Articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 27 aprile 2008
Devo una risposta all’editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere di ieri, ai numerosi articoli comparsi su altri giornali nei giorni scorsi, alle centinaia di messaggi che mi sono pervenuti, dopo la mia risposta negativa alla proposta di Silvio Berlusconi di assumere la carica di ministro del Lavoro nel suo governo. In questi messaggi di amici e sostenitori, circa due terzi esprimono pieno consenso (in qualche caso con motivazioni che non condivido, perché venate di manicheismo politico); gli altri esprimono dissenso e talvolta anche delusione. È soprattutto a questi ultimi che voglio rispondere.
Qualcuno mi ha ricordato la scelta compiuta nel 2001 da Marco Biagi, socialista, di collaborare con il governo di centro-destra proprio per superare le vecchie, sterili contrapposizioni ideologiche sulle politiche del lavoro. Ma Marco non aveva partecipato alla fondazione del partito opposto, non si era impegnato nella costruzione della sua cultura e politica del lavoro, non era stato eletto nelle sue liste. E il suo ruolo è stato di consulente del ministro.
È vero – e va detto chiaramente ‑ che Silvio Berlusconi non mi ha prospettato affatto di “tradire” il mio partito e i miei elettori. Ciò che egli mi ha proposto è invece di farmi garante, nella veste di membro del nuovo esecutivo, di un accordo tra maggioranza e opposizione sulla politica del lavoro di questa nuova legislatura: accordo, certo, auspicabile, considerati i difetti gravissimi di funzionamento del nostro mercato del lavoro. Il problema è che, prima di una nuova politica del lavoro bi-partisan ‑ esperimento possibile, ma inedito nel panorama internazionale – logica vorrebbe che si incominciasse con lo sperimentare l’accordo sul terreno su cui solitamente maggioranza e opposizione cooperano nelle democrazie più mature della nostra: che venissero dunque negoziate almeno le linee delle riforme istituzionali più urgenti, in particolare di quella elettorale; che si instaurasse un rapporto di cooperazione responsabile sul terreno della politica europea, incominciando dalla scelta del commissario italiano a Bruxelles; e sul terreno della politica estera. Se maggioranza e opposizione non sono capaci di un accordo su queste materie fondamentali, come può reggere per un’intera legislatura un accordo limitato alla politica del lavoro?
Per far parte utilmente e stabilmente di un governo non basta essere d’accordo con il premier e con gli altri ministri sul solo programma del proprio dicastero. Occorre anche condividere con loro, quanto meno, la visione generale della direzione in cui muoversi e la parte dei programmi degli altri dicasteri che più direttamente si intreccia con quello di propria competenza: oltre alla politica relativa alle riforme istituzionali, anche la politica industriale, quella fiscale, quella relativa alle amministrazioni pubbliche e altre ancora. Senza accordo su questi temi, un programma bi-partisan sulla politica del lavoro avrebbe ben poco respiro politico. Per fare soltanto due esempi, come ministro di un governo Berlusconi sarei in grave difficoltà a condividerne la linea di protezione dell’“italianità” di Alitalia (come di altre grandi imprese) che invece da tempo denuncio come pesantemente negativa; e sarei in grave imbarazzo ‑ dopo aver presentato agli elettori con convinzione le proposte del PD di forte incentivazione del lavoro femminile ‑ nel dover approvare scelte della maggioranza che mi sembrano ispirate a una concezione molto diversa, quale quella sul “coefficiente fiscale familiare”.