LA LEGA ESCE DI SCENA SOPRATTUTTO PERCHÉ DA TEMPO AVEVA SOSTANZIALMENTE SACRIFICATO IL PROGETTO FEDERALISTA AL PICCOLO CABOTAGGIO – MA ORA CHI SAPRÀ DARE UNA RAPPRESENTANZA ALLA PARTE DEL PAESE PIÙ DINAMICA E PRODUTTIVA, FAR SENTIRE LA SUA VOCE?
Editoriale di Luca Ricolfi su la Stampa del 7 aprile 2012
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In politica c’è sempre uno zoccolo duro di militanti «senza se e senza ma», completamente indifferenti ai fatti, del tutto impermeabili ai test di realtà. Per cui non si può escludere che, nonostante la vergogna di questi giorni, la Lega resista ancora un po’ di anni, come i nostri vari partiti comunisti, sopravvissuti quasi vent’anni alla caduta del muro di Berlino e al collasso dell’Unione Sovietica. E tuttavia, dal punto di vista politico, l’esperienza della Lega va considerata al capolinea.
Non solo perché il cocktail di nepotismo, arroganza e cialtroneria scoperchiato dall’inchiesta è difficile da digerire per qualunque palato, ma perché c’è una differenza anche politica – non solo morale – con i partiti comunisti duri e puri, alla Bertinotti e Diliberto.
Anzi, per molti versi il caso della Lega è l’esatto opposto di quello dei partiti comunisti. I partiti «falce e martello» sono scomparsi per eccesso di fedeltà all’utopia del comunismo, un’idea che ormai non reggeva più. La Lega è destinata a uscire di scena non solo per gli scandali di questi giorni ma perché ha tradito troppo presto il sogno federalista, un’idea più che mai attuale.
Per capire come e perché la Lega si sia allontanata dal suo sogno dobbiamo tornare un po’ indietro e mettere in fila alcuni fatti politici, tutti ben anteriori alle vicende di questi giorni.
Il primo in ordine di tempo è l’abbandono, poco dopo la vittoria elettorale del 2008, della proposta di legge federalista della Regione Lombardia, nonostante quel progetto – risalente all’estate del 2007 – facesse parte integrante del programma elettorale della Casa delle Libertà. La legge che ne prende il posto (legge n. 42 del 5 maggio 2009) è già un notevole passo indietro rispetto alla proposta originaria, perché ne annacqua tutti i meccanismi fondamentali, cancellandone gli automatismi e restituendo un ruolo centrale alla mediazione politica. Ma perché la Lega accetta di annacquare il suo disegno originario, e si imbarca in una estenuante trattativa con le forze che remano contro il federalismo?
Una ragione fondamentale è il ricordo dello smacco dell’autunno 2006, quando un referendum istituzionale indetto dall’opposizione aveva cancellato d’un colpo la «devolution», ossia la legge costituzionale che la Lega aveva imposto alla fine della legislatura 2001-2006 a colpi di maggioranza. Ma non è il solo motivo. Negli anni la Lega è cambiata, è diventata – al tempo stesso – sempre più ministeriale e sempre più attenta a preservare il potere locale dei suoi amministratori. Questo, in concreto, significa che i suoi dirigenti nazionali ormai si concentrano su due soli obiettivi: portare a casa una legge federalista purchessia, senza molta attenzione ai contenuti, e tutelare gli interessi del proprio ceto politico, che nel frattempo si è insediato in molti comuni, province e regioni del Centro-Nord.
E qui veniamo a un secondo ordine di fatti che scandiscono l’inizio della legislatura 2008-2013. La Lega non solo accetta di varare una legge meno incisiva di quella che aveva promesso in campagna elettorale, ma erige essa stessa una serie di ostacoli sul cammino del federalismo. Rientra in questa condotta frenante, ad esempio, il tentativo (riuscito) di annacquare la riforma dei servizi pubblici locali, un comportamento che all’inizio non riuscivo a capire, ma che mi venne chiaramente spiegato da un deputato del Nord, durante un fuorionda di una trasmissione televisiva. Quel deputato mi disse in sostanza: è vero, se introducessimo più concorrenza nei servizi pubblici locali le tariffe di luce, gas, acqua, trasporti, raccolta rifiuti potrebbero diminuire, ma a rischio di vedere molte nostre imprese (padane!) perdere gli appalti a favore di più efficienti imprese straniere. Un ragionamento che, presumibilmente, era sostenuto anche da un retropensiero meno confessabile: se introduciamo più concorrenza nei servizi pubblici molte imprese attualmente controllate dagli Enti locali potrebbero perdere gli appalti, e noi politici avremmo meno poltrone e posti di lavoro da distribuire.
Ma quella che abbiamo chiamato, forse un po’ eufemisticamente, la «condotta frenante» della Lega non si è purtroppo limitata ai servizi pubblici locali. Fin dalla primavera del 2010, di fronte ai tagli ai trasferimenti agli Enti locali, parte una mobilitazione dei sindaci del Nord, in particolare della Lombardia. I sindaci richiedono al governo centrale che i tagli non siano lineari, e tengano conto della maggiore efficienza delle amministrazioni del Nord. Guida la protesta Attilio Fontana, sindaco di Varese, presidente dell’Anci Lombardia e membro della Lega. Ma in quella occasione, come in altre mobilitazioni successive, i dirigenti nazionali della Lega non reagiscono difendendo «a Roma» le richieste degli amministratori del Nord, bensì cercando in ogni modo di dissuadere i sindaci dal manifestare il loro dissenso. Non solo. La Lega non si limita a ostacolare le richieste di «giustizia federalista» dei sindaci del Nord, ma si fa paladina delle peggiori istanze degli amministratori locali. Quando si riparla, finalmente, di ridurre i costi della politica e abolire o sfoltire le province (un altro punto del programma elettorale del centro-destra nel 2008), la Lega si batte contro i tagli al numero delle province e riesce a bloccare ogni cambiamento.
Il fatto che però, più di tutti, dà la misura dell’abbandono del sogno federalista da parte della Lega si consuma tra l’autunno del 2010 e la primavera del 2011, quando – con i primi decreti attuativi del federalismo – diventa chiaro che i tempi della riforma saranno lunghissimi: non più pochi anni come si riteneva all’inizio, non più cinque anni come si poteva desumere dalla legge 42 del 2009, bensì una decina d’anni, visto che tra decreti delegati, regolamenti, fasi transitorie varie si parla ormai di un’entrata a regime fra il 2018 e il 2019, un decennio dopo l’approvazione della legge delega sul federalismo (maggio 2009).
Ecco perché, dicevo, se la Lega scomparirà non sarà perché troppo estremista o radicale, bensì per la ragione opposta, perché troppo presto contaminata con i peggiori meccanismi della politica, e perciò dimentica della sua primaria ragione di esistenza. Chi è sempre stato anti-leghista ne gioirà, perché ha sempre considerato gli aspetti peggiori della Lega: l’ostilità al Mezzogiorno, il linguaggio volgare, la demonizzazione degli immigrati. Chi invece ha sempre visto anche le buone ragioni della Lega, ossia la critica del parassitismo e dell’eccesso di pressione fiscale, potrà solo consolarsi pensando che quelle buone ragioni la Lega le aveva ormai dimenticate da tempo.
Ma tutti, amici e nemici della Lega, almeno di un fatto dovremmo renderci conto: c’è una parte del Paese, quella più dinamica e produttiva, che continua a non riuscire a far sentire la sua voce, né con la Lega né senza, né prima di Monti né con Monti. Questa parte, ormai, era rappresentata dal partito di Bossi solo nominalmente, e in questo senso lo scandalo di questi giorni si è limitato a togliere di mezzo un equivoco. Ma il problema di dare una rappresentanza a quella parte del Paese resta, e diventa più grave ogni giorno che passa, perché è nei territori cui la Lega si rivolgeva che si produce la maggior parte della ricchezza di cui tutti beneficiamo. L’Italia può fare benissimo a meno della Lega, ma difficilmente tornerà a crescere se dimenticherà le ragioni da cui il «partito del Nord» ha preso le mosse.
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