CORRIERE CANADESE: UNA RIFORMA CHE MUOVE NELLA GIUSTA DIREZIONE

NONOSTANTE I VETI INCROCIATI E I TENTATIVI DI RIDURRE L’INCISIVITÀ DELL’INTERVENTO SIA SUL VERSANTE DEI LICENZIAMENTI, SIA SU QUELLO DEL CONTRASTO AL PRECARIATO, IL DISEGNO DI LEGGE DEL GOVERNO COSTITUISCE UN PRIMO PASSO SERIO VERSO L’ALLINEAMENTO DEL NOSTRO ORDINAMENTO AL RESTO D’EUROPA

Intervista a cura di Leonardo N. Molinelli pubblicata sul Corriere Canadese il 6 aprile 2012

Una riforma che va nella direzione giusta per modernizzare il Paese e rilanciare gli investimenti stranieri in Italia. Soprattutto con «il superamento dell’anomalia del diritto italiano rispetto a tutto il resto d’Europa» rappresentata dall’articolo 18. È questo il punto di vista sulla riforma del lavoro presentata dal governo Monti di Pietro Ichino, senatore del Pd che rappresenta la parte “riformista” del partito contrapposta a quella definita “laburista” e “filo-Cgil” che fa capo al responsabile economia e lavoro del partito Stefano Fassina.
Senatore Ichino, come valuta la riforma del lavoro uscita dal Consiglio dei ministri?
Complessivamente, mi sembra un passo importante nella direzione giusta, pur con alcuni difetti.

Quali sono i punti che più la convincono?
Apprezzo il fatto che il progetto si proponga di superare il dualismo del nostro mercato del lavoro, fra protetti e non protetti. E si proponga il passaggio da una concezione “proprietaria” del posto di lavoro a un regime di responsabilizzazione dell’impresa verso i lavoratori da cui essa si deve separare. E il fatto che non si tratti solo di un proposito: ci si muove davvero in questa direzione.

E le parti che invece cambierebbe?
Si sarebbe potuto e dovuto fare di più sul terreno dell’assistenza intensiva al lavoratore nella ricerca della nuova occupazione. Non solo perché aiuterebbe a ridurre i periodi di disoccupazione, a tutto vantaggio dei lavoratori licenziati, ma anche perché consentirebbe di condizionare efficacemente il sostegno del reddito alla disponibilità effettiva del lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione regolare.

La sensazione è che la polemica intorno all’articolo 18 sia più simbolica che di contenuti, visto anche il basso numero di persone che questo riguarda. Qual è la sua opinione a riguardo?
La norma si applica pur sempre a 5,7 milioni di dipendenti privati di aziende con più di 15 dipendenti. E la sua rigidità costituisce la causa della “fuga” diffusa delle imprese dal modello del lavoro regolare, con la conseguente diffusione del precariato.

Le imprese si lamentano che l’entità dell’indennizzo previsto nel progetto per il licenziamento sia troppo alto.
L’indennizzo previsto in questo progetto è effettivamente, nel suo massimo, superiore del 50 per cento rispetto al massimo tedesco, che è di 18 mensilità. Però, tra minimo e massimo, non è superiore a quello che mediamente oggi paga un’impresa italiana per l’“incentivo all’esodo” di un proprio dipendente. E con l’allineamento sostanziale al modello tedesco questa riforma darà un primo contributo importante al superamento dell’anomalia del diritto italiano rispetto a tutto il resto d’Europa.

Come valuta la posizione del suo partito sulla questione dell’articolo 18?
La riforma della disciplina dei licenziamenti proposta dal governo Monti è in larga parte costruita con materiali tratti dal dibattito svoltosi in seno al Partito democratico negli ultimi quattro anni. Poi, nella stretta politica imposta dall’iniziativa del governo, il Pd ha subito un po’ troppo i mali di pancia della Cgil, col risultato di far apparire al proprio elettorato questa riforma come un passaggio più subìto che voluto.

C’è chi sostiene che il problema principale in Italia sia la mancanza di lavoro piuttosto che la necessità di una maggior flessibilità in uscita. Qual è la sua opinione a riguardo?
Penso che le due cose siano in qualche misura collegate tra loro: il disallineamento dell’ordinamento italiano rispetto al resto d’Europa, in questa materia, costituisce un ostacolo all’afflusso degli investimenti diretti esteri, che portano domanda di lavoro e ne aumentano la produttività. Gli investitori stranieri, infatti, oltre ai capitali portano solitamente con sé piani industriali innovativi.

L’Italia a differenza dei Paesi anglosassoni, in cui c’è un mercato del lavoro molto dinamico, è assolutamente bloccata. Perché la maggior facilità di licenziare dovrebbe portare una maggior facilità di assumere?
Soprattutto in un momento di grave recessione come quello attuale, di grande incertezza circa il futuro, le imprese sono più riluttanti ad assumere, se sanno che sarà molto difficile o costoso licenziare nel caso in cui si renda necessario un aggiustamento degli organici.

Perché in un Paese che ha un debito pubblico enorme, figlio di corruzione e sprechi, è più facile tagliare i diritti dei lavoratori invece che colpire duramente proprio gli sprechi e il malaffare per estendere questi diritti? Non sarebbe questo il compito di un partito di sinistra?
Certo che sì. Ma non si deve commettere l’errore di pensare che l’Italia abbia soltanto il problema di combattere gli sprechi e il malaffare: il nostro Paese ha anche bisogno di un tessuto produttivo meglio attrezzato per il trasferimento dei lavoratori, in condizioni di sicurezza economica e professionale, dai settori che si stanno contraendo a quelli in espansione. Anche questo è il compito di un partito di sinistra, soprattutto quando la destra – come è accaduto in Italia negli ultimi anni – non se ne occupa.

Che riforma del lavoro uscirà dal parlamento secondo lei?
Mi sembra probabile che non esca una riforma sensibilmente diversa da quella proposta dal governo.

Il Pd rischia di spaccarsi su questa riforma?
Se, come sembra, alla fine prevarrà la linea del “sì” alla riforma, il Pd non si spaccherà.

jj

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