PARITÀ DI DIRITTI SINDACALI PER I DIPENDENTI LOCALI DELLE AMBASCIATE ITALIANE NEL MONDO

CON L’APPROVAZIONE DEFINITIVA DI QUESTA LEGGE VIENE SUPERATA UNA DISCRIMINAZIONE CHE HA PENALIZZATO FINO A OGGI GLI IMPIEGATI DELLO STATO ITALIANO RESIDENTI ALL’ESTERO E ASSUNTI PRESSO LE SEDI ESTERE

Interventi di Pietro Ichino, Maurizio Castro, Tiziano Treu e Oreste Tofani, nella seduta antimeridiana del Senato del 15 marzo 2012 – All’esito della discussione e della reiezione di tutti gli emendamenti, il testo del disegno di legge n. 1843, già approvato in prima lettura dalla Camera dei Deputati, è stato approvato in via definitiva dal Senato, con l’astensione del PdL – Segue il comunicato-stampa del senatore Claudio Micheloni su questa vicenda parlamentare

ICHINO (PD). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ICHINO(PD). Signor Presidente, colleghi – Il principio di uguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione e quello di libertà sindacale di cui al primo comma dell’articolo 39 segnano un limite molto preciso alla discrezionalità del legislatore ordinario nella regolamentazione dei rapporti sindacali di cui stiamo discutendo.
In particolare, il principio di uguaglianza vieta di discriminare, nella disciplina dei diritti sindacali, i dipendenti di uno stesso ente (oltretutto, nel caso che ci occupa, amministrazione pubblica) a seconda della loro nazione o residenza, o della disciplina particolare applicabile al singolo rapporto di lavoro.
Quanto alla libertà sindacale, il regime costituzionale oggi vigente si distingue nettamente dal regime corporativo previgente in quanto esso abroga il principio del cosiddetto “inquadramento costitutivo”, in forza del quale la “categoria” professionale e sindacale è definita autoritativamente dalla legge dello Stato e il contratto collettivo come ogni altra attività sindacale deve incanalarsi nell’alveo così precostituito. Il primo comma dell’articolo 39 della Costituzione ha rovesciato quel rapporto tra categoria e contratto, stabilendo che è il contratto – preceduto dal libero aggregarsi dei lavoratori e l’attività sindacale che ne consegue – e solo il contratto a istituire la categoria. Tanto basta, a mio avviso, per escludere che il legislatore possa intervenire autoritativamente per precostituire una categoria a sé stante di lavoratori dipendenti delle ambasciate italiane all’estero.
Diverse norme europee e internazionali – ratificate dall’Italia – vietano qualsiasi differenza di trattamento disposta dall’ordinamento nazionale tra lavoratori regolari, fondata sulla loro nazionalità, residenza od origine nazionale. Tra queste segnalo soprattutto:
   – la convenzione O.I.L. n. 143/1975, ratificata dall’Italia con legge 10 aprile 1981 n. 158, la quale, nella sua seconda parte, vincola gli Stati aderenti a “promuovere e garantire la parità di opportunità e di trattamento” in favore dei lavoratori stanieri; a maggior ragione tale principio si applica ai cittadini italiani residenti all’estero, in funzione della loro partecipazione all’elezione delle rappresentanze sindacali delle sedi estere delle nostre ambasciate;
   – l’articolo 39 del Trattato UE, che vieta qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità o residenza tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro” (tra le quali vanno sicuramente ricompresi – per giurisprudenza e dottrina costanti – i diritti sindacali). Lo stesso principio è ribadito, sia pure in forma meno incisiva e netta, negli articoli 1-3 della Carta sociale europea, che allarga l’area di applicazione del detto principio a tutti i Paesi aderenti.
Ne risulta, a mio avviso, evidente l’illiceità nell’ambito dell’ordinamento internazionale e ancor più nell’ambito di quello europeo   di una differenza di trattamento motivata esclusivamente dalla residenza del lavoratore o dalla dislocazione della prestazione di lavoro in località estera piuttosto che in Italia.
Questi essendo i principi generali e i vincoli cui la legislazione ordinaria deve fare riferimento, per un verso il disegno di legge qui in esame, approvato dalla Camera dei Deputati, appare come un atto dovuto: esso, infatti, non fa altro che applicare il principio di parità di trattamento sul piano dei diritti sindacali, nei confronti di lavoratori che operano, in virtù di un rapporto di lavoro regolare, alle dipendenze delle ambasciate italiane all’estero, quale che sia il contenuto e la disciplina legislativa dei contratti di lavoro di cui essi sono titolari. Per altro verso – e conseguentemente   appare errato il parere espresso dalla undicesima Commissione del Senato, nel quale sostanzialmente viene proposta una sorta di riedizione del regime pre-costituzionale dell’“inquadramento costitutivo”: si sostiene, cioè, che ai fini sindacali e della contrattazione collettiva sarebbe la legge (italiana) stessa a definire a priori le “categorie” entro le quali dovrebbe svolgersi l’attività sindacale e la contrattazione collettiva del personale delle ambasciate, vietando aggregazioni diverse.
Questa conclusione non muta per il fatto che una parte dei rapporti individuali di lavoro dei dipendenti delle nostre ambasciate possa essere per molti aspetti disciplinata dalla legge del Paese straniero, che viene in tal modo recepita dal nostro ordinamento nazionale. Qui infatti stiamo discutendo di un aspetto di quei rapporti di lavoro che invece la legge italiana intende disciplinare direttamente: l’esercizio dei diritti sindacali in seno alle nostre ambasciate con riferimento a tutti i dipendenti delle ambasciate stesse. Nella misura in cui la legge italiana interviene, essa deve rispettare il principio costituzionale di libertà sindacale in tutta la sua portata – come mi sono proposto di presentarla e il principio internazionale ed europeo di parità di trattamento, anche per questo aspetto, tra i dipendenti delle ambasciate.
Aggiungo infine che entrambi i principi menzionati devono intendersi come facenti parte dell’“ordine pubblico internazionale”, il quale impedirebbe la recezione nel nostro ordinamento di disposizioni provenienti da legislazioni straniere in ipotesi contrastanti con i detti principi. Donde un’ulteriore conferma dell’applicabilità a tutti i dipendenti delle nostre ambasciate del principio di libertà sindacale e in particolare di libertà di aggregazione, di rappresentanza e di contrattazione collettiva. (Applausi dal Gruppo PD e della senatrice Giai).

[…]

CASTRO (PdL). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CASTRO (PdL). Signor Presidente, signor Sottosegretario, […] intervengo nella mia qualità di Capogruppo del Popolo della Libertà in Commissione lavoro e quindi per un doveroso impegno istituzionale. Come loro ricorderanno, la Commissione lavoro fece registrare un’ampia convergenza intorno ad una mozione di censura dei contenuti di questo provvedimento che poi fu disattesa dal successivo dibattito. Parlavo di dovere istituzionale, ma adesso potrei parlare persino di un po’ di piacere, dato che mi occorre tutte le mattine di essere soavemente svegliato da decine di e-mail scritte da baldi giovanotti che prestano servizio talora a Ouagadougou, talora a Ulan Bator, i quali mi rivolgono i più affettuosi insulti, avendo ben contezza, costoro, che io sia firmatario di un emendamento ostile alla loro tesi. Tra l’altro, signor Sottosegretario, se questo è l’atteggiamento di costoro nei confronti di un decisore pubblico, mi chiedo davvero se sappiano poi rappresentare l’interesse del Paese o delle imprese italiane nelle relazioni diplomatiche. (Applausi dal Gruppo PdL).
Ieri non potevo non sorridere – e guardo gli amici e colleghi Passoni e Nerozzi – per l’ultima accusa che mi è stata rivolta, cioè quella di essere una sorta di ancella della CGIL. Capisco che la mia sia una biografia minima, assolutamente periferica e irrilevante, ma questa non l’aveva mai pensata nessuno. Ancora una volta, signor Sottosegretario, sommessamente e umilmente le dico che se questi giovanotti di Ulan Bator e Ouagadougou studiano i dossier con i quali accompagnano le imprese e le vicende diplomatiche con la stessa cura con la quale accusano me di essere ancillare rispetto alla CGIL, qualche dubbio sull’effettività della loro tenuta professionale mi permetto di nutrirlo. (Applausi dal Gruppo PdL).
Le ragioni che sostiene la Commissione lavoro nella sua dominante componente, che personalmente sostengo convintamente, fanno riferimento al fatto che questa legge, se venisse approvata nella sua attuale versione, realizzerebbe un vulnus irrimediabile dei principi fondativi della rappresentanza sindacale nel nostro sistema. Si tratta di quei medesimi principi recepiti nell’accordo interconfederale del 28 giugno, a sua volta recepito con la manovra straordinaria d’agosto nella nostra legislazione strutturale.
È evidente, infatti, che nella nostra legislazione non è concepibile che la rappresentanza sia estranea al perimetro legale e contrattuale che ne costituisce l’unica fonte di legittimazione. È il principio in base al quale i dipendenti di un’impresa fornitrice o appaltatrice di servizi, ad esempio, non possono essere eletti RSU nella rappresentanza dell’impresa che si avvale della fornitura della ditta di loro provenienza. È assolutamente evidente, insomma, che i dipendenti della mensa o i dipendenti della società che cura le pulizie non possono essere eletti RSU dell’impresa alla quale la loro ditta fornisce un servizio di mensa o di pulizia.
Se si volesse ulteriormente sostenere che invece vale il principio dell’unicità del soggetto dell’impresa, sarebbero decine, anzi, centinaia i casi di siti produttivi nei quali il medesimo gruppo detiene società o divisioni che, occupandosi di business diversi, sono regolate da diversi contratti. La grande impresa di elettrodomestici, pertanto, ha inquadrati insieme nel settore del credito coloro che si occupano del factoring, in quello dei servizi coloro i quali si occupano di distribuzione e in quello metalmeccanico coloro che si occupano di produzione. Nessuno al mondo si è mai sognato che i dipendenti inquadrati nel settore del credito, dato che forniscono servizi di factoring, potessero essere eletti RSU insieme ai produttori di frigoriferi nella catena di montaggio degli stabilimenti di Susegana o Porcia. Se introducessimo tale principio, cadrebbe la sostanza stessa della tradizione giuslavoristica italiana. In un momento in cui il Governo, che tanto autorevolmente lei rappresenta, è impegnato con serietà, dedizione ed intelligenza a riscrivere il sistema delle regole non solo del mercato del lavoro italiano, ma anche delle relazioni industriali che costituiscono un fattore competitivo vettorialmente cruciale per il risanamento e la ripresa del Paese, questa sarebbe una sgrammaticatura, una claudicanza irrimediabile.
Signor Sottosegretario, guardiamo con grande favore al fatto che il Ministero degli affari esteri, nella prospettiva di quelle ragioni di tutela che ben comprendiamo, promuova l’introduzione, attraverso la contrattazione collettiva con le organizzazioni legittimate ad esercitarla, di una piattaforma comune di diritti sindacali minimi che potrebbero sostenere anche quei lavoratori che, essendo inquadrati in contratti locali, discendenti da leggi locali, altrimenti rischierebbero di vedere quel sistema di diritto inadeguatamente rappresentativo di uno standard internazionale che l’Italia riconosce doverosamente proprio. Si tratta, però, di un’attività radicalmente diversa dalla forzatura secondo la quale abusivamente chi è dipendente in base a una legge diversa e a un contratto diverso si troverebbe a rappresentare lavoratori regolati da altre leggi e altri contratti. Francamente, si tratta di un mostruoso OGM, di una creatura malefica e graveolente, di cui davvero non sentiamo bisogno di vedere l’immonda nascita. (Applausi dal Gruppo PdL).

[…]

TOFANI (PdL). Domando di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOFANI (PdL). Signora Presidente, questa mia dichiarazione non coincide, come lei ha detto prima, con la dichiarazione di voto del mio Gruppo, perché dissento da tale emendamento per un motivo di fondo. Ho avuto modo di approfondire questo tema in quanto relatore designato prima che cambiassi Commissione e quindi il senatore Bettamio, che adesso egregiamente sta svolgendo il ruolo di relatore, iniziasse a seguire questo provvedimento.
Pongo all’Assemblea e a me stesso il seguente quesito: di quale personale stiamo parlando? Stiamo parlando di personale che non ha un contratto di lavoro italiano, che ha un contratto di lavoro locale. Non c’è, quindi, una dipendenza con il Ministero degli esteri. Tra l’altro, non si tratta di un unico contratto, sia pure spalmato nelle varie realtà internazionali dove si va a determinare, ma sono contratti singoli, neanche per ogni Nazione, ma per ogni territorio.
A questo punto, allora, come facciamo, non essendo la maggior parte delle persone che hanno o che avranno questo contratto neanche cittadini italiani, pensare noi di regolare le loro relazioni sindacali? È un quesito che per mesi ci ha imposto in Commissione una serie di riflessioni e una serie di audizioni. Al di là delle sensibilità dei vari organismi sindacali, e non solo, che abbiamo sentito, nessuno è riuscito a dare una risposta convincente, non perché non fossero convincenti gli interlocutori, ma perché è un argomento scritto sull’acqua e non può essere visibile, perché le onde lo cancellano.
Ci stiamo, quindi, arrogando il compito di svolgere noi attività di coordinamento, anche da un punto di vista legislativo. Infatti, l’emendamento non ne parla, ma mi chiedo se lo Statuto dei lavoratori verrà comunque tenuto presente come elemento di riferimento da queste realtà sindacali che si andranno organizzando all’estero. Ma come sarà possibile tenerlo presente se questi signori non sono cittadini italiani? Quale apporto riceveranno effettivamente, se non un generico, ma pur importante – che io condivido – principio secondo il quale devono avere il diritto di organizzarsi sindacalmente? Bene: che si organizzino lì sindacalmente.
Signora Presidente, anche i lavoratori delle multinazionali, che operano in varie Nazioni e in vari territori nel mondo, o hanno un riferimento contrattuale tale che in qualche modo vi siano regole comuni, oppure si adeguano alle specificità del luogo in cui vanno, non solo da un punto di vista economico (si considerino, ad esempio, le delocalizzazioni), ma anche da un punto di vista giuridico.
Per questo motivo, ho molto apprezzato la proposta del Sottosegretario – e lo ringrazio per questo – di chiedere un maggiore approfondimento; dato che non se ne è data la possibilità, io non sono d’accordo e non voterò questo emendamento. (Applausi dal Gruppo PdL).

[…]

TREU (PD). Domando di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TREU (PD). Signora Presidente, io non avrei voluto intervenire ma dato che vi è stata una variazione delle posizioni, aderisco agli argomenti generali espressi in particolare dal senatore Tonini. Comunque, per motivare il voto contrario sull’emendamento 1.102 reintrodotto dal collega Castro, voglio solo aggiungere che gli argomenti da lui così appassionatamente sostenuti poco fa, secondo i quali si violerebbero i principi fondamentali dell’ordinamento italiano, mi sembrano veramente forzati. Infatti, oltre al fatto che esiste ormai una normativa internazionale in materia ricordata anche dal collega Ichino, in realtà non è così perché gli esempi addotti dal senatore Castro relativamente all’opportunità e all’impossibilità di far votare insieme persone diverse, dipendenti da situazioni diverse, non si attagliano alla situazione attuale nella quale vi sono lavoratori che dipendono dalla stessa realtà produttiva – in questo caso, in senso lato, le nostre ambasciate – che svolgono lavori simili e sono colleghi. Quindi, con gli accorgimenti del caso e ricordando che le indicazioni emerse dal dibattito si possono seguire anche sulla base di un ordine del giorno, farli votare insieme risponde ad un fondamentale principio, nient’affatto contrario al nostro ordinamento.
Per queste motivazioni, il voto del Gruppo democratico sull’emendamento 1.102 sarà contrario. (Applausi del senatore Morando).

[…]

IL COMUNICATO-STAMPA DEL SENATORE CLAUDIO MICHELONI
E’ stato approvato oggi al Senato il ddl sui diritti sindacali del personale del Ministero degli Affari Esteri. Con soddisfazione il senatore Claudio Micheloni dichiara: “Il Senato ha definitivamente approvato il disegno di legge n. 1843 dell’onorevole Marco Fedi (Modifiche al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, in materia di diritti e prerogative sindacali di particolare categorie di personale del Ministero degli Affari Esteri), approvato alla Camera nel 2009, che estende a tutti i contrattisti della rete diplomatica all’estero il diritto di partecipare alle elezioni delle RSU”. Con questa decisione, il Parlamento ha finalmente concluso la decennale vicenda dei diritti di rappresentanza sindacale unitaria del personale con contratto in loco, in servizio presso le rappresentanze diplomatiche consolari e gli istituti italiani di cultura all’estero. “Il Parlamento italiano ha oggi soppresso una discriminazione che penalizzava gli impiegati dello Stato Italiano che, pur lavorando all’estero, erano di fatto operativi sul territorio italiano” – afferma il senatore Claudio Micheloni. “Colgo l’occasione – ha concluso il Senatore – per ringraziare la Presidente del gruppo PD al Senato, sen. Anna Finocchiaro, il capo gruppo PD della Commissione Esteri, sen. Giorgio Tonini, i quali, con la loro sensibilità, impegno e tenacia hanno permesso questo risultato positivo. Voglio, inoltre, ringraziare i firmatari del disegno di legge alla Camera, in particolare l’onorevole Marco Fedi, il cui impegno aveva permesso di ottenere il voto unanime alla Camera”.

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