi colpisce, però, che né nelle pur pregevoli relazioni introduttive del nostro congresso, né da parte dei discussants, sia stato espresso un seppur minimo apprezzamento per il fatto che:
.       – dopo 18 anni di deleghe legislative al Governo per la riforma in senso universalistico degli ammortizzatori sociali, durante i quali nessun Governo, né di centrodestra né di centrosinistra, è riuscito a cavare un solo ragno dal buco, una legge per la prima volta provvede a istituire una assicurazione universale contro la disoccupazione e a ricondurre rigorosamente la Cassa integrazione alla funzione che le è propria;
.       – dopo tre decenni nei quali si è assistito alla fuga dal lavoro subordinato nella forma della collaborazione autonoma per così dire border-line, per la prima volta una legge pone al centro dei propri obiettivi e dell’agenda di politica del lavoro del Paese la questione del superamento del dualismo fra protetti e non protetti, recando norme che, peraltro, la stessa relazione di Maria Teresa Carinci giudica efficaci e incisive per il riassorbimento almeno delle forme più evidenti di elusione del diritto del lavoro attuate mediante le collaborazioni autonome.
.    Sconcerta, in particolare, questa nostra incoerenza: ci stracciamo le vesti per qualche marginale riduzione di “articolo 18” per i lavoratori regolari stabili che già ne godono, mentre mostriamo un’indifferenza pressoché totale per la sua estensione a centinaia di migliaia di collaboratori che oggi non godono non soltanto dell’articolo 18, ma neppure di alcuna altra protezione. La stessa incoerenza, del resto, ha mostrato nel corso del negoziato su questa riforma la parte politica cui appartengo, quando ha dichiarato pubblicamente la propria disponibilità a rinunciare per intero al riassorbimento delle collaborazioni autonome fasulle nell’area del lavoro dipendente, in cambio di una rinuncia del Governo a “toccare” l’articolo 18.

.    Vorrei infine dedicare gli ultimi minuti che mi restano di questo intervento a un’osservazione critica circa l’insofferenza che è emersa nelle relazioni di ieri e di oggi e in numerosi interventi nei confronti dell’invito, che ci viene da parte dei vertici europei e da diverse autorità economico-finanziarie, a rendere gli standard minimi di trattamento più flessibili, più adattabili alle circostanze economiche locali; quindi anche a privilegiare la contrattazione collettiva aziendale come fonte degli standard medesimi. Colpisce che questa insofferenza sia espressa – e non soltanto in questa sede – dalle stesse persone che esaltano l’utilità delle ricette keynesiane per la crescita economica del Paese. Perché quello che Keynes raccomanda, a ben vedere, è essenzialmente l’uso dell’inflazione come risposta alla rigidità dei salari nominali verso il basso nelle situazioni di crisi congiunturale; più precisamente, come strumento per operare una sorta di “taglio lineare” del potere d’acquisto reale di tutti i lavoratori, finalizzato a evitare l’aumento della disoccupazione e l’avvitamento recessivo, contemporaneamente “pompando” domanda di beni e servizi nel sistema. Ora, in una situazione nella quale con i nostri partner europei abbiamo consapevolmente scelto di rinunciare a questa utilizzazione in funzione anti-ciclica dell’inflazione (in precedenza ottenuta con lo stampare più moneta), il solo modo in cui possiamo combattere la disoccupazione congiunturale consiste nel rendere meno rigidi gli standard minimi, consentendo che la contrattazione aziendale li adatti alle circostanze specifiche. Questo significa, in sostanza, sostituire il “taglio lineare”, quello operato mediante l’inflazione keynesiana, con dei “tagli su misura” per le singole situazioni, operati da un sindacato-intelligenza collettiva dei lavoratori capace di valutare caso per caso i vincoli e le opportunità offerte dalle circostanze. Così stando le cose, critichiamo pure l’articolo 8 del decreto-legge n. 138/2011 (anche perché non ha senso affidare la necessaria riforma del diritto del lavoro alla contrattazione aziendale), purché siamo consapevoli della necessità di chiarire in quale altro modo intendiamo risolvere il problema, evitando che la rigidità degli standard, nella fase recessiva, generi disoccupazione, povertà e distruzione di ricchezza.
.     Nel nostro dibattito di questi giorni, e in particolare nella relazione di Maria Teresa Carinci, sento rispondere, su questo punto, che la soluzione del problema va perseguita attraverso una “politica espansiva”. Che immagino significhi – stringi stringi – una politica di investimenti pubblici: si torna sempre alla ricetta keynesiana. Ma chi predica questa soluzione dovrebbe chiarire da dove possano arrivare le risorse per gli investimenti pubblici, dal momento che abbiamo già molto keynesianamente raggiunto e ampiamente superato i limiti massimi possibili di indebitamento pubblico e di prelievo fiscale complessivo (occorre ridurlo e redistribuirlo, ma certo non aumentarlo). Oggi non saremmo alla mercé dei mercati finanziari internazionali, se non avessimo accumulato duemila miliardi di debito pubblico. Se, in nome della purezza dei nostri dogmi giuslavoristici, rifiutiamo la soluzione della flessibilizzazione degli standard minimi, abbiamo l’onere di indicare gli altri strumenti con i quali intendiamo combattere la disoccupazione, anzi far crescere i nostri bassissimi tassi di occupazione; e non possiamo pensare di salvarci l’anima col rituale auspicio di un aumento degli investimenti pubblici.
.     Questa nostra discussione di oggi, comunque, sottolinea positivamente quanto sia importante un dialogo aperto tra noi giuristi e gli economisti. Un dialogo del quale non dobbiamo diffidare, per timore di un’egemonia del pensiero economico su quello giuridico, del mercato sui valori. La realtà è che abbiamo costantemente bisogno di verificare la coerenza degli effetti delle norme giuridiche con i valori che esse perseguono: una verifica che lo studio del contenuto formale delle norme stesse non è mai in grado, da solo, di fornire. Il mio auspicio – lo affido al comitato direttivo dell’Associazione che uscirà domani dalle urne del nostro congresso – è che nel prossimo futuro sappiamo coltivare questo dialogo più e meglio di quanto abbiamo saputo fare fin qui.

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