L’INTERVENTO DELL’ECONOMISTA PERSICO E LA RISPOSTA DI ANDREA ICHINO E PAOLO PINOTTI, AUTORI DELL’ARTICOLO CHE HA DATO ORIGINE AL DIBATTITO, CENTRATA SU DI UN INTERESSANTE CONFRONTO FRA TERAPIE MEDICHE E METODI DI SOLUZIONE DELLE CONTROVERSIE DI LAVORO
Articolo di Nicola Persico, pubblicato sul sito lavoce.info il 16 marzo 2012, seguito dalla replica di Andrea Ichino e Paolo Pinotti – Gli scambi precedenti, originati dall’articolo La roulette russa delle cause in tema di licenziamento, sono i seguenti: Roulette russa dei giudizi – 1 – , Rolulette russa dei giudizi – 2 –, Rolulette russa dei giudizi – 3 –�
Gli articoli hanno creato un certo rumore nell’ambiente giudiziario per (almeno) due motivi. Primo, perché propongono dati che sembrano mettere in discussione l’operato della magistratura. Secondo, perché l’obiettivo retorico dell’articolo sembra essere principalmente l’articolo 18, e quindi la magistratura sembra essere una “vittima casuale” all’interno dell’architettura dell’articolo.
Ho studiato alcuni degli stessi dati utilizzati in questi articoli, vorrei perciò aggiungere una mia prospettiva. Spero sia utile a chi si interessa della efficienza della giustizia, una importante questione per l’Italia.
Una prima osservazione è che la durata dei processi riflette il pregresso oltre all’operosità di un singolo magistrato. Se a un nuovo arrivato in sede viene addossato un forte carico di casi aperti, questo magistrato sarà necessariamente più lento in tutti, anche quelli futuri, nella misura in cui il pregresso si trascina e si accumula. Quindi, salvo un’analisi approfondita della durata dei processi basata sull’intera storia lavorativa del magistrato, i dati hanno un valore limitato.
Secondo: l’articolo 18 può piacere o non piacere, ma comunque richiede al giudice di rendere un giudizio sui fatti. È naturale aspettarsi qualche variabilità nel modo in cui giudici diversi interpretano uno stesso fatto; non foss’altro perché la giurisprudenza (applicazione delle norme ai fatti) deve essere plastica e si deve evolvere nel tempo, per adattarsi al mutare dei rapporti produttivi. La plasticità, ragionevolmente, non può realizzarsi istantaneamente e uniformemente fra i vari giudici. Quindi, non solo dobbiamo aspettarci qualche differenza fra i diversi giudici, ma è anche opportuno che ci sia. La vera questione è quanto sia grande la divergenza.
Diverse interpretazioni della legge
È proprio la questione affrontata in un recente articolo accademico americano (1). L’articolo inizia con la notazione che “certamente, l’esistenza di differenze di comportamento fra giudici refuta l’asserzione che il processo di aggiudicazione sia obiettivo e meccanico, ma questa asserzione non ha mai avuto molti sostenitori”. In altri termini, è ben noto che vi siano discrepanze nei tassi di aggiudicazione. Il contributo dell’articolo è di cercare di quantificare quante di queste discrepanze siano dovute a errori di applicazione della legge, e quante invece siano dovute a legittime differenze di interpretazione. L’analisi statistica proposta è troppo complessa per essere descritta qui, ma il risultato è che differenze anche grandi non necessariamente riflettono errore. Si guardi alle enormi discrepanze nella figura che segue e che si riferisce alle decisioni in materia di immigrazione del tribunale di New York. Si noti che il giudice Bain consente l’immigrazione in quasi il 90 per cento dei casi, mentre il giudice Jankun in meno del 5 per cento. E l’analisi statistica permette di concludere che, se più del 25 per cento dei casi è aperto a differenze di interpretazione, allora il tasso di errore desumibile dalla figura può essere inferiore al 10 per cento.
[Per la tabella qui inserita nel testo, cfr. il sito de lavoce.info].�
Le discrepanze italiane evidenziate dagli articoli sul Corriere della Sera e lavoce.info sono molto inferiori a quelle dei giudici americani. Dunque il tasso di errore desumibile sarà inferiore al 10 per cento.
Ma, nel caso italiano, c’è un punto ancora più delicato, che ha a che vedere con la misurazione del fenomeno. Le statistiche addotte a supporto della discrepanza sono parziali. Per esempio, su lavoce.info si legge: “A Milano, ad esempio, [il giudice meno favorevole al lavoratore] decide il 7 per cento dei casi a favore del lavoratore, mentre il suo collega all’estremo opposto decide a favore del lavoratore il 27 per cento dei processi”. Vero. Però è vero anche che la maggioranza delle decisioni (90 per cento per il primo giudice, e più del 60 per cento per l’altro) sono classificate come “altri esiti” o “conciliate”. Non è possibile sapere se le decisioni in queste categorie favoriscano il lavoratore o l’impresa. E quindi il dato statistico è parziale. In assenza di maggiori informazioni, è opportuno essere cauti nel rilevare una discrepanza.
Insomma, l’argomento degli articoli sul Corriere e lavoce.info è interessante. È legittimo e importante studiare l’eterogeneità nelle decisioni giudiziarie. È però necessario farlo in modo approfondito, data l’importanza di queste questioni.
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(1) Fischman, Joshua B., Inconsistency, Indeterminacy, and Error in Adjudication (February 27, 2012). Virginia Public Law and Legal Theory Research Paper No. 2011-36. Available at SSRN: http://ssrn.com/abstract=1884651.
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LA REPLICA DI ANDREA ICHINO E PAOLO PINOTTI
Ringraziamo Nicola Persico per aver portato nuova linfa al confronto di opinioni tra economisti e magistrati originato dai nostri articoli, confronto che, per inciso, forse non avrebbe avuto luogo senza gli articoli stessi.
Può essere utile, per chiarire il nostro pensiero alla luce dei commenti di Nicola, considerare il caso di una malattia che, allo stato attuale delle conoscenze mediche, possa essere curata solo con un intervento chirurgico eseguibile in diverse varianti tutte molto incerte. I pazienti arrivano al pronto soccorso e casualmente trovano in servizio uno dei tanti chirurghi di un ospedale. Questi chirurghi sono tutti bravissimi, ma hanno legittime opinoni diverse su quale sia la variante migliore di intervento a seconda delle pecularità specifiche del malato. I cittadini, quindi, senza alcuna “colpa” dei medici, si trovano esposti ad una lotteria, riguardo ai risultati dell’operazione, che in parte deriva dall’incertezza stessa della tecnica chirurgica e in parte deriva anche dai legittimo orientamenti del medici. È perfettamente possibile che la variante A preferita dal medico X generi mediamente esiti più infausti, ma, in caso di successo, dia risultati migliori. Viceversa la variante B preferita dal medico Y.
In questo contesto, ipotizziamo che venga scoperta una terapia farmacologica che riduce notevolmente la variabiltà degli esiti terapeutici, anche senza assicurare guarigione certa. La terapia farmacologica riduce solamente l’incertezza a cui sono esposti i cittadini che devono ricorrere al pronto soccorso. Per quale motivo l’ospedale non dovrebbe prendere in considerazione questa terapia alternativa, che implicherebbe di non affidare più ai chirurghi il trattamento dei casi corrispondenti?
I nostri articoli non erano finalizzati a stabilire quanto della variabilità dei tempi e degli esiti osservati nei tribunali considerati sia dovuta a “errore” del giudice. Questa è la domanda studiata nel saggio americano citato da Nicola Persico, ma non è la domanda che a noi interessa. Anche se la variabilità fosse interamente dovuta a validissimi motivi (cause pregresse nel caso dei tempi, legittimi orientamenti nei casi degli esiti). Il nostro punto rimarrebbe valido: l’attuale assegnazione casuale dei processi ai giudici, per ottemperare all’art. 25 della Costituzione, genera una lotteria per i cittadini anche senza colpe per i magistrati. Questa lotteria è inevitabile per molti processi in cui l’accertetamento giudiziale è insostituibile, ma almeno per quelli dovuti a giustificato motivo oggettivo esiste una “terapia” alternativa che assicura al cittadino meno incertezza.
E questo a maggior ragione nei casi di licenziamento per motivo economico e organizzativo, nei quali i giudici non devono interpretare “uno stesso fatto” come ritiene Nicola. Devono invece esprimere una valutazione sul futuro, ossia sulla probabilità che il posto di lavoro in futuro generi una perdita e su quanto grande questa perdita sia. E, alla luce di queste valutazioni, devono decidere se la perdita attesa (data dalla probabilità di perdita moltiplicata per l’entità della perdita) sia sufficientemente alta da potersi considerare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
Per inciso, vale la pena di ricordare anche che, nell’attuale disciplina, il lavoratore (sfortunato) per il quale il licenziamento venga considerato legittimo per motivo economico-organizzativo (e quindi senza nessuna sua colpa) si ritrova con un pugno di mosche in mano. Con il metodo del risarcimento, potrebbe in ogni caso godere di una somma di denaro che lo aiuterebbe a transitare ad altra occupazione. Anche solo per questo motivo, non sembra preferibile la “terapia alternativa”?
Riguardo ai casi conciliati, il nostro articolo dice chiaramente che: “Sotto l’ipotesi che la frazione di sentenze favorevoli al lavoratore emesse da un giudice sia proporzionale al grado in cui le conciliazioni indotte dallo stesso giudice siano favorevoli al lavoratore, possiamo concludere che, anche tenendo conto dell’elevato numero di conciliazioni, la lotteria derivante dall’assegnazione casuale dei processi ai magistrati di un tribunale implica probabilità di vittoria molto differenti a seconda della sorte.” Ci sembra un ragionamento basato su un’ipotesi plausibile, da verificare ovviamente se fossero disponibili dati precisi sugli esiti delle transazioni conciliative. Anche in questo caso servono dati e trasparenza per una ricerca che sarebbe utilissima.
Infine colpisce, sempre a proposito di trasparenza totale, come essa sia interpretata negli USA: lo studio americano riporta addirittura la performance dei differenti giudici con il loro nome!