IL PROBLEMA NON È SOLO RIFORMARE I LICENZIAMENTI, MA SPOSTARE IL NOSTRO PAESE DA UN VECCHIO A UN NUOVO EQUILIBRIO PIÙ MODERNO E DINAMICO, CHE CONSENTA IL SUPERAMENTO DEL DUALISMO FRA PROTETTI E NON PROTETTI E UNA MIGLIORE ALLOCAZIONE DELLE RISORSE UMANE
Intervista a cura di Maurizio Ferrari pubblicata su L’Eco di Bergamo il 13 aprile 2012
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Sembra che il nodo fondamentale da sciogliere per la riforma del lavoro del governo Monti sia la modifica dell’articolo 18. Non le sembra un discorso un po’ limitativo?
Certo, se vogliamo spostare l’equilibrio generale del nostro mercato del lavoro verso modelli più moderni e dinamici rispetto al vecchio nostro modello mediterraneo, non si può affrontare soltanto la materia della disciplina dei licenziamenti. Questa costituisce comunque uno dei “pezzi” più importanti del puzzle.
C’è secondo lei in Italia un’idea di sviluppo che possa realmente far ripartire l’economia?
L’idea è, appunto, quella del passaggio da un mercato del lavoro molto vischioso, nel quale i lavoratori regolari tendono a restare legati alla loro azienda anche quando questa dovrebbe ridurre il personale o addirittura chiudere, e le aziende in espansione non trovano la manodopera qualificata di cui avrebbero bisogno. Inoltre occorre un sistema molto più aperto agli investimenti diretti esteri: oggi l’Italia è drammaticamente chiusa ai capitali stranieri; e a questo fine occorre semplificare la nostra legislazione del lavoro, oggi troppo complessa, oltre che non traducibile in inglese, e allinearla ai migliori standard centro e nord-europei.
Esiste una ricetta per sconfiggere la precarietà dilagante tra i giovani?
Occorrono tre cose. Innanzitutto servizi di orientamento scolastico e professionale efficienti e capillari, che spieghino il mercato del lavoro e le occasioni che esso offre a ciascun adolescente che esce da un ciclo scolastico o giovane che esca da un corso universitario. Inoltre una protezione meno rigida del rapporto di lavoro regolare a tempo indeterminato: la precarietà degli outsiders è l’altra faccia dell’inamovibilità degli insiders. Infine un aumento della domanda di lavoro, che oggi può essere portata soltanto da un aumento degli investimenti esteri.
Lei ha parlato di un “contratto di ricollocazione” in riferimento all’articolo 18: può spiegarcelo in poche battute?
Il progetto flexsecurity, contenuto nel disegno di legge n. 1873/2009 di cui sono primo firmatario insieme ad altri 54 senatori, prevede che per i nuovi rapporti di lavoro alle imprese sia offerta l’esenzione dal controllo giudiziale sul merito del giustificato motivo di licenziamento di natura economico-organizzativa: il controllo giudiziale dovrebbe essere limitato alle discriminazioni e ai motivi disciplinari. Sul motivo oggettivo di licenziamento il controllo giudiziale è sostituito dal filtro automatico costituito dalla responsabilizzazione dell’impresa per la sicurezza economica e professionale del lavoratore licenziato: al quale l’impresa stessa è tenuta a offrire, oltre a un’indennità pari a una mensilità per anno di anzianità di servizio, anche un contratto di ricollocazione, che prevede assistenza intensiva con i migliori servizi di outplacement e un trattamento complementare di disoccupazione. Lo stesso contratto impegna ovviamente il lavoratore a rendersi disponibile per davvero a tutto quanto è necessario per la propria ricollocazione.
Arriviamo alla Bergamasca: in passato lei si è occupato del Modello Val Seriana: crede possa essere un esempio da seguire, pur avendo incontrato non pochi ostacoli sul suo cammino?
Per poter funzionare meglio, avrebbe avuto bisogno di un accordo-quadro regionale che creasse un terreno più attrattivo per gli investimenti. E di una forte iniziativa della Regione stessa per attrarli, secondo le migliori esperienze di questo genere, di cui disponiamo nel panorama internazionale.
Sempre per la Bergamasca si è assistito al duello per la presidenza di Confindustria in cui Bombassei ha proposto un radicale cambiamento delle regole del lavoro ma anche all’interno di Confindustria. Come ha visto le sue posizioni?
Mi sembra che la posizione di Bombassei sarebbe stata più forte e più credibile se, invece di chiedere soltanto maggiore flessibilità della regolazione del lavoro, avesse indicato anche il modo in cui garantire maggiore sicurezza economica e professionale al lavoratore nel mercato del lavoro.
Le sue proposte sul tema del lavoro hanno diviso la sinistra. Secondo molti l’economia italiana non si rilancia riducendo i diritti acquisiti dei lavoratori. Come risponde alle critiche?
Il mio progetto flexsecurity, di cui abbiamo appena parlato, non prevedeva affatto una riduzione dei diritti dei lavoratori che oggi un posto di lavoro ce l’hanno: la nuova disciplina si sarebbe applicata soltanto ai nuovi assunti. E a questi avrebbe dato una sicurezza molto maggiore di quella che si offre oggi a quattro lavoratori su cinque che stipulano un contratto nel nostro mercato del lavoro.
Nel libro che presenterà ad Alzano, Inchiesta sul lavoro, propone una strada di riforma basata sui modelli scandinavi. Ma è davvero possibile secondo lei applicare un sistema simile in un paese “latino”, con caratteristiche economiche molto diverse?
Il nostro vecchio equilibrio mediterraneo, di cui abbiamo parlato all’inizio, è molto meno efficiente rispetto a quello dei Paesi nord-europei, perché determina una peggiore allocazione delle risorse umane e un dualismo grave tra lavoratori protetti e non protetti, con la metà non protetta sulla quale nessuno investe in formazione professionale. La sfida europea possiamo vincerla soltanto se non inchiodiamo il nostro Paese alle sue tare tradizionali, e cerchiamo di compiere in pochi anni il cammino che i nostri partner più avanzati hanno compiuto nell’arco di decenni.
Anziché diminuire, la forbice delle remunerazioni tra manager e lavoratori è aumentata. Si è passati negli ultimi decenni da un rapporto di 10 a 1 ad un rapporto di 100 a 1. Eppure nel dibattito sulla riforma del mercato del lavoro non si è praticamente parlato di questa “dualità”?
Questo è un fenomeno che non ha riguardato soltanto l’Italia, ma tutto l’Occidente industrializzato. A mio avviso esso va affrontato e risolto con due strumenti: i servizi di educazione e di formazione professionale, che costituiscono lo strumento essenziale per la costruzione dell’uguaglianza di opportunità, e il fisco. A ben vedere, se un’impresa privata ritiene che la prestazione di un bravo manager valga due milioni l’anno, e di quei due milioni uno torna allo Stato, che può spenderlo in servizi di educazione e formazione per la parte più debole della popolazione, a me sembra che non ci sia di che dolersi più che tanto.
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