ROMANO: LA RISPOSTA CHE I PARTITI NON DANNO A UN PAESE DELUSO

IL RISULTATO ELETTORALE DOVREBBE SPINGERE I PARTITI A POR MANO SUBITO A SERIE RIFORME ISTITUZIONALI: SE NON LO FANNO, IL RISCHIO È UNA DERIVA DI TIPO GRECO

Editoriale di Sergio Romano sul Corriere della Sera del 10 maggio 2012 – Per una lettura solo parzialmente diversa del voto amministrativo del 6 maggio v. anche l’editoriale di Luca Ricolfi su La Stampa del 9 maggio

Le elezioni amministrative hanno risvegliato tutte le peggiori tentazioni della politica italiana. Il Pdl vorrebbe arrestare il proprio declino imponendo al governo una politica meno rigorosa. Nel Pd qualcuno comincia a pensare che converrebbe cogliere l’occasione per chiudere la fase del governo tecnico e anticipare la fine della legislatura. E le frange premiate dal voto, come il movimento di Beppe Grillo, vorrebbero le elezioni subito per consolidare il capitale conquistato.
A nessuno sembra essere passato per la mente che il quadro generale uscito da questo voto rende l’Italia molto più simile alla Grecia di quanto non assomigli alle altre maggiori democrazie europee. La Spagna ha mandato a casa il governo socialista di Zapatero, ma ha dato a un altro partito il diritto di governare. La Francia ha congedato Nicolas Sarkozy, ma ha dato la sua fiducia a un uomo che avrà il diritto di restare per cinque anni alla guida del Paese. Né Mariano Rajoy, né François Hollande hanno in mano le chiavi della crisi. Ma nei prossimi mesi, vale a dire quando occorrerà trovare ai vertici dell’Europa la migliore combinazione fra rigore e crescita, la Spagna e la Francia saranno governate da persone che hanno il diritto e il dovere di farlo. Quale sarebbe la governabilità dell’Italia se da un’elezione anticipata emergesse un quadro simile a quello degli scorsi giorni?
Temo che i partiti italiani non abbiano capito il senso e lo scopo della formula adottata dal presidente della Repubblica dopo le dimissioni del governo Berlusconi. Mario Monti e i suoi tecnici avrebbero dovuto restaurare la credibilità finanziaria dell’Italia, riformare il mercato del lavoro, creare le condizioni per una economia più libera e competitiva. I partiti avrebbero dovuto assecondare il governo ma dedicarsi contemporaneamente ad altri compiti che non possono essere, in una democrazia, «tecnici». Avrebbero dovuto modificare la legge elettorale, ridurre il numero dei parlamentari, rompere l’incantesimo del bicameralismo perfetto, dare a se stessi uno statuto giuridico corrispondente alle loro responsabilità, dare al Paese un esempio di rigore finanziario riducendo drasticamente il denaro pubblico di cui si sono spensieratamente serviti dopo un referendum che diceva chiaramente quale fosse, a questo proposito, il pensiero del Paese.
Ebbene, nulla di ciò che avevamo il diritto di attenderci in materia di riforme istituzionali è stato fatto. È questa una delle ragioni del malumore del Paese, che soffre la crisi e sopporta il peso delle tasse, e del successo di Grillo. Se i partiti vogliono rimediare, il tempo stringe e la porta attraverso la quale dovranno passare per avviare il cantiere delle riforme non resterà aperta più di tre o quattro settimane. Una riforma costituzionale richiede, infatti, una doppia lettura fra Camera e Senato e mancano dieci mesi alla fine della legislatura. Se non ne approfitteranno, il prossimo voto sarà peggio dell’ultimo.

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