PERCHÉ E COME IL PROGETTO DEL GOVERNO SUL LAVORO CORRISPONDE SOSTANZIALMENTE AL MODELLO TEDESCO

POICHÉ TUTTO IL DIBATTITO SEMBRA INCENTRATO SULL’IMITAZIONE DELLA GERMANIA, VALE LA PENA DI SOTTOLINEARE CHE LA SOLUZIONE PROPOSTA DAL MINISTRO DEL LAVORO FORNERO NON SI DISCOSTA AFFATTO, NEI SUOI EFFETTI PRATICI, DA QUANTO ACCADE IN QUEL PAESE

Nota tecnica messa on lineil marzo 2012, nel tentativo di svelenire il clima del dibattito sulla riforma proposta dal Governo – Il giorno successivo il portavoce della Presidenza del Consiglio ha diffuso un comunicato contenente una precisazione sostanzialmente coincidente con quanto osservo in questa nota 

L’idea diffusa è che la Cgil avrebbe accettato una riforma modellata sulla disciplina dei licenziamenti oggi vigente in Germania; ma che il rifiuto da parte sua del progetto del Governo sarebbe stato inevitabile, perché questo riprodurebbe il modello tedesco soltanto per i licenziamenti discriminatori e per quelli disciplinari, mentre per i licenziamenti dettati da motivi economici escluderebbe la possibilità della reintegrazione nel posto di lavoro. Il timore di molti è dunque che, quando l’imprenditore abbia motivato il licenziamento con ragioni economico-organizzative, questo precluda al lavoratore la possibilità di far valere in giudizio l’eventuale natura discriminatoria o di rappresaglia del provvedimento, per ottenere la reintegrazione.
Questo equivoco può essere dissipato con una precisazione del Governo circa il contenuto del progetto in rapporto all’ordinamento tedesco – e poi con la corrispondente clausola nel disegno di legge-delega – che chiarisca questi due punti:
  –   in Germania di fatto non accade mai che il giudice disponga la reintegrazione coattiva del lavoratore in azienda, salvo che ritenga che sotto il motivo economico-organizzativo addotto dall’imprenditore ci sia un motivo reale di discriminazione o di rappresaglia;
  –   con il progetto di riforma si intende realizzare esattamente lo stesso assetto: il lavoratore potrà sempre agire in giudizio per denunciare l’eventuale motivo discriminatorio o di rappresaglia dissimulato sotto il motivo economico-organizzativo; e se, sulla base delle circostanze, il giudice riterrà che ci sia stata discriminazione o rappresaglia, il lavoratore dovrà essere reintegrato nel posto di lavoro;
  –   laddove invece il giudice non ravvisi un motivo discriminatorio o di rappresaglia, ma soltanto una insufficienza del motivo economico-organizzativo addotto, dovrà essere disposto il solo indennizzo.
L’obiezione è questa: se davvero, in sostanza,  il progetto del Governo corrisponde al modello tedesco, perché non far sì che esso corrisponda anche nella forma, lasciando al giudice l’alternativa tra indennizzo e reintegrazione anche in materia di licenziamento economico? La risposta è questa: mentre in Germania si è consolidata da decenni un orientamento giurisprudenziale per cui la reintegrazione coattiva di fatto viene disposta soltanto quando il giudice ravvisa la discriminazione o rappresaglia, in Italia la formulazione attuale dell’articolo 18 St. lav. ha determinato il consolidarsi dell’orientamento giurisprudenziale opposto; se dunque si vuole allineare per questo aspetto il nostro ordinamento alla Germania, è indispensabile che la norma orienti in modo più esplicito i giudici
Sono convinto che una nota del Governo di questo tenore contribuirebbe non poco a svelenire il clima. Poi, sarà importante che il testo del disegno di legge sia molto preciso su questo punto.
Quanto alla distinzione tra licenziamento economico e licenziamento disciplinare, la soluzione che io avrei preferito sarebbe stata questa:
   – se l’imprenditore licenzia per motivo oggettivo, è automaticamente e sempre tenuto a pagare un indennizzo, che costituisce il vero “filtro” delle sue scelte (se è disposto a pagare l’indennità prevista, significa che la perdita attesa è superiore), salvo sempre il controllo giudiziale su discriminazioni e rappresaglie; questa soluzione mi sembra molto preferibile a quella dell’indennizzo dovuto solo all’esito del giudizio, che sembra essere stata adottata nella bozza su cui sta lavorando il Governo;
   – se l’imprenditore vuole esimersi dal pagamento dell’indennizzo, allora deve dimostrare la colpa del lavoratore (e in tal caso si entra senza problemi – per iniziativa dell’imprenditore stesso e nel suo interesse – nella fattispecie del licenziamento disciplinare).
Questa soluzione presenterebbe per il lavoratore il vantaggio, nel caso di licenziamento per motivi economici, di poter disporre dell’indennità senza bisogno di avvocati e giudici; per l’amministrazione della Giustizia il vantaggio di un rilevante decongestionamento delle Sezioni lavoro. Spero che il Parlamento corregga il progetto in questo senso. È anche vero – e va detto per sdrammatizzare la questione – che, anche se la norma resterà formulata secondo la proposta del Governo, probabilmente nella maggior parte dei casi le parti si accorderanno direttamente sull’entità dell’indennizzo senza attendere una sentenza.

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