CHIARIMENTI IN RIFERIMENTO AGLI INTERROGATIVI SORTI NELLA FASE DI PREPARAZIONE DEI DUE INCONTRI DI DISCUSSIONE DEL DISEGNO DI LEGGE, CHE SI SVOLGERANNO RISPETTIVAMENTE A MILANO IL 2 MARZO E A ROMA IL 10 MARZO 2009, PER INIZIATIVA DI DIVERSI CIRCOLI PD
DOMANDE DEI DISCUSSANTS ROMANI
Si può accettare la riduzione della protezione dell’art 18 per ricevere in cambio un indennizzo e l’assicurazione di disoccupazione. L’indennizzo calcolato secondo il criterio di una mensilità per ogni anno di servizio, però, può essere considerato in qualche caso come una contrpopartita insufficiente. C’è margine di ripensamento per aumentarlo?
Nella valutazione del trattamento riservato al lavoratore che perde il posto occorre non dimenticare che, oltre all’indennizzo che viene pagato direttamente e interamente all’atto della cessazione del rapporto, c’è anche un trattamento di disoccupazione che – se la nuova occupazione non viene trovata in pochi mesi, come dovrebbe accadere di regola – può durare fino a quattro anni, per un ammontare pari al (90 + 80 + 70 + 60 =) 300 per cento della retribuzione annuale: dunque tre annualità di retribuzione. Poiché l’ente bilaterale o consortile che eroga questo trattamento è interamente finanziato dalla/e azienda/e firmataria/e del contratto di transizione, il trattamento stesso ben può considerarsi come parte del firing cost accollato al datore di lavoro.
Per valutare la congruità di questo firing cost, dobbiamo confrontarlo con quello che le imprese si accollano negli altri Paesi europei maggiori; per quel che mi consta, l’assetto delineato nella bozza del disegno di legge comporta già così un costo mediamente superiore a tutti gli altri.
Detto questo, nulla vieta che l’indennità di licenziamento venga anche aumentata. Il problema, però è di salvaguardare l’equilibrio complessivo tra costi e benefici per le aziende firmatarie: altrimenti queste non firmeranno un bel nulla e la riforma resterà sulla carta. E’ questo il motivo per cui sostengo che la messa a punto della riforma deve essere affidato a una sorta di “concertazione” tra le parti sociali, in modo che ciascuno degli elementi della nuova disciplina rientri in quell’indispensabile equilibrio.
Sono emersi dei dubbi sulla durata dell’assicurazione di disoccupazione nel senso che 4 anni può apparire un tempo eccessivo tale da istigare il lavoratore alla pigrizia. È realistico ragionare sull’accorciamento dei tempi di disoccupazione e contestualmente definire in modo più specifico i compiti degli organismi preposti alla riqualificazione e ricollocazione del lavoratore?
Il limite dei quattro anni con la riduzione del 10% annuo del trattamento corrisponde esattamente al modello danese. Il rischio della riduzione della disponibilità del lavoratore, nella logica della riforma, dovrebbe essere neutralizzato dai poteri direttivi e di controllo che il “contratto di ricollocazione al lavoro” attribuisce all’ente bilaterale o consortile nei confronti del lavoratore: se quest’ultimo non si attiva debitamente, o rifiuta occasioni di lavoro congrue rispetto alla sua professionalità, l’ente può recedere dal contratto per giusta causa.
Alcuni evidenziano l’eccessiva gradualità della riforma, in quanto essa riguarda solo i nuovi contratti di lavoro e non quelli già esistenti. Su questo punto la riforma delle pensioni può essere un utile precedente da utilizzare come argomento a sostegno? O sarebbe meglio lavorare a una più rapida attuazione della transizione al nuovo regime?
Anche Marigia Maulucci (Cgil nazionale), in un intervento alla Consulta del Lavoro del Pd, ha sostenuto che la riforma dovrebbe essere applicata da subito anche ai “vecchi” dipendenti già in organico. Questo, però, altererebbe molto il delicato equilibrio politico di questa riforma. Credo che sia meglio lasciare che l’estensione ai “vecchi” avvenga per loro scelta, come previsto nel disegno di legge.
Per dare sostanza all’art. 36 della Costituzione nella parte in cui specifica che la retribuzione deve essere in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa è pensabile l’introduzione di un salario minimo garantito veramente adeguato alla situazione sociale attuale?
Nel terzo capitolo del mio libro “Il lavoro e il mercato” del 1996 (che non è più in commercio, ma ora si può scaricare dalla pagina web http://archivio.www.pietroichino.it/libri/view.asp?IDArticle=205), dove ho delineato per la prima volta questa riforma del diritto del lavoro, l’istituzione del “salario minimo” costituiva un elemento essenziale del progetto.
Occorre però distinguere
– il “salario minimo” inteso come standard retributivo orario minimo imposto a tutti i datori di lavoro
– dal “salario minimo garantito”, o “reddito di cittadinanza”, che implica un’imposta negativa (cioè una erogazione a carico dell’Erario) a favore di chi si trovi in situazione di povertà; su questo terreno, diverso da quello proprio del diritto del lavoro, sto lavorando a un progetto che prevede il reddito di cittadinanza per i giovani da 0 a 16 anni e per gli anziani over 65.
DOMANDE DEI DISCUSSANTS MILANESI
I news entrants nel nuovo regime (cioè con contratto di transizione) come possono usufruire delle nuove regole (contratto a tempo indeterminato e contratto di ricollocazione in caso di licenziamento), nel caso in cui le aziende datrici di lavoro non costituiscano gli enti bilaterali o i consorzi?
Se l’ente bilaterale o consortile non c’è, o non funziona, o è insolvente, il lavoratore new entrant ha comunque diritto, nei confronti dell’impresa firmataria del contratto di transizione, a un contratto di lavoro a tempo indeterminato e allo standard minimo di trattamento in caso di licenziamento.
Dove, invece, il contratto di transizione non sia stato stipulato, ai new entrants non si applica il nuovo regime.
Che cosa accade se il contratto di transizione prevede condizioni diverse da quelle previste nel disegno di legge?
Secondo il disegno di legge, il contratto di transizione è un contratto collettivo aziendale o inter-aziendale che deve prevedere:
– sia l’istituzione dell’ente (bilaterale o consortile) che gestirà l’assicurazione contro la disoccupazione e i servizi di assistenza per la ricollocazione al lavoro,
– sia standard minimi di trattamento economico e di servizi che l’ente (bilaterale o consortile) deve riservare al lavoratore che abbia perso il posto.
Se il contratto non rispetta questa previsione, esso non produce l’effetto dell’applicazione del nuovo regime ai new entrants.
Secondo il disegno di legge, è obbligatorio per tutte le imprese stipulare il contratto di transizione e garantire i trattamenti e strumenti necessari al reimpiego dei lavoratori licenziati?
No: questa obbligazione grava solo sulle imprese che intendono sperimentare il passaggio al nuovo regime. Se il contratto di transizione non viene stipulato, o viene stipulato con un contenuto di garanzia per i new entrants inferiore rispetto allo standard stabilito, non può verificarsi l’effetto della transizione al nuovo regime: continua ad applicarsi il vecchio (in altre parole: senza garantire ai propri dipendenti la security, le aziende non possono conseguire la flexibility propria del nuovo regime).
Ai giovani lavoratori il nuovo contratto di transizione conviene; ma quale interesse avranno le imprese a stipularlo, a scegliere il nuovo sistema? Quali convenienze avranno le imprese e i sindacati a costituire gli Enti bilaterali o i Consorzi?
I vantaggi per le imprese sono costituiti:
‑ dalla maggiore flessibilità della nuova forza-lavoro di cui disporranno: esse infatti potranno, in caso di necessità, procedere al licenziamento per motivi economici e organizzativi senza dover sottostare a controllo giudiziale su tale scelta e al rischio che essa venga annullata da una sentenza, anche a molti anni di distanza, come accade invece oggi, nel nostro vecchio regime;
‑ dalle migliori condizioni che esse in questo modo offriranno ai propri nuovi dipendenti, rispetto alla situazione attuale: questo consentirà loro di attirare i giovani migliori.
Il vantaggio per i new entrants sarà costituito dalla maggiore sicurezza che sarà loro offerta: saranno tutti assunti con un rapporto di lavoro regolare a tempo indeterminato, con la garanzia che, a seguito dell’eventuale licenziamento, essi non verranno abbandonati a se stessi, ma godranno di un forte sostegno del reddito e verranno assistiti efficacemente nel passaggio al nuovo lavoro.
Il progetto si fonda appunto sull’idea che la transizione al nuovo regime costituisca un grande “gioco a somma positiva”, nel quale hanno molto da guadagnare sia le nuove generazioni di lavoratori, sia le imprese (e i vecchi dipendenti non hanno nulla da perdere). Che le imprese possano avere interesse a questo “gioco” è dimostrato non soltanto dalla presa di posizione della Presidente di Confindustria, ma anche dalla lettera aperta inviata al ministro del Lavoro Maurizio Sacconi e al ministro-ombra del Lavoro Enrico Letta da settanta imprese medio-grandi, che sostanzialmente si dichiarano pronte a stipulare il contratto di transizione.
I costi. Vorrei sapere con esempi semplici e comprensibili (l’esempio può essere quello di un’azienda che assume dieci new entrants) quali costi graverebbero in più, rispetto all’attuale sistema contrattuale, per l’Azienda, per i lavoratori e per lo Stato; e, per quest’ultimo, in quale modo si troverebbero le risorse necessarie per passare dal vecchio al nuovo regime,
Ipotizziamo che questa azienda abbia stipulato con un sindacato (da sola o insieme ad altre) il contratto di transizione. Per effetto di questo contratto, l’impresa non potrà assumere “lavoratori a progetto” o comunque a termine, se non per sostituzioni temporanee o per punte stagionali di attività. Per tutti i lavoratori che l’impresa assumerà d’ora in poi, quando essi traggano più di metà del loro reddito dal rapporto di lavoro, essa pagherà un contributo pensionistico pari al 30% della retribuzione lorda (un po’ più dell’aliquota attuale per i “lavoratori a progetto”, un po’ meno di quella in vigore per i lavoratori subordinati); in più, essa dovrà versare all’ente bilaterale o consortile il contributo necessario per costituire il suo capitale di partenza e poi per mantenerne l’equilibrio economico: si calcola che l’entità media di questo contributo ammonterà a circa lo 0,5% delle retribuzioni lorde di tutti i new entrants. Tuttavia questo contributo sarà regolato da un meccanismo bonus/malus, che lo farà aumentare per le aziende che ricorreranno in misura maggiore ai licenziamenti economico-organizzativi, mentre lo ridurrà per quelle che vi ricorreranno in misura minore. Il meccanismo bonus/malus, insieme all’indennità proporzionale all’anzianità di servizio dovuta a ciascun lavoratore licenziato, costituirà un disincentivo contro il “licenziamento facile”. L’impresa che manterrà un tasso di licenziamenti per motivi economici od organizzativi pari alla media, godrà dunque di una leggera riduzione del costo del lavoro per i propri new entrants.
Non è previsto alcun contributo a carico dei lavoratori. Quanto allo Stato, un contributo a carico dell’Erario per il finanziamento degli enti bilaterali o consortili è previsto soltanto in riferimento alle imprese (firmatarie del contratto di transizione) che abbiano meno di 16 dipendenti: su questo contributo e sul suo finanziamento c’è più avanti una domanda specifica, con relativa risposta.
Quale vantaggio offre il contratto di transizione al sindacato?
Innanzitutto, la prospettiva di potersi fare interprete degli interessi delle nuove generazioni di lavoratori, dare voce alla loro esigenza fondamentale di superamento del regime di apartheid, che caratterizza oggi il nostro tessuto produttivo e che vede i giovani per lo più relegati nella parte cattiva del sistema. Inoltre, la prospettiva di una maggiore partecipazione alla gestione aziendale, della partecipazione diretta alla gestione (o almeno al controllo sul funzionamento) del sistema di formazione, riqualificazione e reinserimento del lavoratore licenziato.
Ma il sindacato italiano è maturo per assumersi questo nuovo ruolo?
Una larga parte del nostro movimento sindacale sicuramente sì.
Qual è la differenza tra ente bilaterale ed ente consortile? Chi nominerà gli amministratori nei due casi? Da che cosa dipenderà la scelta tra l’un modello o l’altro?
L’ente bilaterale è una struttura cogestita pariteticamente da impresa/e e sindacato/i: i suoi amministratori sono dunque nominati per metà da una parte, per metà dall’altra. È questo un modello di struttura di servizio che ha dato risultati ottimi in alcuni casi (per esempio nel settore dell’artigianato), meno buoni in altri casi (dove si sono osservati fenomeni di lottizzazione degli incarichi e scarsa attenzione all’efficienza e all’economicità della gestione). Il controllo del sindacato qui si esercita dall’interno stesso dell’ente.
L’ente consortile, invece, è una struttura gestita dalle sole imprese: i suoi organi gestionali sono dunque espressione soltanto del management delle imprese stesse e il controllo sindacale si esercita dall’esterno.
Il disegno di legge lascia alle parti stipulanti del contratto di transizione la scelta tra i due modelli, tenendo conto del fatto che attualmente si registra – in genere, salve frequenti eccezioni in entrambi i sensi – una tendenziale diffidenza nei confronti modello “ente bilaterale” da parte della Cgil, cui si contrappone un maggior favore nei confronti di questo modello da parte di Cisl e Uil. L’idea è di consentire all’autonomia collettiva, cioè alla contrattazione, la libera scelta del modello e lasciare che modelli diversi si confrontino, in modo che si possa poi, sulla base della sperimentazione, valutare pragmaticamente quale abbia prodotto i risultati migliori.
L’art 1, comma 2°, prevede che il finanziamento dell’ente bilaterale o consorzio sia a carico delle imprese che hanno stipulato il contratto di transizione e di quelle che vi abbiano aderito, mentre il 1° comma dell’art. 4 prevede che al finanziamento concorra, insieme al contributo a carico delle imprese interessate, anche quello del Fondo Sociale Europeo; e il 5° comma dell’art. 4 dispone il versamento a carico dell’Erario di uno 0,5% delle retribuzioni lorde dei lavoratori assoggettati al nuovo regime. Qual è la ragione di questo sistema composito di finanziamento e come funzionerà, precisamente?
Il progetto si fonda sull’opzione fondamentale per cui la transizione al nuovo regime di flexsecurity non deve, di norma, comportare oneri per lo Stato. La regola per cui devono essere le imprese a farsi carico dell’equilibrio economico degli enti bilaterali o consortili è indispensabile per garantire l’efficienza degli enti stessi: in caso contrario, infatti, i periodi di disoccupazione dei lavoratori licenziati si allungherebbero notevolmente e sarebbero le imprese stesse a doversene fare carico. Questo non impedisce, ovviamente, che per i servizi di formazione, riqualificazione, orientamento professionale outplacement e collocamento gli enti preposti si avvalgano dei contributi messi a disposizione – proprio per questi scopi – dal Fondo Sociale Europeo.
Un contributo a carico dell’Erario è previsto soltanto in riferimento alle nuove assunzioni compiute da imprese (firmatarie del contratto di transizione) con meno di 16 dipendenti: queste, infatti, sono soggette oggi a un regime nel quale il licenziamento può costare loro, al massimo, sei mensilità di retribuzione, ma mediamente assai meno. Qui è dunque indispensabile un contributo pubblico, se si vuole creare una convenienza per queste imprese a scegliere la transizione al regime di flexsecurity (nel quale il licenziamento comporta costi maggiori per l’impresa): il disegno di legge determina questo contributo pubblico nella misura dello 0,5% del monte salari dei new entrants. Come è spiegato nella relazione introduttiva al disegno di legge, se questo contributo a carico dell’Erario dovesse essere pagato per tutti i tre milioni attuali di dipendenti di aziende al di sotto della soglia dei 16 dipendenti, ciò comporterebbe un esborso pari a 500 milioni di euro annui. Nei primi anni di applicazione della nuova legge, però, è prevedibile che il numero dei new entrants coperti da contratti di transizione stipulati dalle imprese sotto la soglia dei 16 dipendenti sarà molto inferiore: questo consentirà una copertura finanziaria molto agevole nella fase iniziale.
Quanto tempo occorrerà prima che la “transizione” si compia e il nuovo sistema incominci ad entrare a regime?
Il nuovo regime instaurato dal contratto di transizione, nelle aziende che lo avranno stipulato, avrà una prima fase nella quale ci saranno soltanto assunzioni e nessun licenziamento (è facilmente prevedibile, infatti, che le imprese firmatarie non ingaggeranno lavoratori con la prospettiva di licenziarli subito dopo). In questa prima fase, il contributo versato dalle aziende firmatarie all’ente bilaterale o consortile neo-costituito servirà a costituire il capitale di base necessario per il suo funzionamento.
Si può prevedere che dopo circa un anno dalla stipulazione del “contratto di transizione” potranno incominciare ad arrivare i primi casi ‑ di licenziamento di lavoratori per motivi economici od organizzativi; ma si tratterà ancora di un numero di casi molto modesto. Questi serviranno all’ente bilaterale o consortile di incominciare e mettere a punto i nuovi metodi, sperimentando l’erogazione diretta del servizio oppure l’utilizzazione di agenzie di outplacement e/o di collocamento autonome.
Il sistema andrà a regime, presumibilmente, non prima di tre o quattro anni: il periodo, appunto, che consentirà al nuovo ente di “farsi le ossa”.
ll “tutor” (art. 3, comma 1°, lettera c) : che profilo deve avere e chi lo nominerà?
Si tratta di una figura mutuata dalle migliori esperienze scandinave. Il tutor sarà designato dall’ente bilaterale o consortile e dovrà essere una persona esperta degli itinerari necessari per la più rapida e soddisfacente ricollocazione del lavoratore, ma al tempo stesso capace di esercitare in modo appropriato ed equilibrato la funzione di indirizzo e controllo dell’attività svolta dal lavoratore in funzione del reperimento della nuova occupazione.
Il “valutatore indipendente” (art. 3, comma 2°) sarà una”figura di garanzia” a livello regionale. Non sarebbe, però, opportuno che le “disposizioni” fossero emanate direttamente dall’Agenzia centrale per la valutazione e la trasparenza piuttosto che dalla Regione?
Sì. È vero che la Costituzione (art. 117) attribuisce alle Regioni la competenza legislativa e amministrativa in materia di formazione professionale: anche la funzione di valutazione indipendente deve dunque, per norma costituzionale, essere svolta da un organo appartenente all’amministrazione regionale. Tuttavia, nel quadro delle nuove norme sulla valutazione dell’attività delle amministrazioni pubbliche varate in questi giorni dal Parlamento, spetterà proprio all’Agenzia centrale per la valutazione e la trasparenza il compito di individuare criteri di valutazione e indicatori omogenei che consentano il confronto tra i livelli di efficienza e produttività dei vari enti bilaterali o consortili che verranno istituiti per effetto dei contratti di transizione.
Il contributo per l’assicurazione contro vecchiaia ed invalidità (articolo 8) continua ad essere versato all’INPS?
Sì.
Non è il caso di prevedere un “ombrello” per il rischio di insolvenza dell’impresa o comunque un sistema di garanzia per i lavoratori interessati da questa eventualità?
Il comma 4° dell’art. 4 prevede l’eventualità dell’insolvenza dell’ente bilaterale o consortile, accollando in tal caso a ciascuna impresa le obbligazioni che l’ente stesso abbia contratto nei confronti di lavoratori licenziati da quell’impresa. Il disegno di legge non contiene alcuna disposizione per il caso di insolvenza dell’impresa, perché in questo caso i lavoratori dipendenti dalla stessa hanno la copertura del Fondo di Garanzia dell’Inps (che garantisce le ultime tre mensilità di retribuzione e il trattamento di fine rapporto) e, se licenziati, hanno diritto al contratto di ricollocazione con l’ente bilaterale o consortile – che è, di regola, soggetto diverso dall’impresa ‑, con la conseguente copertura assicurativa a carico dell’ente stesso.