LA SORPRENDENTE SENTENZA CON LA QUALE LA CORTE SUPREMA SOLLEVA DUBBI SUL FATTO CHE UN GRUPPO CLANDESTINO ARMATO, IMPEGNATO A PREPARARE ATTENTATI E AGGRESSIONI CON FINALITÀ APERTAMENTE POLITICHE, POSSA QUALIFICARSI COME BANDA ARMATA CHE PRATICA UN TERRORISMO EVERSIVO
Articolo di Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera del 10 aprile 2012, che riporta i passaggi più rilevanti della motivazione della sentenza con la quale la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Milano del giugno 2010 (v. in proposito la mia testimonianza all’udienza del processo del 23 gennaio 2009), pur sposandone la ricostruzione dei fatti, rinviando ad altra sezione della stessa Corte per un nuovo giudizio
Le nuove Brigate rosse-Partito comunista politico militare (Pcpm), azzerate nel 2007 dall’ inchiesta del pm Ilda Boccassini, intendevano esercitare una violenza di tipo «comune» su bersagli mirati con finalità eversive, oppure una violenza «terroristica» che accettava il rischio di vittime collaterali o addirittura voleva colpire indiscriminatamente la popolazione per suscitare panico e destabilizzare gli assetti istituzionali? Sta in questa sottile differenza giuridica la motivazione dell’ annullamento avvenuto il 23 febbraio scorso da parte della 5° sezione della Cassazione (relatore Maurizio Fumo) delle condanne di secondo grado, fino a 14 anni, di undici imputati ritenuti nel giugno 2010 responsabili di banda armata con finalità di terrorismo, di aver incendiato la sede milanese di Forza Italia (2003) e padovana di Forza Nuova (2006), nonché di aver progettato il ferimento del manager della Breda Vito Schirone, l’ agguato al giuslavorista e senatore pd Pietro Ichino, l’attentato alla sede del quotidiano Libero. La Cassazione ha ordinato un nuovo processo d’Assise d’Appello a Milano che inizierà a metà maggio, appena un mese prima che scadano i termini di custodia cautelare degli imputati ancora detenuti. Sulle imputazioni la motivazione della Cassazione sposa la ricostruzione delle sentenze di merito e l’ impianto dell’ indagine: «Le intercettazioni, le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Valentino Rossin, l’ esito di perquisizioni e sequestri, pedinamenti e riprese video della polizia giudiziaria» hanno dimostrato «l’ esistenza di una struttura operativa, sufficientemente gerarchizzata al suo interno» con il «quadrumvirato Davanzo-Latino-Bortolato-Sisi», ispirata «a un ben preciso credo politico», dotata di «una cassa comune, una sede centrale a Milano e articolazioni periferiche in Piemonte e Veneto, un poligono di tiro, un sicuro rifugio e un foglio di propaganda». Un’ associazione «tesa alla realizzazione di un programma “rivoluzionario” che prevedeva l’ uso sistematico della violenza, e che a tale scopo si era dotata di un considerevole quantitativo di armi micidiali». Ma per la Cassazione, la Corte d’Assise d’Appello milanese (presidente Dameno, a latere Ruggiero) nella sua motivazione non ha indicato «con quali modalità» le azioni progettate (come l’agguato a Ichino) avrebbero dovuto essere realizzate e così non ha chiarito se la banda armata, «che certo aveva intenzione e capacità di esercitare la violenza, aveva anche intenzione e possibilità di utilizzare metodi terroristici per conseguire il suo programma di eversione dell’ordine costituzionale». Per la Cassazione nella sentenza d’Appello non è cioè distinto se «tra gli effettivi progetti» della banda armata «vi fossero esclusivamente obiettivi “di elezione” (per ottenere un effetto paradigmatico e innestare magari meccanismi di emulazione) o anche il proposito di intimidire indiscriminatamente la popolazione, l’ intenzione di esercitare costrizione sui pubblici poteri, la volontà di destabilizzare o addirittura distruggere gli assetti istituzionali del Paese». La Cassazione annulla, sempre ordinando un nuovo processo, anche la condanna degli imputati a risarcire 100.000 euro a Ichino per i danni morali: qui la Corte d’Appello milanese «ha omesso di chiarire quale danno abbia riportato il professore e quale rapporto causale sia esistito tra l’ eventuale danno e la condotta degli imputati, visto che i propositi di attentato, captati nelle intercettazioni, non furono portati ad esecuzione, né risulta che Ichino li abbia percepiti e ne abbia inevitabilmente ricavato turbamento e preoccupazione». Siccome questi progetti di attentato erano ovviamente noti agli investigatori, i giudici milanesi avrebbero dovuto (e quelli del nuovo Appello dovranno) «chiarire se gli inquirenti avessero avvertito Ichino e adottato le conseguenti misure, o se si decise, anche senza comunicare con la potenziale vittima, di rafforzare le misure di sicurezza con conseguente probabile limitazione della sua libertà di movimento e della sua privacy» (1).
(1) Risulta dalla mia testimonianza all’udienza del 23 gennaio 2009 del processo di primo grado e dalle motivazioni di entrambe le sentenze di merito, rispettivamente della Corte d’Assise di primo grado e di quella d’Appello, che nell’estate 2006, avendo io chiesto che venisse tolto il dispositivo di protezione attivato quattro anni prima nei miei confronti, venni informato dal Prefetto di Milano del fatto che tale mia richiesta non poteva essere accolta, in quanto era in corso l’indagine su di un gruppo delle “nuove Brigate Rosse” che stava preparando un’attentato proprio contro di me: gli appartenenti a quel gruppo sarebbero poi stati arrestati nel febbraio 2007.
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