ANDREA ICHINO: SUL LAVORO NON BASTA IL CORAGGIO DEL MINISTRO

LA RIFORMA MUOVE NELLA DIREZIONE GIUSTA, MA TROPPI COMPROMESSI NE PREGIUDICANO LA COMPRENSIBILITÀ E QUINDI L’EFFICACIA SUL SUL PIANO ECONOMICO

Articolo di Andrea Ichino pubblicato sul Corriere della Sera il 24 maggio 2012

Bisogna evitare che sia ulteriormente annacquata dal Parlamento e possibilmente riportarla al livello di incisività di cui il Paese avrebbe bisogno: altrimenti la riforma del mercato del lavoro attualmente in discussione al Senato sarà un’altra occasione mancata per il Governo. Certo non per colpa del Ministro Fornero a cui va riconosciuto il merito di averci coraggiosamente provato, ma per effetto dei veti incrociati e dei bizantinismi dei giuristi che in questo Paese trasformano ogni disegno coerente di riforma in compromessi che, nella migliore delle ipotesi, non possono produrre effetti positivi.
Un merito, per fortuna, la riforma lo ha già avuto anche così: aver messo in discussione il tabù, secondo cui il lavoratore ha sempre e comunque un diritto di proprietà sul suo posto di lavoro, dal quale non può essere allontanato se non in casi assolutamente eccezionali. E aver affermato, invece, che esistono casi in cui il contratto di lavoro deve potersi risolvere per sola volontà dell’impresa, fatto salvo un semplice risarcimento (magari elevato) del danno che il lavoratore subisce a causa della risoluzione del contratto, senza coinvolgere avvocati e tribunali. Questa è la norma in molti altri Paesi, ad esempio quelli scandinavi, dove certo è difficile dire che la dignità dei lavoratori sia in tal modo calpestata.
Questo passo in avanti è però attualmente inserito in un testo legislativo di impossibile lettura per i profani (con buona pace della tanto attesa semplificazione), che darà origine a sottili disquisizioni giuridiche con margini enormi di ambiguità riguardo all’interpretazione di parole dal significato opinabile (come “manifesta insussistenza” del motivo del licenziamento). Difficile pensare che questa riforma, senza miglioramenti, possa ridurre il contenzioso davanti ai giudici in materia di licenziamento anche solo per motivo puramente economico, e quindi che possa stimolare le imprese ad assumere di più mediante contratti a tempo indeterminato, ossia quelli che dovrebbero essere i contratti normali. Con il risultato paradossale di non garantire certezze al datore di lavoro riguardo ai confini della sua libertà di impresa, ma nemmeno di garantire sicurezze al lavoratore la cui sorte è comunque affidata agli orientamenti e alle interpretazioni di giudici che necessariamente non possono pensarla tutti allo stesso modo. Ancor più paradossale è il fatto che il lavoratore di cui venga convalidato dal giudice il licenziamento per motivo economico (oggettivo), senza alcuna colpa si ritroverà privo di qualsiasi indennizzo, come già accade nella disciplina attuale che in questo almeno avrebbe dovuto essere cambiata.
Meglio sarebbe stato partire dall’assunto che i casi di licenziamento possono essere raggrupati in due famiglie. Da un lato, quelli con intento discriminatorio oppure che violano la dignità e onorabilità del lavoratore con accuse false: in questi casi il diritto del lavoratore alla completa reintegrazione (come se il licenziamento non avesse avuto luogo) oltre che al danno, son da considerare del tutto appropriati. Dall’altro lato, tutti i casi in cui l’unico problema rilevante è valutare se la prosecuzione del rapporto comporta un costo e/o un mancato beneficio per l’impresa e quanto grandi essi siano. In realtà non importa nemmeno se questo costo o mancato beneficio dipendano da comportamenti del lavoratore, da sue caratteristiche o da altri fattori economici con cui il lavoratore non ha nulla a che fare. In tutta questa seconda categoria di casi, quel che conta è solo decidere se il danno che l’impresa subisce è di entità sufficiente per giustificare un licenziamento. E il modo migliore per farlo è stabilire un prezzo che l’azienda deve pagare per poter interrompere il rapporto. Questo prezzo, fissato dalla contrattazione collettiva o dal Parlamento, rappresenterebbe il danno che la collettività ritiene sufficientemente alto da giustificare l’interruzione del contratto. Sarebbe quindi una limitazione della libertà di impresa, motivata dalla condizione di maggiore debolezza del lavoratore, ma di entità certa e quindi meno inutilmente costosa. E andrebbe direttamente nelle tasche del lavoratore senza ingrassare gli avvocati e senza rallentare i tribunali che potrebbero così meglio concentrare le loro (scarse) risorse sui casi di sospetta discriminazione o violazione della dignità e onorabilità dei lavoratori.
Con questo modo di procedere, le parti andrebbero in giudizio (invece di procedere con la risoluzione abbinata al risarcimento) solo quando il lavoratore fosse in grado di provare l’intento discriminatorio o la falsità delle accuse da parte dell’impresa, oppure quando fosse l’impresa a non voler pagare il risarcimento ritenendo che il lavoratore abbia colpe gravi. Ma la maggior parte delle imprese, anche in questi casi, preferirebbe di gran lunga pagare il risarcimento e passare oltre.
Se questa strada venisse adottata, la riforma stimolerebbe davvero le assunzioni a tempo indeterminato. Il pasticcio che sta emergendo dai veti incrociati rischia invece di portare solo a maggiori licenziamenti da parte delle imprese in crisi, senza effetti positivi sull’occupazione nelle imprese che invece potrebbero espandersi.

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