PER NON RESTARE IN MEZZO AL GUADO

IL MUTAMENTO DI EQUILIBRIO SISTEMICO CHE MARIO MONTI CI PROPONE COSTITUIRÀ LO SPARTIACQUE DELLA POLITICA ITALIANA NEL PROSSIMO FUTURO: POSSIAMO E DOBBIAMO CRITICARE LE SINGOLE SCELTE DEL GOVERNO, MA NON POSSIAMO ESIMERCI DAL DIRE CHIARAMENTE DOVE CI COLLOCHIAMO RISPETTO A QUESTO DISCRIMINE

Intervento svolto nel corso della riunione della Direzione del Pd, Roma, 26 marzo 2012

          Condivido quello che ha detto poco fa Rosy Bindi: nel dibattito in corso dentro e fuori del Pd sulla riforma del lavoro non c’è niente di “ideologico” o di astratto. Quello di cui si discute è qualche cosa di molto concreto, che ci tocca nel vivo tutti quanti, lavoratori e no. E non è soltanto una norma legislativa – pur importante, come lo è l’articolo 18 dello Statuto del 1970 –, ma è un intero equilibrio di sistema, di cui questa norma costituisce soltanto uno dei tanti elementi.
            Ecco: di questo dobbiamo essere ben consapevoli, oggi e nelle settimane e mesi prossimi, nei quali affronteremo la discussione in Parlamento su questo progetto di riforma: dobbiamo avere chiaro il mutamento di equilibrio sistemico che Mario Monti ci propone. Perché questo mutamento di equilibrio costituirà lo spartiacque politico più rilevante per tutto quello che resta di questa legislatura e presumibilmente anche per la campagna elettorale che seguirà e per la legislatura successiva. Mario Monti ci propone il disegno molto ambizioso, ma al tempo stesso indispensabile se intendiamo prendere sul serio la sfida europea, del passaggio dal nostro vecchio equilibrio di sistema, che gli studiosi di scienze sociali chiamano “equilibrio mediterraneo”, a un equilibrio simile a quello dei Paesi centro- e nord-europei.
            Questo significa affrontare diversi spostamenti molto impegnativi. Dal modello di società vischiosa retta da un welfare centrato sul capofamiglia maschio lavoratore regolare stabile e bred-winner per tutta la famiglia con figli impegnati in lavoretti fino a 35 anni e moglie addetta all’assistenza ai bimbi, vecchi e disabili, a un modello in cui entrambi i coniugi svolgono un lavoro professionale, con abbondanza di servizi alla famiglia e alle persone. Da un un regime di job property per metà dei lavoratori e precariato per gli altri, a un regime di responsabilizzazione dell’impresa per la sicurezza di tutti i dipendenti: cioè dal tessuto produttivo assimilabile a un condominio con ingresso molto stretto, all’interno del quale ciascuno dei nove milioni di condomini possiede il suo appartamentino, più o meno confortevole, circondato da altri nove milioni di senzatetto attendati o sotto i ponti, a un tessuto produttivo assimilabile invece a un grande albergo con grandi porte girevoli, nel quale è facile per tutti trovare una stanza; nel quale può anche accadere di dover cambiare stanza, ma quando questo accade si può attendere al coperto e al sicuro. Infine, da un sistema caratterizzato, come lo è stato il nostro negli ultimi quarant’anni, da un accordo tacito di chiusura protezionistica verso le multinazionali straniere, a un sistema aperto, impegnato attivamente nell’opera di attrazione della migliore imprenditoria estera, interessato dunque ad allineare la propria legislazione e amministrazione ai migliori standard europei, disposto ad accettare la sfida della competizione internazionale.
            Questo è il cambio di equilibrio molto impegnativo a cui sta lavorando Mario Monti, e del quale la riforma del lavoro è soltanto uno dei molti passaggi. Ora, in questa riforma del lavoro ci sono luci e ombre: non c’è dubbio che dobbiamo impegnarci per correggerne i difetti e migliorarla il più possibile. Una cosa però deve essere molto chiara: cioè da che parte sta il Pd rispetto allo spartiacque di questa scelta di fondo che il Governo Monti si propone di far compiere al nostro Paese.
             Se condividiamo quella scelta, dobbiamo dirlo esplicitamente; e allora tutte le modifiche che proporremo tenderanno a perfezionarla, a garantirne il successo. Se invece non condividiamo quella scelta, allora i nostri interventi serviranno soltanto a far restare il nostro Paese più a lungo in mezzo al guado; e nei grandi cambiamenti di equilibrio restare in mezzo al guado è la cosa più pericolosa.
             Appena si aprirà la discussione sulla riforma in Parlamento saremo posti di fronte alla scelta se accettare o respingere la proposta avanzata pubblicamente da Giuliano Cazzola nei giorni scorsi: il vicepresidente della Commissione della Camera ha ipotizzato uno scambio tra riduzione della flessibilità in uscita – ovvero, maggiori vincoli in materia di licenziamenti – e ritorno a una maggiore larghezza sul versante delle collaborazioni autonome. Con Stefano Fassina abbiamo molto discusso, in questi anni, se davvero il precariato sia l’altra faccia della rigidità della disciplina dei licenziamenti nel rapporto di lavoro regolare a tempo indeterminato; non siamo riusciti a dirimere tra noi la questione teorica, ma sta di fatto che ora sarà la politica a imporre l’alternativa tra maggior protezione del lavoratore regolare contro i licenziamenti e maggior protezione di chi oggi è fuori da tutte le protezioni. Di fronte a questa stretta che cosa sceglieremo? Rinunceremo a recuperare al diritto del lavoro un milione e mezzo di partite Iva fasulle e lavoratori a progetto, pur di perfezionare la “manutenzione” del vecchio articolo 18 da cui campo di applicazione quel milione e mezzo è oggi del tutto escluso? Se compissimo questa scelta, ciò equivarrebbe a preferire che nulla cambi rispetto al regime attuale di apartheid fra protetti e non protetti. Significherebbe che non intendiamo varcare lo spartiacque politico di cui dicevo all’inizio.

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