IL POLITOLOGO RICHIAMA LA SINISTRA POLITICA E QUELLA SINDACALE ALLE LORO RESPONSABILITÀ NEI CONFRONTI DI COLORO CHE SONO LE VERE VITTIME DELL’ASSETTO ATTUALE DEL MERCATO DEL LAVORO ITALIANO: I MILIONI DI LAVORATORI ESCLUSI DAL SISTEMA DELLE PROTEZIONI, CHE RISCHIANO DI RIMANERE TALI
Fondo di Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera del 4 aprile 2012 – È on line anche la mia inchiesta in tre puntate da cui l’articolo trae spunto: 1. La sorpresa del lavoro che non si vede ma c’è, sul Corriere della Sera del 1° aprile; 2. Due giacimenti occupazionali cui dobbiamo imparare ad attingere, del 2 aprile; 3. Come aprire il mondo chiuso del lavoro, del 3 aprile
La disoccupazione italiana, specie quella giovanile (dai 15 ai 24 anni) e femminile – e nel Mezzogiorno in modo particolare – ha raggiunto le cifre drammatiche di cui tutti i giornali ieri parlavano: in pratica un giovane italiano su tre e circa la metà delle giovani donne meridionali sono senza lavoro.
Molto meno si parla, invece, di altri dati, altre cifre, altre questioni, che riguardano il mercato del lavoro e che forse non sono così irrilevanti. Mi riferisco alle cose scritte negli ultimi tre giorni sulle colonne del Corriere dal senatore Pietro Ichino. A cominciare dal fatto, per esempio, che dal Lazio in giù (Lazio compreso) nessuna delle Regioni italiane, nonostante queste abbiano la totale competenza legislativa in materia di servizi al mercato del lavoro, nessuna Regione dal Lazio in giù, dicevo, si è messa in grado di fornire neppure il numero dei contratti di lavoro stipulati sul proprio territorio o qualunque altro dato indispensabile per conoscere, e quindi cercare di indirizzare, il mercato del lavoro. (Lo sanno, mi chiedo, i giovani meridionali che è questo il modo in cui i vari Vendola, Caldoro, Scopelliti, Lombardo si preoccupano del loro futuro?). Egualmente significativo, mi sembra, il dato della scarsa utilizzazione in Italia delle agenzie private di outplacement: le quali, dietro compenso, sembra invece che conseguano ottimi risultati nella ricerca di lavoro per chi non lo ha o lo ha perduto; ma, di nuovo, senza che in generale le Regioni si degnino di prestare il minimo aiuto finanziario a chi intenda ricorrervi.
Ma mi sembra che la questione centrale che viene fuori dall’analisi di Ichino, il vero punctum dolens di carattere strutturale del mercato del lavoro italiano – dunque verosimilmente non riassorbibile con un eventuale miglioramento della congiuntura economica – sia la questione dell’assunzione a tempo determinato, che ormai riguarda oltre i quattro quinti dei nuovi contratti di lavoro. Questione centralissima, perché è essa soprattutto che getta un’ombra cupa di precarietà e d’insicurezza sulla vita di milioni di nostri concittadini, che impedisce loro qualunque progetto per l’avvenire. E che quindi impedisce al Paese intero di credere nel suo futuro. Questione – cui si deve tra l’altro se l’Italia è drammaticamente fuori dagli investimenti stranieri – la quale con ogni evidenza dipende in particolar modo da una causa. Da «una legislazione del lavoro ipertrofica e bizantina», come scrive Ichino, che rende oltremodo problematico il licenziamento (e aleatorio il suo costo) «quando l’aggiustamento degli organici si rende necessario». E che perciò scoraggia moltissimo dall’assumere se non a tempo determinato: presumibilmente anche se domani la situazione economica migliorerà.
Questo è il nostro problema: un tessuto produttivo nel quale chi è stabilmente dentro, difficilmente esce, ma in cui quasi mai chi è fuori riesce stabilmente a entrare. Dove la sola speranza dei disoccupati è al massimo quella di diventare precari. Mi chiedo se dopo settimane di estenuanti trattative sull’articolo 18 la Cgil si renda conto che è precisamente su questo punto, cioè sul diritto dei non occupati ad essere assunti stabilmente, che si gioca il vero futuro del nostro mercato del lavoro e in non piccola parte anche dell’Italia. Se si renda conto che blindare il diritto dei già occupati a conservare per sempre il proprio posto ha un solo inevitabile effetto: farne diminuire sempre più il numero, e basta.
kk