DOPO L’AGGUATO DI GENOVA, LA DIGOS PAVENTA PIÙ L’IMITAZIONE DA PARTE DI GRUPPI ISOLATI CHE IL DIFFONDERSI DEL CONSENSO INTORNO AI GRUPPI ARMATI – MA PER SPEZZARE LA SPIRALE LA COSA PIÙ IMPORTANTE È LA SALDEZZA DEL QUADRO POLITICO E UNA RIDUZIONE DELLO SPREAD, CHE CI CONSENTA DI ABBASSARE L’IRPEF SUL LAVORO
Intervista a cura di Guido Ruotolo, pubblicata dalla Stampa il 14 maggio 2012 – Sul documento dei sedicenti anarchici relativo al loro attentato al dirigente dell’Ansaldo del 7 maggio v. il commento che ho redatto per la Newsletter n. 200
Professore Ichino nel giro di poche ore abbiamo avuto la rivendicazione dell’agguato all’ingegnere Adinolfi, gli scontri sotto la sede di Equitalia a Napoli e le molotov di Livorno. Cosa sta succedendo?
I violenti, nella quasi totalità dei casi, non sono quelli che soffrono di più, le vere vittime della disuguaglianza e della povertà. Ma sono pronti a cogliere i segni dell’aggravarsi del disagio sociale, per proporsi come i veri paladini di chi soffre».
Non è preoccupato, professore?
«Lo sono. Ma più per la debolezza del quadro politico che per le follie di questi sedicenti anarchici».
Per il presidente Monti la crisi sta producendo un forte disagio sociale. Le politiche di rigore se non accompagnate a misure di crescita rischiano di provocare un default sociale. Un punto di rottura democratica.
Il problema è che abbiamo sempre inteso come unica possibile misura di crescita un aumento della spesa pubblica. Questo è possibile solo aumentando le tasse, stampando moneta, oppure indebitandoci ulteriormente: tutte cose che oggi di fatto non possiamo permetterci».
Perché?
Aumentare le tasse oltre l’altissimo livello attuale significherebbe soffocare ulteriormente il Paese. Stampare moneta è prerogativa nazionale a cui abbiamo rinunciato con l’entrata nel sistema dell’euro. Quanto all’indebitarci, la mia generazione ha esaurito la capacità del Paese di accumulare debito trovando credito nei mercati finanziari: indebitarci di più significherebbe andare dritti verso la bancarotta.
Vuol dire che in Italia oggi non è possibile alcuna misura di crescita?
«Niente affatto. Un’altra leva disponibile c’è, ed è l’apertura del Paese agli investimenti esteri; il problema è che questa implica la correzione di alcuni gravi difetti strutturali del nostro Paese. Monti ci sta provando. Poi c’è la possibilità che sia l’Unione Europea a lanciare quelle misure espansive che i singoli suoi Stati membri non possono praticare. E anche questo è un obiettivo cui Monti sta puntando con molta determinazione e competenza».
Nel Paese, la questione fiscale rischia di trasformarsi in questione di ordine pubblico. E il paradosso è che oggi chi paga le tasse sono i lavoratori dipendenti e i ceti più deboli.
«Infatti, dall’inizio di questa legislatura sostengo che la prima misura necessaria sarebbe una forte detassazione dei redditi di lavoro fino a mille euro, e una detassazione ulteriore di quelli delle donne, per aumentare la loro partecipazione alle forze di lavoro. Basterebbe mezzo punto di interesse in meno sui buoni del Tesoro per darci i dieci miliardi necessari. In mancanza di questo, sarei favorevole anche a un rilevante aumento dell’Irpef sui redditi superiori ai centomila euro annui, pur di ridurre il prelievo sui redditi di lavoro più bassi e su quelli femminili».
La crisi crea povertà, suicidi, disperazione. Se negli anni passati tutti fossero stati costretti a pagare le tasse non saremmo in questa situazione…
È vero. Ma è anche vero che, appena un Governo prova a essere severo sul piano fiscale, subito si alza un coro di proteste contro lo “Stato di polizia” e le vessazioni subite dal povero contribuente. È accaduto con Visco cinque anni fa, oggi accade con Monti».
Il documento di rivendicazione del nucleo “Olga” più che le tematiche legate al lavoro sembra lanciare la sfida eversiva sulle aziende di Finmeccanica e su Equitalia. Quale è la sua valutazione?
«Mi sembra che quel documento abbia un contenuto politico scarsissimo. Questi sedicenti anarchici confessano candidamente di non credere nel valore politico della loro violenza, ma di praticarla soltanto per motivi esistenziali e di auto-gratificazione: “per uscire dall’alienazione”, scrivono, “con una certa gradevolezza abbiamo armato le nostre mani”, “non cerchiamo consenso, ma complicità”. Leggo in queste parole una rinuncia esplicita a perseguire concretamente effetti politici generali».
Gli inquirenti, però, sono preoccupati perché temono che il documento Fai attragga consensi, come del resto crea consenso la campagna con i pacchi bomba contro Equitalia e l’Agenzia delle Entrate.
«Temono l’imitazione, più che il consenso. E hanno ragione. Ma imitare un’assassinio o un ferimento è molto più difficile che imitare un pacco bomba. E oggi la Digos è attrezzata molto meglio di quanto non fosse trent’anni fa».
Non pensa che con il sindacato si debba cercare una strategia comune per fronteggiare la crisi, rinunciando a iniziative legislative non condivise?
«Lo considererei un errore grave. Perché significherebbe accreditare due idee sbagliatissime: che la violenza possa davvero condizionare le istituzioni democratiche e che il movimento sindacale abbia qualche cosa a che fare con il terrorismo».
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