PERCHÈ IN ITALIA OGGI NON HA SENSO LA CONTRAPPOSIZIONE TRA “RIGORISTI” E “SVILUPPISTI” – IL SENTIERO STRETTO PER USCIRE DALLA CRISI
Intervento di Enrico Morando svolto al Senato nella seduta antimeridiana del 26 aprile 2012
MORANDO (PD). Domando di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MORANDO (PD). Signor Presidente, avendo preparato un intervento articolato in tre punti ed essendomi accorto che è troppo lungo, desiderando soprattutto parlare del terzo, cercherò di riassumere rapidissimamente i primi due.
La prima valutazione che metto alla base delle cose che voglio dire è la seguente: per l’Italia l’andamento della crisi a “doppio tuffo” è già esperienza, non è più, come era fino a qualche mese fa, la peggiore delle previsioni possibili.
In estrema sintesi, rispetto al 2007 (lo dico solo per dare il senso della drammaticità della situazione), rispetto cioè all’anno precedente la grande recessione, il nostro prodotto ha perso sei punti (dunque per tornare dove eravamo dovremmo avere un prodotto più alto di sei punti percentuali), il reddito disponibile delle famiglie ha perso nove punti, l’occupazione ha perso due punti (abbiamo perso cioè 400.000 posti di lavoro).
I tassi di interesse sui titoli pubblici sono tornati a salire e – questo è il punto che si continua a trascurare, facendo polemiche demagogiche inutili – quando gli interessi sui titoli dei debiti pubblici salgono così repentinamente e costantemente, come sta accadendo ormai da tempo in Italia, salvo qualche fase di pausa, questi tassi sui titoli pubblici si trasmettono immediatamente e istantaneamente ai tassi di mercato, con il risultato che investimenti di famiglie e investimenti di imprese non si fanno, perché i tassi sono troppo alti: non perché c’é il babau cattivo della speculazione, ma perché, come chiunque sappia qualcosa di economia sa, tassi d’interesse sui titoli pubblici così elevati si trasmettono immediatamente al sistema economico.
Lo spread, famoso, rispetto ai Bund tedeschi, cresce. È tornato attorno e sopra ai 400 punti base con immediate ripercussioni sui bilanci delle banche che hanno usato massicciamente i soldi della BCE per comperare titoli di debito pubblico. E lo hanno fatto perseguendo un interesse generale (vogliamo dirla così, per dirla un po’ più rapidamente). Il fatto è però che adesso sono stati fatti questi acquisti e ogni 100 punti base in più di spread, poiché le banche hanno nel loro capitale questi titoli, equivalgono a 100 punti base in meno di valutazione di capitale delle banche, con i risultati circa la capacità delle banche di fare credito alle imprese e alle famiglie che tutti sono in grado di valutare.
Questa è la situazione. Siamo in piena recessione in Italia, e probabilmente entreremo in recessione in Europa nel corso del 2012.
Per uscirne è essenziale accelerare il processo di unità fiscale dell’Europa. A questo proposito, non è vero che non sta succedendo niente. Almeno leggere i giornali sarebbe necessario, e i giornali ci informano che nel frattempo, nel corso di questi ultimi mesi, c’è stata un’accelerazione verso l’unità fiscale. Negli ultimi mesi emergono quindi novità positive, anche se non sono risolutive. La novità positiva, quella essenziale, per come la vedo io, è la seguente. Si è firmato – adesso deve essere ratificato – il Trattato cosiddetto fiscal compact, che ha dato ai Paesi forti – leggi sostanzialmente la «Lega anseatica», l’area del marco – la garanzia che i Paesi in difficoltà, una volta usciti dall’emergenza anche grazie al contributo dei Paesi forti, non ripeteranno i comportamenti che hanno dato origine alla crisi. Questo è il fiscal compact. Essendo stato concluso il fiscal compact, finalmente si è riusciti a trasformare in permanente il cosiddetto fondo salva Stati, che era provvisorio ed è diventato adesso il meccanismo europeo di stabilità, il quale ha ancora una dotazione insufficiente, ma quella dotazione, in base al Trattato che dobbiamo ratificare, può aumentare, senza ulteriori e troppo complesse trattative, in caso di emergenza. Soprattutto, al meccanismo europeo di stabilità può associarsi l’attività del Fondo monetario internazionale, così come ridefinita nel corso dell’ultima riunione.
Quindi abbiamo novità positive, ma non sono risolutive. Perché? Perché la crisi è troppo grave – ha la dimensione europea – per essere affrontata con i tempi e con le scelte che già sono state compiute. Bisogna accelerare e bisogna fare di più. Cosa bisogna fare? Ci vuole sostanzialmente un nuovo compact: non mettere in discussione il fiscal compact che c’è; non creare le condizioni perché addirittura si torni indietro rispetto al meccanismo di stabilità, che è una conquista, ma andare avanti. Subito, un accordo. Bisogna fare un Trattato? Facciamo un trattato per le emissioni di project bond per finanziare un piano europeo per l’infrastrutturazione materiale e immateriale. Subito i passi avanti sul mercato unico previsti dalla lettera dei Dodici, opportunamente promossa dal Governo Monti, che ha segnalato così un terreno di iniziativa che il duo Merkel-Sarkozy tendeva a mettere molto sullo sfondo, perché i due Paesi resistono alle innovazioni colà previste per sollecitare la crescita. A breve, anche se non subito, dopo la ratifica, dobbiamo creare un rapporto tra BCE – che conferma l’orientamento espansivo della politica monetaria europea – e meccanismo europeo di stabilità, che consenta di avere, alle condizioni del fiscal compact, molto severe nei confronti dei Paesi in difficoltà, una quota rilevante di debito pubblico europeo gestito sul merito di credito dell’Europa invece che sul merito di credito dell’Italia. Ho riassunto molto rapidamente il contesto.
Per le scelte di politica economica e fiscale che dobbiamo fare in Italia, non porta da nessuna parte la contrapposizione tra sviluppisti e rigoristi. Prendendo intanto inconsiderazione la linea dei rigoristi, essa si fonda sul presupposto che sia possibile concentrare l’attenzione sul rientro dal debito attendendo la crescita solo dall’effetto traino dell’economia globale. È la scelta che ha fatto Tremonti per tre anni, dal 2008 al 2011: rigore fiscale, e la crescita seguirà, come l’intendenza napoleonica, trainata in Italia dalle crescita dell’economia globale. Una linea destinata al fallimento, perché in Italia dai primi anni Novanta (bisognerebbe che ne prendessimo atto, qualche volta, quando ci mettiamo a parlare a vanvera di crescita), la produttività totale dei fattori o cresce meno dell’area euro o non cresce affatto.
Quelli che s’inventano che la difficoltà è del Governo Monti e, diciamo la verità, anche quelli che pensavano che bastasse togliere Berlusconi per risolvere i problemi dell’economia italiana, ignorano e ignoravano questo piccolo particolare (Applausi del senatore Di Stefano): è dai primi anni ’90 che la produttività totale dei fattori in Italia o non cresce come negli altri Paesi europei o addirittura decresce. Poi, certo, le scelte di politica economica, sbagliate secondo me, del Governo di centrodestra in questi otto anni dell’ultimo decennio, hanno contribuito ad aggravare i problemi, ma non è sostenibile seriamente che li abbiano creati, perché sono stati creati prima dai comportamenti che il Paese ha assunto, a tutti i livelli, nella fase precedente.
Quanto alla linea dei cosiddetti sviluppisti, unilaterali, essa si fonda sull’idea che un Paese nel quale l’intermediazione del bilancio pubblico nell’economia, cioè la somma di entrate più spese, al netto delle spese per interessi e per gli investimenti fissi, superi stabilmente il 90 per cento del prodotto interno lordo (il 90 per cento del prodotto interno lordo!), un Paese nel quale il debito pubblico supera il 120 per cento del prodotto interno lordo ed è a quel livello da vent’anni, non da tre anni come accade, con un livello un po’ più basso, in altri Paesi, un Paese nel quale la spesa pubblica supera il 50 per cento e la pressione fiscale il 45 per cento del prodotto interno lordo possa ritrovare la via della crescita attraverso un aumento ulteriore di questa intermediazione.
Questo vuol dire più spesa pubblica: o la si copre con il debito o con l’aumento della pressione fiscale, ma quel 90 per cento – che per la verità è già 91 adesso – diventerà 93 o 94 per cento. Insomma, tramite la spesa pubblica non riusciamo ad affrontare i problemi dell’economia italiana, anche perché il livello di intermediazione sopra il 90 per cento convive con crescita bassa e disuguaglianza sociale che cresce: come minimo, vuol dire che è un livello di intermediazione non finalizzato o non in grado di conseguire gli obiettivi che teoricamente annuncia, cioè sostenere la crescita e ridurre la disuguaglianza.
Ora, i tre fattori della crisi – troppa disuguaglianza, troppo debito, troppo scarsa crescita – si tengono assieme reciprocamente: non è che abbiano ragione gli sviluppisti contro i rigoristi o i rigoristi contro gli sviluppisti. Un’unica strategia, quella che il Presidente del Consiglio illustra nella premessa del DEF, è secondo me la scelta giusta per tenere assieme le azioni che affrontano contemporaneamente – qui sta la difficoltà – questi tre fondamentali fattori di crisi. Il DEF segnala che le manovre di rigore hanno un effetto recessivo; finalmente i Governi hanno smesso di pretendere di negare che se l’acqua la metti su un piano inclinato scorre verso il basso. È ovvio: le misure di rigore hanno un effetto recessivo, e il DEF lo stima puntualmente. Così come le misure di liberalizzazione e di apertura dei mercati possono avere un effetto di sviluppo, e il DEF le cifra. Solo che la differenza tra la cifra che il DEF attribuisce all’effetto recessivo della manovra e la cifra che il DEF attribuisce alle misure per lo sviluppo è molto rilevante ed è molto a vantaggio degli effetti recessivi.
Quindi, siamo in una situazione di grave difficoltà. Il nesso che emerge è quello tra spesa pubblica totale e livello della pressione fiscale. Com’è andata nel passato? Lo sappiamo benissimo: ogni volta, dopo qualche anno, abbiamo chiamato la pressione fiscale a inseguire la spesa pubblica che cresceva; mai si è stati in grado di affrontare la questione di mettere in equilibrio spesa pubblica e livello dell’indebitamento, livello della spesa pubblica e livello della pressione fiscale, evidentemente ritenendo che, alla lunga, le cose si sarebbero aggiustate da sole. Il problema è che non solo non si sono aggiustate ma si sono aggravate, al punto tale da determinare la situazione di precollasso nella quale siamo giunti.
Ora qui, signor Presidente, colleghi, c’è un’enorme novità positiva di cui non parla nessuno (sono letteralmente esterrefatto). Il DEF dà conto di una situazione nuova, perché per la prima volta in trent’anni la spesa totale, al netto degli interessi, non è aumentata nel 2010 e nel 2011. È un fatto di grande portata per la sola ragione banale che dimostra che si può raggiungere tale risultato. Questo è un merito del Governo BerlusconiTremonti; è inutile negarlo: su questo punto hanno ottenuto un risultato storico, la spesa non è aumentata. Però come l’hanno ottenuto? Con blocchi e tetti e con la macelleria, non sul piano sociale ma della spesa in conto capitale: hanno ridotto drasticamente la spesa in conto capitale, come si vede dai dati del DEF (basta leggerli, per chi vuole): spesa in conto capitale che crolla da anni e anni, 2010 e 2011 in particolare; spesa corrente primaria che aumenta di pochissimo, meno dell’aumento dei prezzi e quindi in termini reali naturalmente diminuisce.
Cosa ci suggerisce questo fatto, signor Presidente? Per come la vedo io, suggerisce che, se è stato possibile con mezzi così rozzi intervenire sulla spesa con successo (perché è stato conseguito un relativo successo che va riconosciuto come tale anche per dare un po’ di fiducia a coloro che ci guardano e guardano alla possibilità di mettere freno alla spesa come premessa per poter avere una pressione fiscale più bassa e un po’ di ripresa in questo Paese) e ottenere questo risultato con un mezzo tanto rozzo come quello dei cosiddetti tagli lineari, cioè tetti e blocchi (che tra l’altro continuano ad operare perché il 2012 è pienamente interessato dalle misure che sono state prese a proposito di tetti e di blocchi nella fase precedente), allora «deve» essere possibile (non «forse» o avvisando che ciò potrebbe comportare effetti recessivi, come secondo me inopportunamente ha detto il vice ministro Grilli nel corso dell’audizione che si è svolta alla Camera dei deputati l’altro giorno a proposito della spending review) aggiungere, – lo sottolineo: aggiungere – ai risultati ottenuti sul versante dell’azione con i tetti e con i blocchi, un’attività selettiva: la revisione integrale della spesa. Questo è il punto fondamentale su cui, secondo me, il DEF andrebbe ulteriormente integrato.
Se noi, signor Presidente, tenessimo la spesa primaria uguale a quella del 2012 in termini nominali, se cioè ripetessimo la stessa cifra in termini nominali nei prossimi anni – e abbiamo visto che ciò non è impossibile perché nel corso di questi ultimi due anni è stato fatto – e lo facessimo attraverso l’operazione «revisione della spesa», cioè sezionando con attenzione sociale e con attenzione all’efficienza economica le parti da ridurre, noi costruiremmo, per questa sola ragione, lo spazio finanziario per ridurre di tre punti la pressione fiscale al 2016. Basta tenere la spesa nominale allo stesso livello di quella del 2012 nei prossimi tre anni per avere le risorse per far tornare la pressione fiscale dall’attuale 45 per cento e oltre al 42 per cento del 2010.
È per questo che la revisione integrale della spesa è la priorità delle priorità. Essa infatti apre uno spazio non sulla base di intenzioni astratte e di obiettivi irraggiungibili, ma dell’esperienza che abbiamo compiuto nel corso di questi anni.
Da questo punto di vista, signor Presidente, ritengo che sia un errore per il Governo non attuare immediatamente quello che è previsto da due norme che abbiamo introdotto nella legge di conversione del decreto-legge di agosto: da un lato il programma di ristrutturazione della pubblica amministrazione come base per la revisione integrale della spesa (un progetto su come deve essere lo Stato, che dimensioni deve avere nell’economia, nell’organizzazione sociale, per i grandi servizi, da quello della sicurezza interna a quello della sicurezza esterna passando per la presenza dell’Italia nel mondo) che ridisegni i confini dello Stato di qui a dieci anni in funzione del quale si possa attuare un’attività microeconomica di valutazione di ogni singolo ufficio.
Qualcosa si sta muovendo, ma troppo lentamente. La casa brucia, signori del Governo, signor Presidente! Bisogna che l’acqua arrivi presto: e l’acqua è la revisione integrale della spesa.
A quelle condizioni noi siamo in grado di ridurre significativamente la pressione fiscale. Ma su chi? Sui produttori, signor Presidente e signori del Governo, perché la pressione fiscale sui produttori è troppo elevata in Italia, paragonata con Paesi che hanno pressioni fiscali analoghe (applausi dai Gruppi Pd e PdL), cioè quelli che lavorano con la testa, con le mani, ma producono beni, servizi in grado… (Il microfono si disattiva automaticamente. Viene quindi riattivato). Non hanno possibilità di muoversi, agio, perché hanno una pressione fiscale troppo alta. Termino subito.
In questo contesto, e solo in questo contesto, la seconda norma da attuare è quella frutto dell’emendamento presentato dal senatore Nicola Rossi allo stesso provvedimento di conversione di quel decreto secondo cui, calcolato il tax gap, occorre stabilire ogni anno un obiettivo chiaro in rapporto all’attività di riduzione dell’evasione fiscale per finanziare la diminuzione della pressione fiscale sui contribuenti leali. Io sono esterrefatto della discussione «c’era nel decreto, non c’era nel decreto: non c’è bisogno di inserire nulla nel decreto; semmai occorre valutare come implementare quel tipo di norma con un’azione concreta, ma non è necessario scrivere la norma perché è già una legge perfettamente in vigore.
In tale contesto, con l’adozione di un piano straordinario di valorizzazione e alienazione del patrimonio pubblico non si otterranno enormi risorse (450 miliardi di euro), ma 50-60 miliardi di euro all’anno per i prossimi tre anni; in tal modo, nei tre anni di maggiore impegno sul versante dell’equilibrio e del pareggio di bilancio, avremo la possibilità di andare meno sul mercato a vendere titoli. Se si otterranno 45, 50 o 60 miliardi di euro ogni anno per i prossimi tre anni, mentre si sta stressando il Paese sul versante dell’azione di risanamento per cercare di rilanciarlo sotto il profilo della crescita, si ricaveranno le risorse per quella infrastrutturazione materiale e immateriale del Paese che abbiamo fermato vent’anni fa, ma che forse sarebbe il caso di riavviare. (Applausi dai Gruppi PD e PdL. Congratulazioni).
jj